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(
Un brano tratto dal romanzo “La Storia”, di Elsa Morante)
(...) Nei giorni dell’entrata in guerra dell’Italia, le capitò di ascoltare le diverse opinioni sull’evento. Chiamata al pomeriggio dal Preside del Ginnasio, per via di certe assenze ingiustificate di suo figlio Nino, trovò il personaggio in uno stato raggiante di euforia per la tempestiva decisione del Duce: “Noi siamo”, le dichiarò il personaggio con grande enfasi, “per la pace nella vittoria, al minor costo possibile! E oggi, che la guerra-lampo dell’Asse sta per toccare la mèta della pace, plaudiamo alla lungimiranza del Capo, che assicura alla nostra Patria i vantaggi del successo con massimo risparmio. In una soa tappa, e senza rimetterci nemmeno il consumo delle gomme, eccoci già in volata al finale, giusto a ruota con la Maglia Gialla!!” Simile discorso autorevole s’impose a Ida, senza replica.
Per quanto lei ne capiva, anche i suoi colleghi della scuola elementare, dei quali essa orecchiava il discorso nei corridoi, la pensavano, più o meno, come il preside del ginnasio. Solo una custode anziana (chiamata dai bambini Barbetta per una poca lanuggine senile che le cresceva sul mento era stata da lei sorpresa, mntre, a fini di scongiuro, andava toccando le porte e via via borbottando in sordina che questa azione italiana contro i francesi era una “pugnalata alle spalle”, e che certe azioni fortunate prima o poi portano sempre iella.
Per contro, la mattina stessa, al suo ingresso nella scuola, il portiere, marciando per l’androne come un conquistatore, l’aveva salutata con questa frase: “Signora Mancuso, quando entriamo a Parigi?” E d’altra parte, più tardi, rincasando essa aveva udito il garzone del panettiere che sulla soglia dell’osteria, tutto aggrondato, confidava all’oste: “A senso mio, l’Asse Roma-Berlino è storto. Anvedi che robba! Quelli là, i Berlinesi, fanno le carognate – e noi, qua de Roma, je damo pure ‘na mano!!”... Fra tali opinioni discordi, la povera Iduzza, per conto suo, non osava formulare giudizi. (...)
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Somoza era un figlio di
puttana. Ma per gli Stati Uniti, era “il nostro figlio di puttana”, secondo un
Segretario di Stato. L’URSS diceva che la dittatura di Videla in Argentina non
era uguale a quella di Pinochet. Paradossi come questi erano possibili perché
un nemico più grande era di fronte alle due super potenze della Guerra Fredda,
il massimo traguardo del bene per il quale lottavano imponeva alleanze e
benedizioni a governi di qualunque tipo, purché fossero legati al suo blocco.
I criteri seguiti dagli Stati
Uniti nella sua nuova politica di alleanze portano un odore inconfondibile di
Guerra Fredda: riceverà vantaggi – materiali, politici e di propaganda – chi si
unirà a Washington nella sua “crociata”. E siccome si tratta di una “guerra”, i
criteri sono logistici e militari. Così, l’Europa perde importanza – eccezione
fatta per il ruolo di condottiere di
Tony Blair – basta consolidare l’asso anglosassone, approfittare di questa
occasione per farvi includere in
qualche modo anche la Germania, isolare la Francia e fare un cenno a
Berlusconi, a Aznar e, perché no, anche a Chirac. E l’America Latina, diligente
e sottomessa, scende qualche gradino in più nella sua già inespressiva
situazione nel mondo.
Ma importanti sono la Russia e
la Cina – visto che il problema è l’Asia e le guerre contro le forze che si
identificano con l’Islamismo – e il Pakistan, paese-chiave nell’enigma afgano.
