LE AFFERMAZIONI
FUNZIONALI
L’introduzione
del nuovo libro di Antonio Moresco, L’Invasione
Da molto tempo, e in
particolare in questi ultimi decenni, si è andata consolidando sempre più una
situazione di autorefenzialità specialistica e caduta di ogni orizzonte
d’attesa, spesso introiettate e fatte proprie dagli scrittori stessi. Secondo
questa logica, lo scrittore deve stare al proprio posto, nella casella che gli
è stata assegnata all’interno della macchina mediatico-culturale e delle sue
sinergie. Può al massimo venire giocato come griffe estetica o piccolo input
mediatico nel gioco giornalistico, pubblicitario e autopubblicitario della
“comunicazione” e delle opinioni. Non deve invadere il campo degli altri
“specialisti” o, se lo fa, devono essere ben chiari il suo target e la sua
gittata. Non deve invadere il campo della “critica”, per esempio. Come i cani
nei giardinetti, deve stare al gioco, o a quello che resta del gioco, e porgere
elegantemente le terga agli altri cani per la cerimonia sociale dell’annusamento,
del riconoscimento e dell’eventuale accettazione e cooptazione.
A me pare invece che gli scrittori dovrebbero prendersi, riprendersi totale
libertà e movimento, come d’altronde hanno sempre fatto in passato, senza farsi
paralizzare da caste di specialisti e di mediatori che operano ormai come
metastasi nel gioco chiuso e mortuario che domina in ogni campo: la critica ai
critici, la letteratura ai letterati, la politica ai politici, il pensiero agli
specialisti del pensiero, la religione agli specialisti della religione, la
psiche agli specialisti della psiche….
C’è necessità del salto di piani, dell’invasione, perché anche nell’attività
artistica e di pensiero si sono venuti cristallizzando sempre più impostazioni
e luoghi comuni annichilenti che sfidano ogni credibilità e verità e stanno in
piedi solo per autolegittimazione reciproca.
Si leggono da ogni parte affermazioni funzionali che si fermano alla superficie
o che sono palesemente indifendibili ma che vengono ripetute e riprodotte continuamente
fino ad assumere l’aspetto di inerti ma incontestabili verità. L’elenco sarebbe
lunghissimo. Ne nomino soltanto alcune, le prime che saltano agli occhi:
Che l’unica dimensione possibile è quella orizzontale e labirintica della
clonazione e della ripetizione.
Che il virtuale si è mangiato tutto il reale.
Che non si dà più possibilità di interno-esterno, di moltiplicazione e di
creazione.
Che esistono solo le superfici (senza considerare che, se esistono solo le
superfici e non esiste nulla rispetto cui le superfici possano dirsi tali, non
esistono neanche le superfici).
Che – per venire a casa nostra – in Italia non sarebbe possibile quello che è
invece possibile in altre letterature.
Che in Italia non ci sarebbero più scrittori degni di questo nome.
Che gli scrittori italiani sono buoni solo per la forma breve, il racconto, il
bozzetto, la prosa d’arte.
Che tutto questo sarebbe addirittura colpa della lingua italiana.
Che nel secolo appena trascorso i critici letterari sarebbero stati meglio
degli scrittori, i poeti degli scrittori….
Che gli scrittori italiani e i loro libri non sanno confrontarsi con il mondo
che li circonda e non sanno rappresentarlo e metterlo in proiezione.
Che gli scrittori italiani non sarebbero in grado di scrivere “veri” romanzi.
Che non sarebbero mai stati in grado di farlo, addirittura. (Asserzioni che si
basano evidentemente su un’idea fissa e un modello unico di romanzo, quello
cosiddetto “realistico” dell’Ottocento, psicologico o sociologico che sia,
dimenticando che il romanzo moderno è nato da scrittori come Cervantes,
Rabelais, Sterne…e senza neppure voler vedere quali voragini si aprano persino
nei grandi scrittori etichettati come “realistici” dell’Ottocento, Tolstoj,
Balzac, Dickens… per non parlare di Dostoevskij, Melville…e più avanti di
Kafka, Proust, Céline, Musil, Faulkener e di tanti altri grandi romanzieri
novecenteschi).
Niente da fare! Solo questa piccola idea libresca, arroccata, solo piccoli
schemi normativi, autoraffiguranti, autoconsolanti, per proteggersi dalla
realtà in esplosione di questi anni. Per difendersi dal rischio, dalla sfida,
dall’invenzione. Edificazione psicologica e sociale o manierismo nichilistico
internazionale al posto di radicalità e tridimensionalità. E poi c’è quello che
resta dell’Avanguardia, come sempre più realista del re, col suo
depotenziamento della parola e della sua determinazione vivente, i suoi giochi
estetici e la sua mera concettualizzazione dell’attività artistica e umana.
