Antônio Callado (1)
“Per me gli oggetti sono più importanti delle persone. Non
che io sia un tipo freddo o una specie di ipocondriaco, il fatto è che le
relazioni fondate sugli oggetti sono più costanti di quelle umane, dal momento che
non si alterano e non perdono vigore”. La frase si trova nella recente
autobiografia pubblicata da sir John
Pope-Hennessy, storico dell’arte e museologo, e ha lasciato alquanto scioccati
almeno due recensori, quelli del Times
Literary Supplement e della rivista New
Yorker. E il nostro lettore cosa ne pensa? Se saliamo in cima a una
montagna, o anche all’ultimo piano del nostro palazzo, e facciamo il paragone
fra l’amore che suscitano in noi quegli esserini che transitano laggiù e il
nostro amore per un certo quadro che abbiamo sulla parete, o per quel tale
tavolo di jacarandà (2),
possiamo sia pure a malincuore essere d’accordo con Sir John. Ma in effetti egli parla delle persone che stanno
intorno, quelle del nostro (o del suo) giro. Si tratta di un inglese
pericoloso. Gli toglieremo il saluto. Cercheremo di non incrociarlo per strada.
Come
compagno di viaggio, però, non è poi così semplice evitarne la compagnia. Nel
corso dei secoli e dei millenni, milioni e milioni di persone sono vissute,
sono scomparse e il loro pensiero non ci sfiora nemmeno. Ma quali cose ci hanno
lasciato alcune di loro, quali oggetti! Questi oggetti (statue, piazze,
fontane, case) sono così ammirevoli che finiamo con l’interessarci delle
persone che li hanno creati e ne leggiamo le vite, le biografie, arrivando
sempre alla conclusione che le vite non spiegano nulla, per quanto possano
essere state dolorose, stravaganti o ferocemente centrate sulla creazione degli
oggetti dai quali siamo affascinati. Altre persone hanno sofferto o lavorato
anche di più alla creazione di oggetti, eppure non hanno lasciato niente di
buono. E cosa dire di coloro i quali non hanno creato niente, che non ci hanno
nemmeno provato, quelli che si sono limitati a vivere a pancia all’aria eppure,
comperando oggetti e circondandosi dell’arte degli altri, hanno lasciato un
nome che, bene o male, vive fino ad oggi? Fra le rovine di Pompei noi visitiamo
quel che la lava del Vesuvio ha risparmiato della casa dei Vettii, due fratelli
dissoluti, forse i più ricchi della città, fino al giorno in cui il vulcano
distrusse Pompei. I Vettii avevano costruito una casa che, considerati i tempi,
potremmo paragonare a quella costruita dal giornalista Randolph Hearst a San
Simenon, in California (lo Xanadu di Quarto
Potere (3)), o al palazzotto della Avenida Atlântica in cui il
giornalista Assis Chateaubriand offrì il suo champagne-party a Margot Fonteyn nel 1960. I famosi fratelli
pompeiani, diventati ricchi commerciando in cereali, organizzavano festini di
gusto assai dubbio nella fastosa villa
e ai giorni nostri meriterebbero di essere completamente dimenticati. Comunque
sia è rimasta la casa e questa, coperta dalla lava per quasi due millenni, è
stata alla fine riportata alla luce e oggi ci incanta coi suoi pavimenti a
mosaico, le cisterne e i murali, i resti di colonne e i cubicoli destinati a
giochi sessuali così espliciti da sembrare roba dei nostri tempi. E, col
permesso del Vesuvio, questo fascino della villa
durerà ancora per altri millenni.
Ma mettiamo un po’ d’ordine in queste annotazioni. Sulla
base di un cortese invito dell’Università di Napoli sono stato, poco tempo fa,
in giro per l’Italia. Dapprima ho visitato Napoli e, nei suoi dintorni,
Ercolano e Pompei. Quindi Roma e le città universitarie di Viterbo e L’Aquila.
Sono andato poi a Firenze e Venezia.
L’Italia, secondo un’indagine dell’Unesco che purtroppo non
trovo in questo momento per citare con esattezza, contiene più del 30% di tutti
i tesori artistici del mondo. Ma là le persone, gli italiani, non si lasciano
abbattere dalla terribile concorrenza dell’inanimato. Vivono una vita così
creativa e allo stesso tempo così spensierata e allegra che noi, se ci
distraiamo un po’, restiamo in dubbio se il Colosseo sia una rovina del tempo
dei cesari o la costruzione, temporaneamente interrotta per mancanza di fondi,
di uno stadio per future Olimpiadi. Un popolo con meno carica vitale sarebbe
crollato da molto tempo dinanzi a quelle rovine, invece di creare le pièces di Pirandello o le auto della
Ferrari.
