SCRIVERE È SMETTERE DI
ESSERE SCRITTORE
Enrique Vila Matas
Molte volte sono stato costretto a rispondere al quesito sul perché scrivo. Da
principio, quando ero molto giovane e timido, usavo la breve risposta che André
Gide dava a questa domanda e rispondevo:" Scrivo per farmi leggere".
Benché sia vero che scrivo per farmi leggere, con il tempo ho imparato a
completare con altre verità la mia risposta sincera alla domanda sul perché
scrivo. Ora, quando mi pongono l'ineffabile domanda, spiego di essere diventato
scrittore 1) perché volevo essere libero, non volevo recarmi in ufficio tutte
le mattine; 2) perché avevo visto Mastroianni in La notte di Antonioni; in quel
film - la cui prima rappresentazione avvenne a Barcellona quando avevo
diciassette anni - Mastroianni era scrittore e aveva una moglie
(nientemeno che Jeanne Moreau) stupenda: le due cose che maggiormente anelavo
essere e avere.
Sposarsi con una come Jeanne Moreau non è facile, come non lo è essere realmente
uno scrittore. In quei giorni non mi era ben chiaro il fatto che nessuna delle
due cose era semplice, ma non sapevo sino a che punto fossero due cose assai
complicate, soprattutto l'essere scrittore.
Vidi La notte e iniziai ad adorare l'immagine pubblica di questi esseri
che chiamano scrittori. In un primo momento mi piacquero Boris Vian, Albert
Camus, Scott Fitzgerald e André Malraux. Il motivo risiedeva nella loro
fotogenia, non in ciò che avevano scritto. Quando mio padre mi chiese quale
carriera intendessi abbracciare-coltivava la tacita illusione che desiderassi
diventare avvocato-gli dissi che pensavo di diventare come Malraux. Ricordo
l'espressione stupita di mio padre e ricordo anche quello che mi disse:
"Diventare Malraux non è una carriera, non si studia all'università".
Oggi so perfettamente perché desideravo diventare come Malraux. Perché questo
scrittore, oltre ad avere un'espressione di uomo navigato, si era costruito una
leggenda di avventuriero e di uomo ben disposto verso la vita, quella vita che
io avevo davanti e a cui non intendevo rinunciare. Quello che in quei giorni
ignoravo era che per essere scrittore bisognava scrivere e, oltretutto,
bisognava scrivere come minimo molto bene, che, a sua volta, era qualcosa per
il quale bisognava armarsi di coraggio e, soprattutto, di pazienza infinita,
quella pazienza descritta perfettamente da Oscar Wilde: "Ho trascorso
tutta la mattina a correggere le bozze di una delle mie poesie, e ho tolto una
virgola. Nel pomeriggio, ce l'ho rimessa.
Tutto ciò è stato spiegato assai bene da Truman Capote nel suo celebre prologo
a Musica per camaleonti, nel quale raccontò come un giorno cominciò a
scrivere senza rendersi conto che si era incatenato per la vita a un nobile ma
implacabile padrone:"Al principio ero molto divertito. Smisi di esserlo
quando scoprii la differenza tra scrivere bene e scrivere male; in seguito feci
un'altra scoperta, ancor più allarmante: la differenza tra scrivere bene e la
vera arte; è sottile, ma feroce".
Così, in quei giorni non sapevo che per essere scrittore bisognava scrivere, e
che, inoltre, bisognava scrivere come minimo bene. Ma il fatto è che, ignaro
qual'ero, non sapevo neppure che era categorico rinunciare a una notevole parte
di vita se si intendeva scrivere davvero. E ignoravo che scrivere, nella
maggior parte dei casi, significa entrare a far parte di una famiglia di talpe
che vivono in gallerie interiori lavorando giorno e notte. Né sapevo che avrei
finito per diventare uno scrittore lontano dalla figura di Malraux, e le
avventure che mi attendevano concernevano più la letteratura che la vita.
Ma scrivere vale la pena, non conosco niente di più bello dell'attività di
scrivere, anche se, nel contempo, devo pagare un certo tributo per tale
piacere. Perché è un piacere e, come sosteneva Danilo Kis, elevatezza: "La
letteratura è elevatezza. Non ispirazione, vi prego. Elevatezza. Epifania
joyciana. E' l'istante in cui si ha l'impressione che, in tutta la nullità
dell'uomo e della vita, vi siano, in ogni modo, alcuni momenti privilegiati, di
cui bisogna approfittare. E' un dono del Dio o del diavolo, poco importa, ma un
dono supremo".
