MUSICA PER CAMALEONTI
Truman Capote
È alta e snella, forse sui settanta, capelli argentei, soignée, né nera
né bianca, un chiaro e dorato color rum. È un'aristocratica della Martinica che
risiede a Fort de France ma ha anche un appartamento a Parigi. Ci troviamo
seduti sulla terrazza della sua abitazione, una casa leggiadra, elegante, che
sembra fatta di trina di legno: mi ricorda certi vecchi edifici di New Orleans.
Beviamo tè di menta ghiacciato, lievemente profumato di absinthe.
Tre camaleonte verdi si rincorrono attraverso la terrazza; uno si ferma ai
piedi di Madame, facendo guizzare la lingua, e lei commenta: "Camaleonti.
Creature straordinarie. Come riescono a mutare colore. Rosso. Giallo. Verdino.
Rosa. Lavanda. E lo sapeva che amano moltissimo la musica?" Mi osserva con
i suoi begli occhi neri. "Non mi credi?"
Nel corso del pomeriggio mi ha raccontato molte cose curiose. Che di sera il
suo giardino è invaso da gigantesche farfalle notturne. Che il suo autista, un
personaggio solenne che mi ha accompagnato qui in una Mercedes verde scuro,
aveva avvelenato la moglie ed era poi evaso dall'Isola del Diavolo. E mi ha
descritto un villaggio su tra le montagne a nord, interamente abitato da
albini: "Dei piccoletti con gli occhi rosa, bianchi come il gesso. Ogni
tanto se ne incontra qualcuno nelle strade di Fort de France."
"Certo che le credo."
Inclina la testa argentea. "No, non è vero. Ma glielo dimostrerò."
Così dicendo sparisce nel suo fresco salotto caraibico, un locale immerso
nell'ombra con ventilatori al soffitto, che girano lentamente, e si accomoda a
un piano perfettamente accordato. Io mi trovo ancora sulla terrazza ma posso
osservarla, questa donna chic, anziana, il prodotto di stirpi diverse. Comincia
a eseguire una sonata di Mozart.
In breve i camaleonti si affollarono: una dozzina, un'altra dozzina per lo più
verdi, alcuni scarlatti, lavanda. Attraversarono saltellando la terrazza per
precipitarsi nel salotto, pubblico sensibile, assorto nella musica aleggiante.
E poi interrotta perché d'un tratto la mia ospite si alzò e batté il piede, e i
camaleonti si dispersero come scintille da una stella esplosa.
Adesso mi guarda. "Et maintenant? C'est vrai?"
"Sicuro. Ma è
talmente strano."
Sorride. "Alors. Tutta quest'isola galleggia nel fantastico. Questa
stessa casa è infestata. Molti spettri vi abitano. E non col buio. Alcuni
compaiono nella luce vivida del mezzogiorno, sfacciati al massimo.
Impertinenti."
"È cosa usuale anche ad Haiti. Succede spesso che i fantasmi se ne vadano
a passeggio di giorno. Una volta ne ho visto uno sciame lavorare in un campo
vicino a Petionville. Stavano eliminando i parassiti dalle piante di
caffè"
L'accetta come un dato di fatto. "Oui. Oui. Gli haitiani fanno
lavorare i loro morti. Sono famosi per questo. I nostri noi li lasciamo alle
loro pene. E ai loro giochi. Così volgari, gli haitiani. Così creoli. E là non
si può fare il bagno, gli squali sono un tale pericolo. E le loro zanzare: che
dimensioni, che audacia! Qui in Martinica non ci sono zanzare. nemmeno
una."
"L'ho notato; mi sono chiesto come mai."
"Anche noi. La Martinica è l'unica isola dei Caraibi dove non esistono
zanzare, e nessuno sa spiegarlo."
"Forse le farfalle notturne le divorano tutte."
Ride. "Oppure i fantasmi."
"No. Credo che i fantasmi preferirebbero le tarme."
"Sì, forse le tarme sono cibo più spettrale. Se fossi uno spettro affamato
mangerei di tutto fuorché zanzare. Desidera altro ghiaccio? Dell'absinthe?"
"Absinthe. Ecco una cosa che non si trova da noi. Nemmeno a New
Orleans."
"La mia nonna paterna era di New Orleans."
"Anche la mia."
Versa l'absinthe da una scintillante caraffa smeraldina: "Allora
forse siamo parenti. Il suo nome di ragazza era Dufont. Alouette
Dufont."
"Alouette? Davvero?