I brevi appunti presi a Viterbo registrano il mio stupore
proprio davanti a questa capacità italiana di convivere allo stesso tempo con
l’eterno e con le cose buone della vita presente. Severa ma molto bella come
città moderna, Viterbo è una specie di compendio architettonico di varie
epoche. Lo stesso ristorante “Taverna Etrusca”, in cui mia moglie Ana ed io
abbiamo pranzato, invitati dal professor Silvano Peloso e sua moglie Sonia
Salomão Khedi, funziona in una costruzione in pietra che fu degli etruschi
(l’università locale si chiama degli etruschi “Della Tuscia”), nelle strade ci
sono chiese medievali e giardini e fontane del Rinascimento. Questa città,
testimone solenne del passare del tempo, accoglie gli ospiti appena arrivati
con un vino bianco eccellente ma che ostenta un’etichetta chiassosa,
provocante. L’etichetta dice, anzi esclama, in latino: “Est, Est, Est!!!”. La
storia dice che un certo papa, di gusti alimentari difficili, prima di partire
spediva un prelato dal palato buono con l’incarico di verificare, nella regione
da visitare, quali fossero i vini degni del vicario di Dio. Questi dovevano
essere segnalati con un discreto “Est”. Il bianco di Viterbo entusiasmò a tal
punto il prelato-assaggiatore che l’etichetta rimase nella forma ostentata fino
ad oggi.
L’Aquila è una città di montagna, in una valle fra picchi
spruzzati di neve e dominati dal Gran Sasso, zona di sport invernali. Nel
convegno all’università, seduto fra il brasilianista Nello Avella e il titolare
di portoghese Macchi, ho discusso il passato e il futuro dell’Amazzonia. Poi il
rettore ci ha condotti, insieme a un nutrito gruppo di quelli che erano stati
presenti al dibattito, a un pranzo nel principale ristorante della città, in un
salone appositamente riservato, dove ci è stato offerto un banchetto che
riassumeva la culinaria e la produzione enologica locale, con vini bianchi e
rossi. L’antipasto è stato a base di formaggi e salumi, quindi sono state
servite le pastasciutte seguite, a scelta, da un tenero agnello e da una
vitella indimenticabile. Il dessert consisteva, fra l’altro, in una profusione
incredibile di noci, il che spiega perché a fianco di ogni piatto, come parte
del coperto, ci fosse uno schiaccianoci. Per asciugare un po’ i vini è stato
servito col caffè italiano, molto migliore di quello che beviamo qui, un forte
liquore “Gran Sasso”. Visto che abbiamo parlato del caffè, ci viene da chiedere
perché noi non dovremmo bere proprio qui, nel luogo dove nascono i chicchi, un
caffè uguale a quello che si beve in Italia. Giacchè ci mancano i prodotti
dell’arte dell’Etruria, di Roma, del Medioevo e del Rinascimento, potremmo
almeno bearci col denso e profumato caffè
italiano, con le sue due F, nella sua forma di espresso, con due S, o del cremoso cappuccino, che naturalmente doveva avere due C e due P. Manca
forza, mancano lettere doppie nel caffè nazionale (4).
A Firenze abbiamo trascorso soltanto un giorno, ma un giorno
in cui il sole toscano indorava tutto ciò che Michelangelo, Giotto e Cellini
hanno lasciato all’aria aperta, e anche la casa dove abitò Dante, davanti alla
quale abbiamo visto, passando, scolaresche che prestavano omaggio alla sua
memoria. Al Museo dell’Accademia abbiamo visto non solo l’originale del David di Michelangelo, ma anche un
vigoroso, stavo per scrivere brutale, studio in marmo della Pietà, diverso dal monumento che sta
nella Basilica di San Pietro a Roma. La Pietà
romana è la rassegnazione della madre di Dio, mentre quella di Firenze sembra
rispecchiare la reazione dello scultore davanti alla tragedia.
