I NUOVI REAZIONARI
INCORONATI DALLA TELEVISIONE
Maurice T
Maschino
Già schierati in
prima linea nel difendere con coraggio, contro l’opinione pubblica e i poteri
costituiti, cause disperate (caso Dreyfus, indipendenza dell’Algeria, pace in
Vietnam) molti intellettuali francesi sembrano oggi sposare le tesi dominanti
più becere e reazionarie. Alfieri della globalizzazione liberista, ossequiosi
nei confronti degli Stati Uniti, sostenitori incondizionati del generale
Sharon, adulatori di tutti i poteri e soprattutto di quello dei media, questi
intellettuali non tradiscono forse la funzione che già fu di Voltaire, Hugo,
Zola, Gide, Sartre, Foucault e Bourdieu?
Quando il popolo é
imbavagliato e la democrazia é in pericolo, “l’insurrezione é il più sacro
dei doveri”. Da Voltaire, che difendeva la vedova Callas, a Zola, che
denunciava l’ingiusta condanna del capitano Dreyfus, e Gide, che protestava
contro la guerra del Marocco e contro il colonialismo in Congo, gli
intellettuali francesi – almeno i più importanti – sono sempre stati in prima
linea nella lotta per la giustizia e per la libertà.
Senza temere lo scontro
con il potere, pagando di persona (Hugo e Zola dovettero andare in esilio),
lottarono tutti contro gli oppressori e i tiranni. Si mobilitarono per la
guerra civile spagnola, e Saint-Exupéry, Georges Bernanos, François Mauriac,
André Malraux, insieme a tanti altri, denunciarono apertamente il fascismo. La
guerra d’Algeria li spinse quasi tutti contro la politica di “pacificazione”: la
maggior parte di loro (François Mauriac, André Mandouze, Pierre-Henri Simon)
denunciarono la tortura e le atrocità dell’esercito francese, e oltre cento di
loro firmarono un celebre manifesto a favore dei disertori. In prima fila,
ovviamente, c’era Jean-Paul Sartre con la sua rivista Les Temps modernes,
ma anche degli etnologi (Jean Pouillon), degli storici (Pierre Vidal-Naquet),
degli orientalisti (Maxime Rodinson), scrittori, artisti, giornalisti... Non é
facile, oggi, immaginare che impatto ebbe sull’opinione pubblica e sul potere
politico una mobilitazione come quella, che coinvolse i più prestigiosi
esponenti culturali dell’epoca.
Perché i tempi sono
cambiati. Se per molti il 1968 ha avuto il sapore di una rivoluzione, la
scoperta del gulag e del “socialismo reale”, come l’evoluzione delle ex colonie
asiatiche e africane, ha scosso profondamente molti intellettuali francesi.
Negli anni ’79 e ’80,
privati delle proprie illusioni o delle proprie speranze, molti di loro sono
stati costretti a rifugiarsi in un silenzio goffo e a rinnegare le posizioni
politiche assunte in gioventù. Altri, invece, sono passati con gran clamore
dall’altra parte della barricata, animati dalla foga e dalla cattiva coscienza
dei pentiti. Hanno ammesso le proprie colpe, o quelle dei loro fratelli
maggiori, accusati di “essersi sempre sbagliati”. Altri ancora hanno
sposato l’americanizzazione del mondo, la globalizzazione economica e
l’ideologia neoliberale che avevano denunciato così duramente.
Alcuni di loro – si
tratti di politica, economia o cultura – assumono oramai delle posizioni che un
tempo avrebbero definito “furiosamente reazionarie”. Altri restano
duramente segnati dallo shock subito durante la giovinezza. Se il tempo
dell’autocritica é passato, il fallimento della perestrojka e la
caduta dell’URSS li hanno convinti che l’idea di costruire un socialismo dal
volto umano era pura utopia.
Anziché rinvigorirli, la
politica lanciata da François Mitterand negli anni ’80 ha rinsaldato il loro
scetticismo e la loro decisione a non lasciarsi più ingannare dalle “apparenze
della storia”. La stessa espressione “intellettuale impegnato” li
disgusta.
Ripiegati su se stessi
nelle università, chiusi nei loro uffici ed esprimendosi soltanto in riviste
destinate a un pubblico ristretto, i più seri si dedicano soprattutto alla
“ricerca della verità”.