Graziosissimo... So di due famiglie Dufont a New Orleans, ma non sono
imparentato con nessuna delle due."
"Peccato. Sarebbe stato divertente chiamarla cugino. Alors.
Claudine Paulot mi ha detto che questo è il suo primo viaggio in
Martinica."
"Claudine Paulot?"
"Claudine e Jacques Paulot. Li ha conosciuti alla cena dal Governatore,
l'altra sera."
Rammento: lui era un bell'uomo, alto, Primo Presidente della Corte d'Appello
per la Martinica e la Guiana Francese, che comprende l'Isola del Diavolo.
"I Paulot. Sì. Hanno otto figli. Lui è molto favorevole alla pena di
morte."
"Visto che lei sembra viaggiare tanto, come mai non è venuto qui
prima?"
"In Martinica? Be', provavo una certa riluttanza. Un mio caro amico è
stato assassinato qui."
I begli occhi di Madame sono un tantino meno amichevoli di prima. Dichiara
lentamente: "L'assassinio è un evento raro, qui. Non siamo una popolazione
violenta. Seri, ma non violenti."
"Seri. Sì. La gente nei ristoranti, per le strade, perfino sulle spiagge
ha un'espressione così severa. Sembrano tutti preoccupati. Come i russi."
"Bisogna tenere presente che qui la schiavitù è stata abolita solo nel
1848."
Il nesso mi sfugge ma non faccio domande perché già lei sta dicendo:
"Inoltre la Martinica è très chère. Una saponetta che a Parigi si compera
per cinque franchi, qui costa due volte tanto. Qui tutto costa il doppio perché
tutto deve essere importato. Se questi scalmanati la spuntassero e la Martinica
ottenesse l'indipendenza dalla Francia, sarebbe la fine. La Martinica non può
sopravvivere senza gli aiuti economici della Francia. Andremmo sicuramente in
rovina. Alors, alcuni di noi hanno un'espressione grave. Ma, in linea di
massima, trova attraente la popolazione?"
"Le donne. Ho visto donne di bellezza straordinaria. Flessuose, aggraziate,
un portamento così splendidamente altero, una struttura elegante come quella
dei felini. Inoltre possiedono anche una certa seducente aggressività."
"È il sangue senegalese. Abbiamo molti senegalesi, qui. Ma gli uomini...
non li trova altrettanto belli?"
"No."
"Sono d'accordo. Gli uomini non sono belli. Paragonati alle nostre donne
risultano insulsi, privi di personalità: vin ordinaire. La Martinica,
vede, è una società matriarcale. Quando ciò avviene, come in India ad esempio,
gli uomini non sono mai gran che. Vedo che sta guardando il mio specchio
nero."
Infatti. I miei occhi nervosamente lo consultano, ne sono attratti contro la
mia volontà, come a volte dai tremolii disordinati di un televisore non ben
regolato. Ha quello stesso potere frivolo. E quindi lo descriverò minutamente,
secondo lo stile di quegli scrittori francesi avant garde che, avendo
deciso di rinunciare a vicenda, personaggi e struttura, si limitano a paragrafi
lunghi una pagina in cui si addentrano nei contorni di un singolo oggetto,
nella meccanica di un movimento isolato. Dunque: l'oggetto nel salotto di
Madame è uno specchio nero. È alto diciotto centimetri e largo quindici. È
chiuso in una custodia di consunta pelle nera a forma di libro. Anzi, la
custodia giace aperta su un tavolo , come fosse un'edizione di lusso pronta per
essere raccolta e sfogliata, ma non vi è nulla da leggere o da vedere salvo il
mistero della propria immagine rifratta dalla superficie dello specchio nero
prima che indietreggi nelle sue profondità senza fine, nei suoi meandri di
tenebre.
"Apparteneva a Gauguin," mi spiega. "Saprà, naturalmente, che ha
vissuto e lavorato qui prima di stabilirsi tra i polinesiani. Quello era il suo
specchio nero. Erano molto diffusi tra gli artisti del secolo scorso. Van Gogh
ne usava uno. E così pure Renoir."
"Non capisco bene. A che scopo?"
"Per ricaricare la propria capacità visiva. Ravvivare la reazione al
colore, alle variazioni di tono. Dopo un certo periodo di lavoro, con gli occhi
affaticati, si riposavano contemplando questi specchi neri. Così come i gourmets
a un banchetto, tra una portata e l'altra, rigeneravano il palato con un sorbet
de citron," Prende dal tavolo il volumetto che contiene lo specchio e
me lo passa. "Vi ricorro sovente, quando i miei occhi sono stati colpiti
da troppo sole. È distensivo."