In nessun’altra grande letteratura – che io sappia – si è mai cristallizzata
una simile macchina di autolesione. Salvo rare eccezioni (perché, come non lo
sono gli scrittori – neanche i critici sono un insieme, una categoria), tutta
una casta di figure ridotte a puro funzionariato, massa inerte, castrante
dentro la spaventosa e inerte macchina mediatico-culturale di questi decenni,
agìta spesso da frustrazioni personali, ambizioni fallite, rancori, da una
masochistica elaborazione culturale della propria perdita di ruolo rovesciata
all’esterno sotto forma di identificazione attiva con l’aggressore.
Cose sempre esistite, si dirà. Eppure tutto questo non è solo, in questi anni,
espressione di naturale difesa del proprio territorio e antagonismo occultato
dietro il velo dell’imparzialità specialistica. C’è dell’altro, mi pare. E’
successo qualcosa di enorme. Tutti questi atteggiamenti si sono inevitabilmente
spostati, in questa epoca, con le enormi pervasive macchine culturali e
pubblicitarie, al prezzo di un profondo svuotamento e depotenziamento dell’attività
umana psicofisica e della sua possibilità di emersione attraverso il linguaggio
e ogni altra forma di significazione vivente. Si sono saldati con una
condizione epocale di blocco funzionale del pensiero a cui essi stessi hanno
dato il loro piccolo, specifico contributo. In una situazione simile gli
scrittori – come chiunque altro che non si sia arreso – non possono accettare
di stare al loro posto all’interno di questo piccolo spazio, di questo
orticello, perché non ci sono più spazi, non ci sono orticelli. E se quelli che
si sono autonominati “critici” non solo non sanno più stare, da pari a pari,
sul terreno dell’esplorazione e della visione, ma non svolgono neanche più il
compito di mediatori perché ormai giocano o credono di giocare in proprio, cosa
se ne fanno gli scrittori di loro?
Non ci sono più figure di intermediazione, sono passate anche loro dall’altra
parte, sono anche loro, in una forma o nell’altra, dentro la logica mortuaria
della difesa di se stesse e del loro piccolo spazio di potere gregario. Senza
capire che vengono stritolate anch’esse, per prime, in questo gioco
specialistico della gestione di piccoli spazi. Che sono poi spazi morti,
riserve.
Ma se la situazione è questa, cosa può interessare agli scrittori essere
consegnati da simili figure a questo spazio obitoriale? E, se è vero che gli
scrittori sono morti, non si consegnano anch’esse al ruolo di necrofori? E se
l’unica partita possibile è quella tra becchini e necrofori, o nel migliore dei
casi tra becchini e morti, cosa può interessare agli scrittori far parte
dell’una o dell’altra squadra?
E’ inutile farsi illusioni, dopo lo sfacelo culturale, politico e spirituale di
questi anni. Un simile crollo, un simile schianto riguarda anche il ruolo che –
senza distinzioni di colorazioni politico-culturali e di parte – hanno svolto
nei decenni scorsi molti dei nostri intellettuali e “uomini di cultura”, quello
che hanno scritto, teorizzato, divulgato, la pochezza della loro tensione e del
loro orizzonte, le descrizioni terminali e funzionali della realtà che hanno
accettato acriticamente e imposto giorno dopo giorno in forza della loro
collocazione all’interno di concrete macchine mediatico-culturali, editoriali,
giornalistiche, politiche, accademiche, nazionali e internazionali. Tutto quanto
sta succedendo è sì conseguenza di mille altri fattori e passaggi, ma non è
senza rapporto anche con questo, né valgono molto le loro roboanti e tardive
indignazioni di oggi, ora che le loro rappresentazioni della vita e del mondo
sono state prese in contropiede e in parola da chi ha saputo entrare nel vuoto
mentale che anche loro stessi hanno contribuito a creare, come nel burro.
E’ inutile – per gli scrittori che non vogliono stare a questo gioco –
lamentarsi, lamentare perdite di ruolo, chiedere qualche piccolo aggiustamento
o spostamento di canone e maggiore attenzione all’interno di questa macchina e
di questo schema. Se la “società” a cui possiamo aspirare è questa e solo
questa, cosa ci interessa entrare a far parte di una simile società? Gli scrittori
che non vogliono stare al gioco nonostante il piccolo evento cartaceo della
pubblicazione, quel po’ di visibilità e movimento verbale che può crearsi
attorno ad essi di tanto in tanto, sono soli, come sono sempre stati. Possono
solo – qualche volta, se hanno fortuna, per poco o per molto, nel presente
oppure nel passato – incontrare altre e diverse solitudini e stabilire con esse
rapporti di azzardo e di fratellanza. A chi è solo non resta che la
fratellanza. A chi è solo non resta che l’invasione.
(Antonio Moresco Vive a Milano. Ha pubblicato Clandestinità (1993), La
Cipolla (1995), Lettere a nessuno (1997), Gli esordi
(1998), La Visione (1999), Il Vulcano (1999), Storia
d’amore e di specchi (2000), Canti del caos (2001))