Che l’unica dimensione
possibile è quella orizzontale e labirintica della clonazione e della
ripetizione.
Uno di questi é Pierre
Nora. Secondo lui l’intellettuale, partecipando al dibattito contemporaneo,
sempre equivoco e insidioso, rischia di perdersi e di ingannare la gente. Per
questo deve osservare la società in cui vive con lo stesso “sguardo distaccato”
con cui l’etnologo osserva i Nambikwara (1): “Cosa pensavamo di de Gaulle
nel 1958? La sinistra lo accusava di inclinazioni dittatoriali e denunciava un
“colpo di stato fascista”. Forse oggi pensiamo le sesse cose?” Prima di
tutto ci vuole prudenza: “L’intellettuale non deve più essere un
militante...é brutto dirlo, ma vent’anni fa, quando mi hanno chiesto quale
slogan proponevo per la rivista Le Débat, ho risposto ridendo: “Gli
intellettuali parlano agli intellettuali” come se fosse “I francesi parlano ai
francesi”. Bisogna accettare di non essere il portavoce delle masse”. Ma
chi parlerà loro in termini franchi, se l’intellettuale si chiude nel silenzio?
“tanto peggio se non c’é nessuno che può farlo!”.
SCHIZOFRENIA CONCLAMATA
Pierre Nora va ancora
oltre, fino a sconfinare in un disprezzo aristocratico, tanto che in certi casi
non esita a “dissociare quello che pensa da quello che scrive”. Per
esempio, é convinto che il conflitto israelo-palestinese sia destinato a un
tragico epilogo, ma non lo dice e lascia al lettore qualche speranza.
D’altronde, “é inutile scrivere articoli d’opinione. Come é inutile
aggiungere un’opinione all’altra. Che Téo Klein denunci la politica di Sharon
va benissimo. Ma la mia denuncia, a cosa servirebbe?” (2). E se il
cittadino Pierre Nora é di sinistra (“Ma certo che ha votato Jospin!”),
l’intellettuale si situa altrove. Altri, anche loro sostenitori della massima
prudenza, almeno a prima vista non presentano segni di schizofrenia. Senza la
minima esitazione, affermano che il ruolo dell’intellettuale é quello di “pensare
il mondo per trasformarlo”.
“L’Intellettuale” – dice per esempio Pierre
Rosannvallon, storico e docente al Collège de France – é colui che
stabilisce un collegamento fra il proprio lavoro d’analisi e una tensione
sociale. Altrimenti é uno specialista”. Ma siccome questi intellettuali
non hanno alcuna intenzione di divulgare le proprie cognizioni e rifiutano i
“saggisti superficiali” e gli “abbonati dei media” che considerano delle
“macchiette”, restano prigionieri dell’individualismo e del conservatorismo che
caratterizza i docenti universitari più convenzionali. Pierre Rosanvallon
afferma il contrario: “Esiste un ricambio e uno scambio continuo;
professori delle scuole medie, intellettuali, giornalisti. Il nostro lavoro, in
un modo o nell’altro, svolge una funzione sociale”. Ma si tratta di
un’illusione: 50 anni dopo la fine della guerra d‘Algeria, molti insegnanti,
anche di sinistra, saltano a più pari le pagine... di questo mezzo secolo,
quando non le ignorano addirittura. Credersi “al centro dell’attenzione”
quando si raggiunge soltanto una parte minima del pubblico significa
vaneggiare. Sostenere che i “libri impegnati” di Pierre Bourdieu, per esempio
rappresentano “una caduta all’esigenza di verità” (Pierre Rosanvallon)
significa far propria una concezione elitaria dell’intellettuale che fa il
gioco del potere. Vi sono intellettuali che rifiutano ogni coinvolgimento
sociale, ogni eccessiva esposizione e, siano essi dichiaratamente di sinistra
(Daniel Bensaid, Miguel Benasayag) o “semplicemente” democratici (Clément
Rosset, Marcel Glauchet), non interessano i media perché troppo “complicati”.
Davanti a loro ce ne sono altri, che sono riusciti a monopolizzare la scena e
che il pubblico considera “gli intellettuali”. Questi devono il proprio
successo alla propria astuzia, ma anche all’enorme peso politico della
televisione.