Distensivo, ma pure inquietante. Quel buio, man mano che lo si scruta, cessa di
essere nero e diviene di uno strano azzurro argenteo, la soglia verso segrete
visioni; come Alice, mi sento sul limitare di un viaggio attraverso uno
specchio, un viaggio che esito a intraprendere.
Da lontano mi giunge la voce di lei: velata, serena, raffinata. "E così
aveva un amico che è stato ucciso qui?"
"Sì."
"Americano?"
"Sì. Era un uomo molto dotato. Un musicista. Compositore."
"Oh, ricordo... quello che scriveva opere! Ebreo. Con i baffi."
"Si chiamava Marc Blitzstein."
"Ma è accaduto molto tempo fa. Almeno quindici anni. O di più. Se non
sbaglio lei sta al nuovo albergo. La Bataille. Come lo trova?"
"Molto piacevole. C'è un po' di baraonda perché stanno per aprire un
locale notturno. La persona incaricata di dirigerlo si chiama Shelley Keats.
Dapprima ho creduto che fosse uno scherzo, invece è proprio il suo nome."
"Marcel Proust lavora al Le Foulard, quel grazioso ristorantino specializzato
in pesce, a Schoelcher, il villaggio di pescatori. Marcel fa il cameriere. È
rimasto deluso dai nostri ristoranti?"
"Sì e no. Sono i migliori di tutti i Caraibi, ma troppo cari."
"Alors. Come le dicevo, è tutto importato. Non coltiviamo neppure
la verdura. Gli indigeni sono troppo indolenti." Un colibrì giunge sulla
terrazza e si tiene senza sforzo in equilibrio nell'aria. "Ma il nostro
pesce è eccezionale."
"Sì e no. Non ho mai visto aragoste così enormi. Vere balene, mostri
preistorici. Ne ho ordinata una ma era insipida come gesso, e così dura da
masticare che mi è partita un'otturazione. Come la frutta della California;
splendida a vedersi, ma priva di sapore."
Lei sorride, non lieta: "Be', me ne scuso"... e io mi pento della
critica, mi rendo conto di non essere molto cortese.
"Sono andata a colazione al suo albergo, settimana scorsa. Sulla terrazza
che dà sulla piscina. Sono rimasta estarrefatta. "Come mai?"
"I bagnanti. Le straniere raccolte attorno alla vasca non portavano nulla
in alto e ben poco in basso. È consentito, da voi? Donne che si esibiscono
praticamente nude?"
"Non in luoghi frequentati come la piscina di un albergo."
"Appunto. E secondo me non dovrebbe essere ammesso, qui. Ma naturalmente
non possiamo permetterci di contrariare i turisti. Si è dedicato a qualcuna
delle nostre attrazioni turistiche?"
"Ieri siamo andati a vedere la casa dove è nata l'Imperatrice
Josephine."
"Non consiglio mai a nessuno di andarci. Quel vecchio, il curatore, che
chiacchierone! E non saprei cosa è peggio, se il suo francese o l'inglese o il
tedesco! Un vero seccatore. Come se il tragitto per arrivarci non fosse già
abbastanza sfiancante."
Il nostro colibrì prende congedo. In lontananza sentiamo le bande che suonano
strumenti di latta, tamburelli, cori di ubriachi ("Ce soir, ce soir
nous danserons sans chemise, sans pantalons": Stasera, stasera
balleremo senza camicia, senza calzoni), a rammentarci che in Martinica è la
settimana di Carnevale.
"Di solito," mi comunica, "lascio l'isola durante il Carnevale.
È insopportabile. Il baccano, il puzzo."
Quando mi ero preparato a questa esperienza della Martinica, che comprendeva il
viaggiare con tre amici, ignoravo che la nostra visita avrebbe coinciso con il
Carnevale: nato a New Orleans, ne ho viste abbastanza di faccende del g
enere. Tuttavia la versione della Martinica si era rivelata inaspettatamente
vitale, spontanea e intensa come un'esplosione in una fabbrica di fuochi
artificiali. "Noi lo troviamo divertente, i miei amici e io. Ieri sera
abbiamo visto sfilare un gruppo straordinario: una cinquantina di uomini con
ombrelli neri, cilindri di seta e ossa fosforescenti dipinte sul torso. E mi
piacciono molto le vecchie con le parrucche dorate e la faccia tutta coperta di
lustrini. E tutti quegli uomini con addosso gli abiti bianchi da sposa delle
mogli! E quelle miriadi di bambini muniti di candele, che splendono come
lucciole. A dir la verità ci è capitata una mezza catastrofe. Ci eravamo fatti
dare un'auto dall'albergo ed eravamo appena arrivati a Fort de France, e
arrancavamo in mezzo a tutto quel brulichio, quando uno dei nostri pneumatici è
scoppiato e immediatamente ci siamo visti circondati da diavoli rossi muniti di
forconi..."