Oggi, con l'apogeo della nuova narrativa spagnola, abbiamo due tipi di
scrittori giovani, di scrittori principianti: da un lato stanno coloro che non
ignorano che si tratta di un mestiere duro e paziente, un mestiere nel quale si
procede nelle tenebre e che costringe a giocarsi la vita, a rischiare (come
affermava Michel Leiris) la vita come fa il torero; dall'altra vi sono coloro
che vedono nella letteratura una carriera, e cercano soldi e fama come primo
obbiettivo del loro lavoro.
Non ho lo spirito del predicatore e, inoltre, non intendo scoraggiare né gli
uni né gli altri, così citerò nuovamente Oscar Wilde, riportando questo
consiglio da lui dato a un giovane a cui avevano detto che doveva cominciare
dal basso:"No, inizia dalla cima e sieditici sopra". Gabriel Ferrater
lo ha detto in altra forma:" Uno scrittore è come un colpo di artiglieria.
Come tutti sappiamo, è condannato a cadere un poco più in basso del suo obiettivo.
Per esempio, se io pretendo di essere Musil e cado un pò più in basso, sarò
comunque abbastanza in alto. Ma se pretendo di essere come un autore di quarta
categoria...".
Uno scrittore deve puntare al massimo e sapere che ciò che importa non è la fama
o essere scrittore, ma scrivere, incatenarsi per la vita a un nobile ma
implacabile padrone, un padrone che non fa concessioni e che conduce gli
scrittori veri sulla strada dell'amarezza, come si rileva assai bene in frasi
come questa di Marguerite Duras: "Scrivere significa tentare di sapere che
cosa scriveremmo se scrivessimo".
Progettare di scrivere significa addentrarsi in uno spazio pericoloso,
perché si entra in un tunnel oscuro e senza fine, perché non si perviene mai a
una piena soddisfazione, non si arriva mai a scrivere l'opera perfetta o
geniale, e ciò provoca il più grande dei dolori. Si impara prima a morire che a
scrivere. Il fatto è che (come sostiene Justo Navarro) essere scrittore, quando
già si sa scrivere, significa trasformarsi in un estraneo, in uno straniero:
bisogna cominciare a tradursi. Scrivere è farsi passare per un altro, scrivere
è smettere di essere scrittore o di desiderare di assomigliare a Mastroianni
semplicemente per scrivere, scrivere è ciò che si scriverebbe se si scrivesse.
E' qualcosa di terribile, ma che raccomando a tutti, perché scrivere è
correggere la vita- anche se correggiamo una sola virgola al giorno-, è l'unica
cosa che ci ptotegge dalle ferite insensate e dai colpi assurdi che ci infligge
l'orrenda vita reale (in ragione del suo essere orrenda, il tributo che
dobbiamo pagare per scrivere e rinunciare a una parte a una parte della vita
autentica non è così duro come si potrebbe pensare) o meglio, come diceva Italo
Svevo, è il meglio che possiamo fare in questa vita e, proprio perché è il
meglio, dovremmo desiderare che tutti lo facessero: "Quando tutti
capiranno con la mia stessa chiarezza, tutti scriveranno. La vita diventerà
letteratura. Metà dell'umanità si dedicherà alla lettura e a studiare ciò che
l'altra metà dell'umanità avrà scritto. E il raccoglimento occuperà la maggior
parte del tempo, che così sarà strappato all'orribile vita reale. E se una
parte dell'umanità si ribellasse e si rifiutasse di leggere le elucubrazioni
degli altri, meglio. Ognuno leggerà se stesso."
Leggendo gli altri o noi stessi, vedo poco spazio per eventi bellici e molto,
invece, per la capacità di un uomo di rispettare il diritto dell'altro, e
viceversa. Niente è meno aggressivo di un uomo che abbassa lo sguardo per
leggere un libro che tiene in mano. Bisognerebbe partire alla ricerca di questo
raccoglimento universale. Mi si dirà che si tratta di un'utopia, ma
soltanto nel futuro tutto è possibile.
(Articolo tratto da "Autodafé", la rivista del Parlamento
internazionale degli scrittori., n.1, 2000, ed. italiana edita da Feltrinelli,
Tradotto dallo spagnolo da Luisa Cortese)
Enrique Vila-Matas è
nato nel 1948 a Barcellona, dove vive. Autore di opere importanti, tradotte in
nove lingue, il suo titolo più celebre è Storia abbreviata della letteratura
portatile (Sellerio, 1989)