Perciò i principali partner degli Stati Uniti sono oggi Putin, Jiang Zemin e
Musharraf – questo, un dittatore che ha tra le mani armi nucleari, un ovvio
candidato a Saddam Hussein o a Bin Laden, ma che, come ha detto Tony Blair, “ha
scelto il lato giusto”, e cioè, quello che qualcuno considera il Bene.
Nonostante tutto gli Stati
Uniti hanno cambiato meno di quanto qualcuno immagini riguardo alla loro
politica estera, non più di quanto il nuovo scenario necessariamente esiga. Si
è parlato molto di abbandono dell’unilateralismo per realizzare delle politiche
più orchestrate. Essenzialmente, questa politica non è cambiata: gli USA non
hanno firmato nessuno dei trattati pendenti – né il protocollo di Kyoto, né
quello dell’interdizione delle armi nucleari, né quello sull’interdizione delle
armi biologiche o gli accordi sul razzismo. Non hanno smesso di boicottare la
creazione del Tribunale Penale Internazionale, così come le discussioni sul
nuovo sistema di protezione dei bambini, oppure di opporsi al controllo delle
armi leggere.
È cambiato lo stile
dell’attuazione americana, ma nella direzione dell’unilateralismo. Gli USA
hanno già operato sotto la bandiera dell’ONU nella Guerra del Golfo, dieci anni
fa, si sono valsi della bandiera della NATO nella guerra del Kossovo, un anno e
mezzo fa, e ora operano con la loro stessa bandiera nell’Afganistan – oltre che
con l’appoggio del suo “più vicino compagno di armi”, come diceva il protocollo
cinese in altri tempi, ora applicato al primo ministro britannico.
Gli alleati sono avvertiti o
al massimo consultati. Ma sono gli USA a definire il carattere, la durata e la
direzione dell’offensiva nell’Afganistan o in un altro paese se sarà il caso.
Tanto l’ONU quanto la NATO sono fuori del processo decisionale. L’attuale
politica di alleanze di Washington non è nemmeno quella di mantenere le
alleanze, ma soltanto di stabilirle per ogni caso concreto, con scopi precisi,
fino a quando è conveniente.
Messa in piedi la lotta contro
il terrorismo – o quella più strettamente legata a Bin Laden – come priorità,
tutto il mondo passa ad essere ridefinito in funzione di questo scopo. Da lì
viene il tono della Guerra Fredda. Non importa quale sia la natura di ciascuno
Stato, il carattere democratico o meno di ogni Governo, il suo allineamento in
altre questioni – interessa il suo posto nel combattimento definito come
strategico. La stessa Alleanza del Nord è conosciuta per aver protetto le
piantagioni di papavero che la politica di soppressione dei Talibani aveva
cancellato nelle regioni sotto il suo controllo. Ma il suo ruolo di ariete e di eventuale partecipe del primo governo
post-Talibani la pone come un elemento-chiave della politica degli USA. Nello
stesso modo, il comportamento della Russia riguardo alla Cecenia o della Cina riguardo
al Tibet non contano più. Non interessa il colore del topo, purché esso aiuti a
perseguitare il gatto – parafrasando la famosa frase di Deng Xiao Ping.
Applicato alla politica, questo è il principio della nuova Guerra Fredda.
L’Africa continua a morire di
fame, di AIDS, di Ebola, ma i signori della guerra, dai due lati, hanno
definito che la priorità che comanda il mondo oggi è la guerra. Dimmi da quale
lato delle barricate stai e io ti dirò chi sei. Questa è la nuova Guerra
Fredda, asimmetrica, e per questo imprevedibile, ma una guerra che illumina
tutto con i colori dei suoi missili.
Guerra e pace: dall’11
Settembre, 2 milioni di nuove ricette di Prozac sono state assegnate negli
Stati Uniti. La vendita di armi si è triplicata in Florida.