Madame è divertita. "Oui. Oui. I ragazzini vestiti da diavoli
rossi. È una tradizione vecchia da secoli."
"Già, ma quelli si sono messi a ballare sopra la macchina. Combinando
danni spaventosi. Il tetto era diventato una pista da samba. Ma non potevamo
abbandonarla, per paura che la facessero completamente a pezzi. Così il più calmo
dei miei amici, Bob MacBride, si è offerto di cambiare la gomma. Il problema
era che aveva un abito nuovo di lino bianco e non voleva rovinarlo."
"E quindi si è spogliato. Molto ragionevole."
"O quanto meno buffo. Vedere MacBride, che è un tipo piuttosto solenne, in
mutande, a trafficare per cambiare una gomma, con il delirio del Mardi Gras che
gli vorticava attorno e diavoli rossi a dargli addosso con i forcone. Per
fortuna erano forconi di carta."
"Ma il signor MacBride ce l'ha fatta."
"In caso contrario dubito che sarei qui ad abusare della sua
ospitalità."
"Non sarebbe accaduto nulla. Non siamo un popolo violento."
"Oh, certo, non voglio dire che fossimo in pericolo. Era solo... be',
faceva parte del divertimento."
"Absinthe? Un peu?"
"Una goccia. Grazie."
Il colibrì ricompare.
"Il suo amico, il compositore?"
"Marc Blitzstein."
"Ci ho pensato. Era venuto qui a cena, una volta. Portato da Madame
Dorain. E quella sera c'era anche Lord Snowdown. Con suo zio, quell'inglese che
ha costruito tutte quelle case a Mustique..."
"Oliver Messel."
"Oui. Oui. Mio
marito era ancora vivo. Mio marito aveva molto orecchio per la musica. Ha
invitato il suo amico a suonare il piano. Ha eseguito alcune canzone
tedesche." Adesso è in piedi, si sposta di qua e di là e io noto la sua
linea squisita, eterea, che si delinea sotto l'abito parigino di tenue pizzo
verde. "Questo lo ricordo, ma non riesco a rammentare come sia morto. Chi
l'ha ucciso?"
Per tutto questo tempo lo specchio nero mi è rimasto in grembo, e ancora una
volta i miei occhi ne scrutano le profondità. Strano dove le nostre passioni ci
conducono, incalzandoci sferzanti, costringendoci a sogni indesiderati, a
destini malaccetti.
"Due marinai."
"Di qui? della Martinica?"
"No. Due marinai portoghesi di una nave in porto. Li aveva incontrati in
un bar. Stava lavorando a un'opera e aveva preso in affitto una casa. Li ha
invitati a casa sua..."
"Adesso ricordo. Lo hanno rapinato e picchiato a morte. Atroce. Una
tragedia spaventosa."
"Un tragico incidente." Lo specchio nero mi deride: Perché l'hai
detto? Non è stato un incidente.
"Ma la polizia rintracciò quei marinai. Vennero processati, condannati e
mandati in Guiana. Chissà se sono ancora laggiù. Posso chiedere a Poulot. Lui
dovrebbe saperlo. Dopotutto è il Primo Presidente della Corte d'Appello."
"Non ha importanza."
"Non ha importanza! Quegli sciagurati avrebbero dovuto andare alla
ghigliottina."
"No. Ma non mi spiacerebbe vederli al lavoro nei campi di Haiti, a
spidocchiare le piante di caffè."
Alzando gli occhi dal bagliore demoniaco dello specchio mi accorgo che la mia
ospite ha momentaneamente lasciato la terrazza ritirandosi nel salotto in
penombra. Un accordo di piano echeggia, e un altro. Madame sta riprendendo il
motivo di prima. In breve gli appassionati di musica si radunano, camaleonti
scarlatti, verdi, lavanda, un pubblico che, schierato sul pavimento di
terracotta, somiglia a una serie di note musicali trascritte. Un mosaico
mozartiano.
(Tratto da Musica per camaleonte, Garzanti
editrice, 2000, Milano, traduzione di Maria Paola Dèttore)