Anch’essi provenienti da
posizione marxiste o marxisteggianti, sono stati colpiti dall’ “effetto
Solzenicyn” e hanno rinnegato i primi amori, gettando via il bambino insieme
all’acqua sporca: nelle loro fantasie, i grandi pensatori sono diventati dei
“mangiatori di uomini” – dalla testa di Hegel, Marx, Fichte o Nietzsche,
dicono, sono usciti l’antisemitismo lo stato totalitario. Era venuta l’ora di
promulgare una “nuova filosofia” che desse al capitalismo un volto umano. Ci
hanno pensato André Glücksmann, Bernard-Henry Lévy, Jean-Paul Dollé e qualcun
altro. In modo sincero, indubbiamente, ma senza avere le idee molto chiare.
Forse questo fermento sarebbe durato lo spazio di un mattino se questi giovani,
noti più per le loro attività mondane che per i loro libri, non avessero
suscitato l’interesse dei media, in particolare della televisione. Del resto,
non davano il proprio appoggio (di “sinistra”) all’ordine esistente, e un po’
d’anima a un mondo cinico? Condannando le violazione dei diritti umani in
Bagladesh o in America latina, non alimentavano la leggenda di una Francia
all’avanguardia nella lotta per la libertà?
Catapultati sotto i
riflettori della scena mediatica, ci sono rimasti. Non grazie alla loro “opera”
– una serie di saggi scritti in fretta non sono un’opera, delle idee a effetto
non fanno un pensiero -, ma perché sono in sintonia con un’epoca che si basa
sull’inganno e spaccia, come l’alchimista del Cinquecento, l’ottone per oro e
la latta per argento. Di questo stravolgimento dei valori, che trasforma un
fatto di cronaca, per quanto tragico, in un avvenimento di primaria importanza,
e fa del Grande Fratello “qualcosa di simile a un corso di educazione
sentimentale” (Luc Ferry) (3) o trasforma un conduttore di dibattiti
televisivi in un professore di filosofia, questi intellettuali sono i primi
beneficiari.
Del resto, sono passati i
tempi in cui un intellettuale si definiva prima di tutto per il proprio lavoro
d’intellettuale. Per un’opera che lo rendeva famoso e che legittimava le sue
prese di posizione. Voltaire, Hugo, Zola, Sartre, Gide, Foucault, Bourdieu...
tutti questi sono stati anzitutto dei creatori che dovevano la propria fama
soltanto al loro talento e alla forza dei loro scritti. Oggi, invece, la
qualità conta poco: sono i media, e in particolare la televisione, che
consacrano gli intellettuali. Danno loro la patente di intellettuale; decidono
chi la merita e chi no. E proprio in questo modo stravolgono le proprie regole:
l’intellettuale non é più colui che scrive i libri più importanti e più acuti,
ma colui che appare più frequentemente alla televisione o sulle prime pagine
dei quotidiani, meglio se di Libération o di Le Monde, e dei
settimanali.
Meglio ancora: chi occupa
anche per breve tempo il posto di editorialista in un grande quotidiano
nazionale o in settimanali come Le Point, L’Express o Le Nouvel Observateur,
oppure dirige una collana di libri, é sicuro che con questa rete di relazioni
parigine avrà sempre un posto al sole.
E’ uno scambio di favori:
gli intellettuali restituiscono ai media i vantaggi che ne hanno ricevuto, e i
media, che li stimolano di continuo, tengono alta la loro reputazione. Questa
dipendenza servile che hanno nei confronti di chi li può portare sugli altari o
nella polvere si ripercuote sulla natura stessa della produzione intellettuale,
che deve essere costante – un libro all’anno, ogni due al massimo, non importa
se si tratta di quei commentari sconclusionati e stravaganti che prendono il
nome di “diario”. Poi, fra un libro e l’altro, delle conferenze, la
partecipazione alla trasmissione di un collega o di un caporedattore, di cui si
incenserà l’ultimo libro (mai letto). Tutto questo a detrimento della qualità,
di un lavoro serio e rigoroso, e nel totale disprezzo dei fatti.
