1453: QUI COMINCIA LA SVENTURA
Silvia Ronchey
CON LA CADUTA DI
COSTANTINOPOLI, IL 29 MAGGIO DI 550 ANNI FA, SI APRIVA IL GRANDE SCONTRO DI
CIVILTÀ FRA ISLAM E OCCIDENTE
Il 29 maggio di 550 anni
fa nelle strade di Costantinopoli il sangue scorreva come l'acqua dopo un
temporale e i cadaveri galleggiavano verso il mare come meloni in un canale. Lo
racconta nel suo diario Niccolò Barbaro, un testimone veneziano della conquista
turca, che in questi giorni i bizantinisti e gli ottomanisti di tutto il mondo
ricordano con un nutrito programmi di convegni (vedi scheda). Il giovane
sultano Mehmet II, in sella a un cavallo bianco, guadò il lago di sangue e
attraversò lo scenario spettrale della città in rovina per recarsi a Santa
Sofia, la cattedrale della Divina Sapienza costruita 900 anni prima da
Giustiniano. I cittadini che a centinaia si erano rifugiati sotto l'immensa
cupola di Santa Sofia venivano sottoposti a inaudite violenze. Le dame
dell'aristocrazia erano trascinate a piedi nudi, legate tra loro con una fune
al collo, riferisce Isidoro di Kiev, in harem di militari di infimo rango. I
ragazzi delle migliori famiglie venivano brutalizzati e sodomizzati, alcuni
uccisi. Mehmet II aveva appena vent'anni, era un grande lettore di classici
persiani, greci, latini. Vedendo il massacro, racconta lo storico turco
quattrocentesco Tursun Beg, rifletté sulla caducità di ogni gloria terrena e
pregò Allah. Ma quando scorse uno dei suoi soldati smantellare con l'ascia
l'antico pavimento di marmo della basilica, gli fermò il braccio: «Accontentati
del denaro e dei prigionieri, gli edifici della Città lasciali a me». Poi il
sultano salì silenzioso, in mistica contemplazione, sulla cupola di Santa
Sofia: «Accanto alle rovine dell'Aya Sofya, alle costruzioni ridotte a giardini
di pietra, neppure un vestibolo era rimasto in piedi». Dalla cima della cupola,
scorgendo la città ridotta a macerie e deserto, il Conquistatore, narra Tursun
Beg, meditò che il destino di ogni impero è cadere in rovina. Poi recitò i
versi di un poeta persiano: «Il ragno fa da portinaio nel palazzo di Cosroe. /
Il gufo suona la musica di guardia nella fortezza di Afrâsijâb». Le macerie
degli altissimi edifici di Costantinopoli contemplate da Mehmet il
Conquistatore possono assumersi a simbolo visibile del primo grande scontro di
civiltà fra Islam e Occidente, alla vigilia dell'evo moderno.
Da quel momento la guerra
dei nuovi popoli nel nome di Allah acquistò una forza d'urto senza precedenti.
Se proviamo a figurarci che cosa abbia rappresentato, per il mondo di allora,
la caduta di Costantinopoli del 1453, dobbiamo pensare all'effetto prodotto
dalla caduta delle Twin Towers e moltiplicarlo molte volte. Bisanzio era stata
la superpotenza del Medioevo. Per secoli, la sua egemonia militare, la sua
forza economica, il suo prestigio erano stati paragonabili solo a quelli degli
Stati Uniti di oggi. «Il dollaro del Medioevo» viene chiamato dagli storici il
solido aureo bizantino. Nel 1453, il mondo assistette incredulo al crollo non
solo di una città ma di una civiltà, di un primato e di un modo di vita. Quella
che Enea Silvio Piccolomini chiamò «la seconda morte di Omero e di Platone»
avrebbe, profetizzò il Papa umanista, cambiato la geografia politica del globo.
