Fra
tutte le epidemie, i sismi, i tifoni, gli sbarchi di cavallette, le iracondie
delle acque, le scarmigliate incursioni delle comete, ciabattanti comari dei
cieli; fra tutti i deliqui del pianeta, le epilessie della clorofilla, le
depressioni delle catene montane, solo certo e prevedibile resta il ferragosto:
tanto prevedibile, che il profeta dell’Apocalisse, intento a cogliere i ritmati
zoccoli dei cavalli finali, nemmeno ne parlò, se non forse con i suoi amici
osti, bancari e professori. Sebbene sia ormai allenato da tanti mai ferragosti,
ogni anno questa bizzarra festa mi sopraggiunge, mi coglie e oltrepassa come un
trauma.
Nessuna
vacanza è così stranamente gremita di questa che spopola le città, più
chiassosa di questa che rende silenzioso il tritone a mezzogiorno. Non è una
festa, è un incantesimo, una malìa, una fattura. Irretisce le folle, ispira
programmi insensati, o immerge in una torva e diffidente sonnolenza. Settimane
prima di quel giorno inevitabile, io mi faccio prudente; quando si entra nel
rettifilo ferragostano, mi faccio via via cauto, diffidente, mi defilo, mi
appiattisco, lavoro di freni e zavorra, inghiotto i documenti personali,
comincio a parlare con accento irriconoscibile, sottopongo la mia minuscola
anima ad una rapida plastica estetica, e infine mi precipito nel taciturno e
pigli vortice del ferragosto: ma in quel momento io sono irriconoscibile, ed ho
ogni motivo per dubitare della mia esistenza. La mia sensazione più profonda è
che il ferragosto sia la festa del Nulla: e a questa convinzione io mi adeguo.
Dove
vanno le spensierate folle di gitanti che, tutte nel medesimo istante, vengono
colte dal raptus dell’emigrazione verso la Gioia? Sono persuaso che esse
vengano stivati in uno dei tanti armadi del Nulla, e lì provvisoriamente
trattenute e distratte con effimeri giocarelli fatti, letteralmente, di niente.
Durante le non molte, ma fatali ore del ferragosto, trionfa una colossale
eclissi dell’esistenza. Nulla viene prodotto, eccetto l’ectoplasma.
Per
questo, io divento ogni anno più guardingo. Aggiorno e perfeziono le astuzie, i
travestimenti, le strategie intese a farmi guardare il Mare dell’Assenza. man
mano che divento più furbo, le regole si fanno più minute e rigide. Durante il
ferragosto molti camminano; pericoloso; meglio strisciare, allumacarsi per i
pavimenti. Anche quest’anno mi sono rifiutato di partorire; ho eluso con un
educato sorriso una possibile proposta di incoronazione; roteando la mano, come
a intender “più tardi ne parliamo”, ho rifiutato il pontificato; dopo qualche
esitazione – non poteva essere il travestimento perfetto? – mi sono rifiutato
di morire.
Mi
sono pettinato sommessamente, adagio. Conscio del carattere di assedio di
questa festa totalitaria, sono andato acquistando nei giorni precedenti cibi di
varia natura e dimensioni: formaggi teneri, un enorme pane a ruota che non ho
osato tagliare. budini da spalmarci un lussuoso appartamento, in alleanza con
la maionese e la senape; acque oligominerale, birre deschiumate, vini stappati:
silenzio finché s’apra. Non solo cibi: matite temperate, guide di paesi senza
ferragosto – Terra di Baffin, Sikkim – edizioni sottovoce di Stendhal;
medicine: antiacidi, digestivi, sonniferi completi di silenziatori da sogno.
Stampe fiamminghe, casti disegni di desolate brughiere. Bandiere bianche di
varia foggia, atte ai più diversi tipi di resa. Dopobarba nobili e volatili
simulano giardini e visir. Lentamente, stiro la mia ombra: estremamente
rilassante.
Altrove,
in luoghi seviziati dal Nulla, famiglie intensamente italiane formano una pasta
di nonne, genitori, bambini: tutte le parti sono scambiabili. Sono rumorosi e
felici. Sono tutti. Per quel che mi riguarda, ho espresso educatamente il mio
dissenso agitando gli indici in segno negativo: ma con cautela, fingendo
distrazione.
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(Tratto da Improvvisi per macchina da scrivere
[sezione: 1973 – 1986], Adelphi,
Milano, 2003)