Giocando volentieri a
fare i giornalisti, questi “intellettuali da operetta” (4) scendono raramente
sul campo (se lo fanno, si rimettono alle autorità che controllano il
territorio, pilotati da queste, ben protetti, talvolta addirittura dai militari
del paese che visitano....), e non si dedicano molto al lavoro del reporter,
che corre dei rischi, raccoglie pazientemente le informazioni, tratta con la
stessa attenzione i comuni cittadini e i capi di stato o i guerriglieri. “Loro
non servono una causa – dice Pierre Nora dei primi – ma se ne servono,
e mettono i problemi del mondo al servizio del proprio egoismo”. E di un
narcisismo smisurato. Inviati di un giorno o scrittori prolissi, coltivano
tutti la propria diversità. Incapaci di innovazione – cioè di creare – si
ripetono per accentuare questa incapacità: strepitano in difesa dei diritti
umani, di preferenza in Croazia, in Bosnia o in Ruanda, paesi più “esotici”
della Francia; in modo altrettanto rumoroso elogiano il neoliberismo e la
globalizzazione dell’economia (necessariamente “positiva”); fanno una continua
apologia degli Stati uniti; criticano sempre il “terzomondismo”; denunciano
incessantemente il “progressismo” e il modernismo; accordano un sostegno
incondizionato al governo israeliano... A ciascuno la sua bandiera, che lo
rende subito riconoscibile. A ciascuno la sua attività commerciale. Anche se
non é molto solida, il proprietario può permettersi qualunque capriccio.
Per esempio, sostenere
che un gatto non é un gatto, oppure che un razzista é un militante umanitario.
Come Alain Finkielkraut, il cui antisemitismo non ha niente da invidiare a
quello di Renaud Camus. Sostenere che “un ebreo é incapace di assimilare
appieno la cultura francese” non gli sembra indecente: se non sottovaluta “il
ruolo dell’eredità nell’identità”, né il fatto che esistano “diversi
gradi di appartenenza nazionale”, crede che queste parole “assumano un
altro senso”. (5).
Così come non c’é nulla
di razzista, sempre secondo Finkielkraut, nel recente pamphlet di Oriana
Fallaci, La rabbia e l’orgoglio (6) offendendo “i figli di Allah”
che “si moltiplicano come topi”, la scrittrice italiana ci costringe a
“guardare in faccia la realtà” e a vedere, con la coscienza a posto,
il vero volto degli arabi. Oltre ad aver infranto certi tabù, “ha il grande
merito di non cedere alle intimidazioni” ed esercita pienamente la libertà
d’espressione (7). Certo, preoccupato dalle reazioni che hanno scatenato queste
parole, l’”umanitario” si corregge e afferma che il libro di Oriana Fallaci,
tutto sommato, é “indifendibile”. Dopo averlo difeso. Ma
nell’intervista che ci concede non può fare a meno di mettere in evidenza i
pregi del libro, che torna a difendere: “Sono stato colpito dalla sua
forza. Oriana Fallaci ha cercato di dire le sue verità all’Europa. Il suo é un
libro antieuropeo.” In poche parole, un libro anti-tutto.
La tattica di
Finkielkraut é questa: attaccato su un tema preciso, cambia l’oggetto del
dibattito, si ritrae, sguscia fra le obiezioni come un’anguilla. questo spiega
l’uso costante del ma, che serve a negare – e non a sfumare – quello che ha
appena concesso in ossequio ai dettami del politically correct. Non é
un parassita, ma “attenzione al progresso” (alla clonazione, al
divorzio consensuale, alla parità....); non é un moralista, ma giudica; si
proclama di sinistra, ma “non gli piace affatto questa tendenza binaria
della sinistra”; non sta dalla parte di chi governa ma “il governo non
ha tutti i torti”; bisogna “uscire dalla logica bilaterale”, ma
non bisogna chiudersi in quella progressista.
Quando si evoca il
razzismo antiarabo, Finkielkraut sfodera subito l’antisemitismo. In Francia é più
difficile essere ebreo piuttosto che arabo e, in quanto ebreo, trovare una
casa, un lavoro, occupare alte cariche...? Allora tergiversa imbarazzato. “Non
é facile essere ebreo in un quartiere arabo”. Non bisogna dirgli che forse
é più difficile essere arabi in Israele, perché si innervosisce: “Gli arabi
israeliani godono dei diritti civili e sociali che spettano a tutti gli
israeliani”. E soprattutto, non bisogna dirgli che Israele conduce in
Palestina, con i metodi ben noti, una guerra coloniale: rischierebbe l’infarto.