A Napoli abbiamo visto tutto quello che si può vedere, dal
momento che ci hanno fatto da ciceroni Maria Luisa Cusati, direttrice degli
studi di Lingua Portoghese dell’università, e suo marito, l’ingegnere Carmelo,
entrambi profondamente radicati nella cultura napoletana. Abbiamo alloggiato
all’Hotel Continental, in una stanza affacciata sulla Baia di Napoli e, in
primo piano, su Castel dell’Ovo, un’antica fortezza di forma ovale, dove ai
nostri giorni si svolgono incontri d’affari, feste, matrimoni. I napoletani si sposano
molto. Dalla nostra finestra ho visto, in una giornata assai ventosa, una
specie di nuvola in pena che si dibatteva contro le muraglie di Castel
dell’Ovo. Era una sposa che si faceva fotografare, il velo gonfio come la vela
di una barca sul punto di portarsi la giovane verso il fondo della baia, cioè
verso Capri, Sorrento. Un’altra sposa l’abbiamo vista alla Villa dei Misteri, a
Pompei. Stavamo contemplando sulla parete il bel murale che riproduce proprio
l’iniziazione di una donna appena sposata, quando abbiamo udito le voci festose
dei componenti il corteo che accompagnava una coppia, anche lei con velo,
guanti, fiori d’arancio, lui distinto, con pantaloni a righe e giacca nera.
Penso che stessero lì per imparare qualcosa dal murale di 2000 anni fa.
Comunque, oltre all’abbondanza di spose, ciò che forse più
impressiona un brasiliano a Napoli è la gran quantità di auto ammaccate.
Ammaccate ai lati, in maniera discreta, senza esagerare. Il fatto è che lì le
automobili non si scontrano, o solo di rado, ma si sgomitano nelle strade in
continuazione. Il traffico è peggiore, più confuso di quello di San Paolo o di
Rio. Ma attenzione a un particolare: non c’è, in quel traffico, l’animo
assassino che si nota qui da noi. L’autista non spinge l’acceleratore come il
grilletto di un’arma. Lui e il pedone rispettano poco o niente la segnaletica
stradale, ma si trattano con cordialità. L’unica manifestazione di ira cui ho
assistito in tutte le mie giornate napoletano è venuta da uno della polizia
stradale appostato davanti all’Hotel Continental. S’è indignato profondamente
col motociclista il quale non solo non aveva rispettato il semaforo rosso ma –
addirittura! – nemmeno la presenza sua, del poliziotto, e a quel punto ha
sferrato un pugno sulla moto.
Adesso, col vostro permesso, parlerò ancora una volta di
cibo, con l’esplicita intenzione di mostrare che, al contrario di quel che
comunemente si pensa in Brasile, gli italiani non sono un popolo di golosi
bensì di buongustai, sapienti tanto quanto i francesi nell’organizzare un
pasto. In un ristorante come “Lo Scoglio di Frisio” (Via Mergellina, 1, nella
zona del porto), la raffinatezza dei vari piccoli piatti, ciascuno col suo
vino, e del dolce accompagnato da un amaro,
è il massimo di quel che di buono si possa desiderare. Anche in un ristorante
popolare e chiassoso come il “Canta Napoli”, la sequenza dei piatti che vanno
dagli asparagi verdi alle pastasciutte, alla carne, alla frutta regionale e al
vino della casa, compone pasti che si adagiano molto bene nello stomaco e nella
memoria. In occasione della nostra partenza da Napoli c’è stato un banchetto
offerto dall’Istituto Universitario Orientale a Villa Vittoria, dotata di un
ampio parco e di grandi saloni. Non entro nei particolari dei piatti e dei vini
perché non sto qui per esacerbare la fame di nessuno, ma la sfilata dei piatti
e dei vini è stata solenne, dal cocktail di champagne allo spumante Principe di
Piemonte, dalla galantina al caffè.
Quanto a Venezia – che si denomina, da secoli, La
Serenissima -, siamo andati a visitarla un po’ come pellegrini. Come chi visita
un luogo magico. Anzi, trovo quasi incomprensibile che qualcuno possa nascere,
crescere, abitare a Venezia. Venezia la visitiamo, ci sediamo un po’ persi in
Piazza San Marco, guardiamo il leone alato della città, nella Torre
dell’Orologio, il campanile, la basilica, il Palazzo dei Dogi. Facciamo un giro
in gondola, se siamo in vena romantica e abbiamo soldi in tasca. Poi torniamo
in piazza, rivediamo tutto quello e ci avviciniamo alla Torre dell’Orologio per
leggere ciò che dice il libro aperto dal leone alato. Paterno, affettuoso, il
leone saluta l’apostolo San Marco: “La pace sia con te, Marco, evangelista
mio”. Restiamo fino a quando il mare, nel bel mezzo della strada, ci bagna i
piedi in una di quelle maree
incontrollabili. E andiamo via. Perché Venezia ha qualcosa di inquietante. Non
è propriamente una città, piuttosto è puro oggetto, arte pura. Nulla fu
regalato ai veneziani del periodo delle origini, nulla fu naturale. Nel
tentativo di sfuggire al disordine e all’insicurezza provocati dalla fine
dell’Impero Romano, i veneziani cominciarono a fissare, nella laguna
dell’Adriatico, le palafitte di una specie di favela. Per bloccare il mare e
creare, con le risorse tecnologiche di più di 1000 anni fa, le aree portuali
secche dove avrebbero realizzato le loro prime costruzioni. Venezia andò man
mano piantando migliaia, milioni di pali in montagnole di rena che a stento
emergevano dalle onde. Solo dopo questo enorme lavoro sorsero man mano la
piazza, il campanile, la basilica, il Palazzo dei Dogi. Tutti gli anni il doge
usciva nell’Adriatico, alla testa di una processione di barche, e gettava alle
onde un anello d’oro. Ribadiva in tal modo il matrimonio della città col mare.