Aveva ragione. Non solo il bacino del Mediterraneo, ma quello che Fernand
Braudel ha chiamato il Mediterraneo Maggiore, l'area d'irradiazione dell'impero
romano e della sua più che millenaria ipòstasi bizantina, dall'Asia Minore
all'Egitto, dai Balcani alla Bosnia, furono islamizzati. Non solo. Lo furono da
un Islam molto diverso da quello conosciuto nei lunghi secoli di convivenza
bizantina con gli arabi. Con la penetrazione dei turchi Osmanli erano entrate
nel vecchio mondo una considerazione più scarsa della vita umana e
un'intolleranza prima sconosciuta al grande impero multietnico. Le frontiere
dell'Occidente furono percorse da un nuovo tipo di guerra, più feroce, la
guerra etnica. Le popolazioni furono esposte a violenze di un genere più
atroce. Ancora oggi, nella presenza islamica al centro del Mediterraneo così
come in pieno Adriatico, nelle perenni collisioni delle faglie etniche da
questa generate dopo l’affermazione degli Stati nazionali, l'Occidente continua
a scontare la nemesi della storia per avere perso la culla della sua stessa
civiltà. «Noi l’impero bizantino l’abbiamo smembrato da vivo, proprio come prescrivono
i libri di cucina quando dicono: “Il coniglio deve essere spellato vivo”! Noi
abbiamo pelato viva Bisanzio», ha sintetizzato Braudel. Furono in effetti gli
intricati conflitti commerciali e finanziari del protocapitalismo occidentale,
nonché i tragici errori di valutazione del papato di Roma, della repubblica di
Venezia e delle altre potenze occidentali, a permettere che Mehmet II
conquistasse Costantinopoli. La straordinaria cultura bizantina si trasmise
agli umanisti europei e diede vita a quello che chiamiamo il Rinascimento: in
realtà l'ultima della serie di rinascenze che avevano scandito il millennio di
Bisanzio. Ma l'ideologia politica e la tradizione ecclesiastica dell'impero che
aveva riunito potere temporale e spirituale nella sola persona dell'imperatore
si eclissarono dall'Europa dei Papi e passarono alla nascente Russia. Già dalla
fine del Quattrocento si creò una sorta di cortina di ferro oltre la quale
insieme all'ortodossia si perse, per cinque secoli, la memoria dello Stato in
cui dai tempi di Costantino si era perpetuata l'eredità dell'impero romano.
È stato così che il modello della Seconda Roma sconfitta dai turchi ha
continuato a persistere nella Terza Roma di Mosca, impoverendosi e degradandosi
nell'isolamento e nel distacco dalla cultura occidentale. Chissà, magari
Bisanzio non è veramente caduta nel XV secolo ma nel XX, quando, insieme al
muro di Berlino, è crollato il sistema che ne aveva raccolto l'eredità, quando
la «fuga da Bisanzio» auspicata da Josif Brodskij si è infine realizzata. Quel
che è certo è che il fantasma vendicativo di una Bisanzio scheletrita e
dissanguata dall'esilio totalitario si aggira ancora sull'Europa e sui suoi
conflitti. Ancora oggi le zone in ebollizione e incandescenza, le faglie di
attrito e le soglie di crisi del nuovo secolo appartengono, e non è un caso, al
territorio su cui irradiò il suo dominio l'impero multinazionale bizantino,
prolungato in quello zarista e poi sovietico. Ancora oggi, dai Balcani al Mar
Nero, dal Kurdistan al Caucaso all'Asia Centrale, le ferite create dalla caduta
di Costantinopoli restano aperte.
(Tratto dal giornale La
Stampa del 27 Maggio 2003)
Silvia Ronchey, bizantinista, insegna
all’Università di Siena. Studiosa di letteratura, filosofia e storia
tardoantica e bizantina, è autrice di monografie e saggi, tra i quali L’Aristocrazia
bizantina (1999), con Alexander Kazhdan, e L’Anima del mondo
(2000), con James Hillman. Ha curato la pubblicazione delle opere di Eustazio,
Bessarione e Michele Psello. Collabora alle pagine culturali de La Stampa
e Panorama e a Tuttolibri. Autrice televisiva, ha scritto e
condotto programmi culturali per la RAI e attualmente cura la sezione
letteraria di RAINET.
Bibliografia:
Vita bizantina di Barllam e Ioasaf, Rusconi,1980
Imperatori di Bisanzio, Mondadori/Fondazione Valla, 1984
Atti e passioni dei martiri, Mondadori/Fondazione Valla, 1984
Indagini ermeneutiche e critico-testuali sulla "cronografia" di
Psello, Ist.St. Medioevo, 1985
Indagine sul martirio di San Policarpo, Ist.St. Medioevo, 1990
Roma al femminile, Laterza, 1994
L'aristocrazia bizantina, Sellerio,1999
L'anima del mondo (conversazione con James Hillman), Rizzoli, 1999
Il piacere di pensare (con James Hillman), Rizzoli, 2001
Lo Stato bizantino, Einaudi, 2002