UMANITARISMO SELETTIVO
Faziosità, paura e odio
degli arabi, appoggio cieco della politica israeliana, superbia narcisistica:
Alain Finkielkraut, comunque, almeno un merito ce l’ha. Con i suoi eccessi
permette di cogliere, come se fosse una caricatura, dei tratti comuni a molti intellettuali
francesi di oggi, per quanto diversi fra loro:
Umanitarismo selettivo?
Il problema é più complesso. “Un intellettuale – diceva Herbert
Marcuse – é uno che rifiuta di scendere a patti con il potere.” Il suo
primo compito, dice Pierre Rosanvallon, é di rendere il mondo un po’ più
comprensibile e produrre “una leggibilità senza concessioni”. La
maggioranza degli intellettuali francesi di oggi non adempiono a questo
compito: anziché stimolare la riflessione, confondono le idee. Come i media.
Anche quando non ignorano la realtà.
Come Pascal Bruckner, che
all’inizio del suo recente saggio Misère de la prospérité (14) cita
alcuni dati allarmanti sulle ineguaglianze del mondo contemporaneo: “il 20%
dei 6 miliardi di persone che abitano sulla Terra vivono con meno di un dollaro
al giorno, e nei paesi del Sud un bambino su quattro soffre di
malnutrizione.... il 10% della popolazione terrestre produce e consuma il 70%
dei beni e dei servizi...”.
Logicamente, la
conclusione é una sola: un sistema di produzione che affama i due terzi del
pianeta ed esclude centinaia di milioni di persone é una realtà scandalosa che
deve essere combattuta. Cosa che evidentemente sfugge a Pascal Bruckner. Di
colpo, egli si scaglia contro gli “antiglobalisti” – nei quali vede degli
invidiosi che denunciano i potenti del mondo perché non ne fanno parte - , si
lamenta che gli Stati uniti intervengano così poco negli affari degli altri – “Quello
che preoccupa non é il predominio americano, ma semmai la sua titubanza”
-, colpito da amnesia dice “sì al capitalismo”, di cui ha appena
stigmatizzato le malefatte, e suggerisce a coloro che “assilla” di non
pensarci più: “Essere anticapitalista (...) significa pensare a
qualcos’altro. Anziché essere contro, perché non stare accanto, magari un po’
defilati?” E, dimenticando “l’ordine delle utilità”, dedicarsi “alla
poesia, all’amore, all’erotismo, alla contemplazione della natura?” Fra
gli intellettuali contemporanei, Pascal Bruckner é sicuramente un caso a parte.
Però rappresenta una tendenza molto diffusa. Certo, con delle sfumature. Se la
globalizzazione provoca l’euforia di Alain Minc, “simpatizzante di Tony
Blair” – “lottare contro la globalizzazione é (passatemi l’espressione) come
pisciare controvento” – altri assumono un atteggiamento più sfumato. Ma
anche se denunciano l’interventismo americano o auspicano una globalizzazione
più “umana” che rispetti “ i valori non mercantili: la felicità,
l’amicizia, la solidarietà” (Jacques Juilliard), la maggior parte di loro
ritiene che il capitalismo sia il meno peggiore dei sistemi e che debba essere
soltanto “regolato”. Tutti evocano la necessità di alcuni contropoteri. Alcuni
confidano nella società civile e nella concertazione fra partner, mentre altri
optano per le lotte sociali.
Da “liberale di
sinistra”, Alain Minc ammette che “il mercato crea delle disparità”,
ma é convinto che questo possa essere “regolato” e “inquadrato”.
Dal canto suo Laurent Joffrin, riformista debole, partigiano di una
socialdemocrazia “rinnovata”, pensa che sia necessario “riabilitare il
politico. Tutto passa attraverso la sinistra classica. I partiti di sinistra
devono rinnovare il proprio modo di fare politica e concertare un’azione
europea per interventi comuni”.