Venezia crebbe con l’egoismo di un artista che pensa soltanto all’opera da
realizzare. Come ricorda la scrittrice gallese Jan Morris, l’Impero Veneziano
non volle mai esportare alcuna ideologia o creare piccoli Stati modellati a sua
immagine, alla maniera dei romani, degli spagnoli, degli inglesi. Cercò solo,
in ogni circostanza, di approfondire la propria immagine. Per questo, nel corso
di guerre e crociate, andò raccogliendo e saccheggiando tutto ciò che gli
interessava, che potesse abbellirne le strade e le piazze o rendergli merito
agli occhi di Dio. Soprattutto da Costantinopoli, la Istanbul di oggi, portò
colonne, mosaici, statue e reliquie come il corpo di San Marco, la testa di
Santo Stefano, il dito con cui San Tommaso toccò la piaga di Cristo. Compiute
queste operazioni, ogni volta più bella e santa, la città tornava a
contemplarsi nelle onde del mare. Cosa che fa fino ad oggi quando, persa la
forza di altri tempi, si limita a saccheggiare i turisti, i ricchi che prendono
l’aperitivo da “Harry’s Bar” e dormono al Danieli, al Bauer Grünwald, e tutti
gli altri, i milioni e milioni che alloggiano negli alberghetti, nelle pensioni
o si accampano, coi loro sacchi a pelo, nei pressi di Rialto. Più di qualsiasi
altra città, Venezia ha il diritto di imporre tasse a quelli che la visitano. E
di non ringraziare nemmeno. Guardando il mare. Serenissima.
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NOTE:
1)
A conclusione dell’anno che ha segnato il quinto centenario
dell’incontro fra l’uomo europeo e la terra e le genti del Brasile, la nostra
rivista vuole rendere omaggio a quel grande Paese, ove vivono circa trenta
milioni di nostri oriundi che costituiscono la maggiore comunità di origine
italiana nel mondo. Antônio Callado (1917-1997), autore del testo che appare qui per la prima volta
in Italia, è considerato per unanime consenso di pubblico e critica uno dei
maggiori scrittori brasiliani del Novecento e fra i principali rappresentanti
delle letterature dell’America Latina. Diverse sue opere sono state pubblicate
in versione italiana: Quarup (Quarup, 1967), Milano, Bompiani, 1973; Concerto carioca (Concerto carioca, 1985),
Roma, Editori Riuniti, 1990; La
spedizione Montagne (A expedião Montagne, 1982), Palermo, Ila-Palma, 1993; Sempreviva (Sempreviva, 1981), Roma,
Biblioteca del Vascello, 1993. Un suo scritto è contenuto nel volume intitolato
Messa del gallo, che riunisce sei
variazioni di altrettanti autori brasiliani contemporanei sull’omonimo racconto
di Machado de Assis (Missa do galo. Seis
variações sobre o mesmo tema, 1977), ed. it. A cura di Andrea Ciacchi,
Roma, Biblioteca del Vascello, 1994.
2)
Termine della lingua indigena tupi che designa un albero della famiglia delle leguminose (Machaerium villosum), assai diffuso in
Brasile (N.d.T.).
3)
Nel testo di Callido il titolo del famosissimo film di Orson
Welles, che suona in inglese Citizen
Kane, è indicato nella traduzione letterale Cidadão Kane (N.d.T)
4)
Tutto questo passo è giocato sul fatto che in portoghese la
grafia del termine che designa la bevanda è “cafè”.
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(Tratto dal “Convegno
a Villa Mondragone del 24 Aprile 2002 ITALIA-PORTOGALLO-BRASILE
Scrittura e traduzione” Vecchierelli Editore. Traduzione di Aniello Angelo
Avella)