SULLA SAUDADE

Julio Monteiro Martins

La parola “saudade”, che è diventata un po’ il marchio d’identità del mondo lusofono, il sentimento prevalente e onnipresente di quelle vastissime lande, si è apparentata (o almeno ha una vecchia amicizia semantica) con i sostantivi “saúde” (salute) e “saudação” (saluto). Questa tristezza addolcita tutta nostra – desiderata, poiché dolce, ma non per questo meno triste ­– ha senz’altro dei colloqui segreti con lo stato di salute fisica del saudoso. Già un poeta brasiliano che conosci bene e so che ti è caro, Vinícius de Moraes, si riferiva alla malattia impronunciabile e più temuta, il cancro – in Italia chiamato eufemisticamente “tumore” e tra i medici “neoplasia” (che vuol dire letteralmente “forma nova” – sarà mica un’avanguardia?) – come “quella tristezza delle cellule”. Non era lontano da dire “quella saudade delle cellule” quindi. Che non potendo retrocedere nel tempo, migrano, s’innestano altrove e poi si moltiplicano disordinatamente. (Non mi sfugge che questo potrebbe servire a qualcuno da metafora xenofoba).

Un programma di radio popolare nella Niterói della mia gioventù si chiamava Saudade não tem idade! (la saudade non ha età). Permetteva ai giovani degli anni ’70 di avere il magone e la pelle d’oca riascoltando le canzoni degli anni ’60, come se fossero scomparse in tempi lontani: Stand by me, Il mondo, A Whiter Shade of Pale, Sapore di sale, Smoke gets in your eyes, The House of the Rising Sun, Hey Jude e tutta la bossa-nova, con la già allora defunta spensieratezza del periodo Juscelino Kubitschek, gli anni d’oro del Brasile, e i suoi barquinhos e beijinhos sem ter fim (barchette e bacini senza fine). E il grande successo di João Gilberto, appunto, “Chega de saudade” (Basta saudade!).

Sono lontanissimi ormai gli anni ’60 e anche i ’70, e il passato è cresciuto da allora come narrazione in un modo talmente smisurato che da racconto diventato romanzo è ormai una tetralogia.

Uno guarda avanti e cosa vede? Poco tempo, una manciata di domeniche, giorni contati; ma non solo, giorni anche un po’ bruttini, un po’ grigiastri, dominati da personaggi insipidi e antipatici, dalla banalità urlata e da macerie mascherate di futuro.

Uno guarda indietro invece e vede la Grande Storia e dentro la sua propria storia, a quel punto poco meno grande dell’altra.

Saudação a questo oceano immenso, grandioso.

Osservato dall’oblò della squallida scialuppa, quale invito ci fa? A saltare dalla barca e a tuffarci nella saudade delle sua acque.

Se il passato è casa e patria – ci mormora la saudade all’orecchio –, se ci si sta così bene, perché ostinarsi ad abitare in un bizzarro albergo a ore, pieno di ospiti equivoci e poi così lontano da tutto?