Utopie, pensa
Jean-François Kahn: mentre nei paesi ricchi la vita si fa sempre più difficile,
e nel Terzo mondo crescono la fame e la mortalità infantile, insomma mentre il
capitalismo uccide più o meno direttamente milioni di esseri umani, immaginare
che si possa “umanizzare” ciò che é intrinsecamente disumano é una pura
illusione. L’unica soluzione alternativa é un fronte comune dei democratici che
getti le basi di un nuovo modello di società: “Nel maggio 1968 –
continua il direttore del settimanale Marianne – trovavo assolutamente
ridicolo – oltre che fuori luogo – il fermento “rivoluzionario”. Oggi, invece,
credo che sia venuto il momento della rivoluzione. La logica neoliberista – una
dinamica folle, che provoca danni spaventosi, che stritola e soffoca l’uomo e
rappresenta un vero regresso civile- può essere fermata soltanto con metodi
rivoluzionari. Se non lo facciamo noi, chi lo farà? Quelli che lo stanno già
facendo, gli integralisti, i populisti, i neofascisti, gli
etnonazionalisti....La scelta é chiara: o si concepisce un progetto
rivoluzionario nel modo migliore, o si accetta che altri lo realizzino nel nodo
peggiore. Ma la maggior parte degli intellettuali non lo capisce.
Forse perché si sono
imborghesiti? Senza dubbio. “Molti ex sessantottini si sono buttati
nell’economia di mercato per cambiarla, ma poi hanno scoperto che ci stavano
benissimo”, afferma con cognizione di causa Laurent Joffrin. “Il
regime liberale paga bene gli intellettuali che si allineano – denuncia
Michel Onfray – sa rendere attraente la sottomissione. Conferenza a 10.000
euro a botta, inserimento del filosofi nel brain-trust dell’azienda,
partecipazione ai comitati direttivi, animazione di dibattiti prestigiosi,
posizioni di rilievo nei media e recensioni favorevoli per i propri libri: sono
pochi quelli che resistono a un’offerta così invitante”.
DA MAIOISTI A
FILO-AMERICANI
Philippe Sollers, André
Glucksmann, Alain Minc, Pascal Bruckner, André Comte-Sponville e Luc Ferry,
tanto per fare qualche nome, non sono fra quelli che restistono, e si piegano
volentieri a questa logica. bernard-Henri-Lévy oppone qualche resistenza, ma
nella rubrica che cura su Le Point incensa nondimeno chi li comanda,
come Jean-Luc Lagardère – “Quello che mi piace di lui é il grande
condottiero, il Cirano che vive a modo suo” – e Jean-Marie Messier, che “si
apre al vento d’alto mare, forza il destino, inverte l’ordine delle cose”
(15).
Altri ancora, ma anche quelli indicati, non esitano a corteggiare il Principe o
a servirlo. Tre anni fa Luc Ferry si vantava di aver mangiato un cornetto e un
caffè con il segretario generale dell’Eliseo, poi diventato ministro degli
esteri: “Stavo facendo la prima colazione con Dominque de Villepin. Voleva
vedermi da solo... e indovinate chi ha fatto capolino a un certo punto? Chirac!
(16)”.
Basta che un ministro o
un presidente confidi loro un piccolo segreto politico per farli esultare, per
mandarli in brodo di giuggiole.. Comunque il loro modo di vivere non basta a
spiegare la loro incapacità di capire il mondo. Almeno avrebbero dovuto
compiere una vera rivoluzione interiore, ma questo non é avvenuto:
contrariamente a quello che credono, non sono cambiati. Sono rimasti gli
stessi, come non é cambiata la loro struttura mentale: “Con la stessa
passione con cui una volta denunciavano il socialismo perché sacrificava l’uomo
allo stato, oggi tessono le lodi del neoliberismo e non capiscono, o non
vogliono capire, che questo sacrifica l’uomo al danaro – nota
jean-François Kahn. Come ieri erano stalinisti e maoisti, oggi sono
diventati filoamericani. Come prima si dichiaravano internazionalisti oggi si
proclamano globalisti. Sono rimasti gli stessi manichei di prima. Non si
rendono conto di essere passati dall’altra parte”.
Si definiscono ardenti
difensori dei diritti umani, ma sostengono uno stato che non li rispetta, né
entro i propri confini né nei paesi che domina, proprio come non li rispettava
l’Urss. Sostegno incondizionato delle dittature più sanguinarie come delle
politiche più cieche e più pericolose, di colpi di stato, attentati,
responsabili delle carestie e delle malattie che falcidiano milioni di esseri
umani (Iraq, Sudan): gli Stati uniti sono un “paese terrorista di prima
categoria” (Noam Chomsky) (17), ed é proprio a questo paese, che essi
definiscono “democratico” (Jacques Julliard), che la maggior parte di
loro garantisce il proprio sostegno, quando non si tratta addirittura di
un’ammirazione illimitata.
Politicamente subalterni,
adulatori dei potenti, coperti di titoli accademici che sfoggiano come
medaglie, (professori all’Ecole polytechnique, associati all’università,
“filosofi”) spesso loquaci ed eleganti, hanno tutto quello che serve per
piacere. Si capisce come abbiano sedotto i mezzi di comunicazione, e perché
questi se ne servano. Dimenticando proprio in questo modo la funzione più
importante dell’intellettuale – “marginale, inutile ed essenziale”,
come dice Pierre Nora: la funzione critica, il rifiuto totale di scendere a compromessi
con i potenti.
Diversamente da questi
spiriti tristi, che confondono i propri desideri con la realtà e annunciano
regolarmente la “fine degli intellettuali”, gli intellettuali – quelli
veri – sono necessari oggi più che mai: in una società dove la scuola é al
tracollo, dove la televisione inonda milioni di case con le sue stupidaggini,
dove i giornali rinunciano alla qualità e preferiscono dare spazio alla cronaca
piuttosto che alla cultura, soltanto gli intellettuali possono stimolare la
gente a riflettere. A prendere un pò di distanza dal fatto puro e semplice. A
vedere, leggere e capire diversamente.
“Oggi il ruolo
dell’intellettuale é lo stesso di un tempo – ricorda Michel Onfray -. Secondo il
principio di Diogene (o di Bourdieu), deve essere la cattiva coscienza del suo
tempo. La zanzara, la mosca, il ribelle che non sottoscrive il sistema sociale
vigente. L’intellettuale può pensare e fornire delle idee agli uomini politici,
poco portati alla riflessione. Deve denunciare le ingiustizie, le tare del
sistema, i suoi meccanismi alienanti....” Senza fare concessioni.
Hanno rifiutato di
partecipare a questa inchiesta: Pascal Bruckner, Jean-Claude Casanova, André
Glücksmann, Serge July e Jorge Semprun. Luc Ferry si é “riservato” il diritto
di rispondere.
Note:
(1) Popolo indigeno dell’Amazzonia studiato da Claude Lévi
Strauss, ndt.
(2) Théo
Klein, Le Manifeste d’un Juif libre, Liana Lévi, Parigi 2002.
(3) In Le
Monde télévision, 12 agosto 2002.
(4) Louis
Pinto, “Des prophètes pour intellectuels”, Le Monde diplomatique,
settembre 1997.
(5) Alain
Finkielkraut, L’Imperfait du présent, Gallimard, Parigi 2002.
(6) Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio,
Rizzoli, 2002.
(7) Alain
Finkielkraut, Le Point, 24 Maggio 2002.
(8) Luc
Ferry, Le Monde télévision, 12 Agosto 2002.
(9) Marion
Van Renterghem “Entre chiens de garde et pitbulls”, Le Monde, 1° marzo
1998.
(10) Alain
Minc, Le Fracas du monde, Le Seuil, Parigi, 2002.
(11) Le Figaro, 22 febbraio 2002.
(12) Guy
Birenbaum e Yvan Gattegno, “Les obsessions racistes de Renaud Camus”, Le
Monde, 3 agosto 2000.
(13) Gilbert
Achar, Le Chos des barbarie, Complexe, Bruxelles, 2002.
(14) Pascal
Bruckner, Misère de la propspérité, Grasset, Parigi 2002.
(15) Le point, 5 maggio 2000 e 23 luglio 2002.
(16) Philippe
Lançon, “Le philosophe du Président”, Libération, 3 marzo 1997.
(17) Noam
Chomsky, La loi du plus fort, Le Serpent à plumes, Parigi 2002.
(Tratto da Le Monde
Diplomatique, Ottobre 2002)