(Traduzione
di Julio Monteiro Martins)
MARCO D'ERAMO
"
Il Corano è esaurito", mi dicono nella grande libreria Barnes & Noble
a Georgetown, il quartiere chic di Washington città. Ed è vero che dall'attacco
dell'11 settembre si è risvegliato negli Stati uniti un nuovo interesse per il
grande mondo lì fuori, per quei paesi strani, incomprensibili, selvaggi e
minacciosi che prima non sapevi neanche metterci il dito sopra sul mappamondo.
Non foss'altro che per i presentatori dei talk
shows tv che ora deambulano su un pavimento-carta-geografica con
Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Iran (e i comici mimano di farci all'amore
sopra, con lei che rimane scioccata da una montagna pakistana che le preme da
qualche parte verso le natiche). Otto dei primi 10 best-seller venduti da Amazon.com dopo l'11 settembre
riguardano argomenti collegati con il Medio oriente. Fino ad agosto aveva
venduto pochissime copie un libro sui Talibani scritto dal giornalista Ahmed
Rashid (Taliban: Militant Islam, Oil and
Fundamentalism in Central Asia). Da settembre le vendite sono decuplicate e
c'è una lista d'attesa. Così vanno a ruba libri sull'Afghanistan, sul Medio
oriente. Oltre che sulla guerra batteriologia: è in testa alle classifiche e
campeggia in altissime pile sugli scaffali
Germs (America's Secret War) di Judith Mille, Stephen Engelberger e William
Broad.
C'è però una certa stranezza nella ragazza che entra in libreria e chiede
"il libro, quello degli arabi, insomma la loro Bibbia, non si ricorda
com'è il titolo, sì, ecco, quello lì, si chiama Corano?". Perché è falso
che gli americani non conoscano il mondo. Basta fare un semplice calcolo: dalla
fine della seconda guerra mondiale, gli Usa hanno mantenuto all'estero,
costantemente, più di 300.000 militari. Aggiunti agli uomini d'affari,
missionari delle varie denominazioni religiose, diplomatici, studenti,
accademici, oltre ai turisti, il totale assomma a svariate decine di milioni di
statunitensi che hanno visto il grande mondo. Il totale può essere stimato con
una certa precisione, visto che solo il 10% degli americani ha il passaporto.
Ma è una conoscenza assai bizzarra: conoscono davvero l'Italia il marine di
stanza a Napoli o il pilota che decolla da Aviano? Vivono nelle proprie basi,
vanno nei propri drug stores,
mangiano nei McDonalds, vedono i propri film, guardano il baseball e il
football americano, chiusi nella loro enclave, proprio come fanno a Okinawa, in
Giappone - e i nipponici pensano che è meglio se non ne escono, visti i
ripetuti casi di stupro commessi dai soldati sulle ragazze locali, per cui non
riescono a processarli perché, per una clausola inclusa nei protocolli firmati
alla fine della seconda guerra mondiale, qualunque militare Usa di stanza
all'estero viene equiparato a un diplomatico, gode cioè della sua immunità,
come noi abbiamo imparato bene nel caso della funivia del Cermis.
C'è così il paradosso di un paese che controlla il mondo, lo domina, incerto se
governarlo o no, ma non lo conosce. Un po' come l'altro paradosso: negli Usa ci
sono oggi, secondo il Census 2000, 31 milioni di persone nate all'estero - una
cifra pazzesca, come se negli ultimi 20 anni tutta la Polonia, o più di
mezz'Italia, si fosse trasferita negli Usa. E 7,5 milioni sono gli illegali,
che sembrano non dare nessun fastidio ai repubblicani, persino i più fascisti
tra loro, mentre da noi la Lega la mette giù così dura per soli 300.000
clandestini. Questi 31 milioni di umani vengono da tutti i paesi, da tutti i
continenti, come hanno mostrato in modo tragico, commovente, i numeri dei morti
nelle Twin Towers. E però arrivano qui come collettività, sostrato comune, non
trasmettono la propria esperienza, la propria cultura, obbedendo alla prescrizione
citata da Steven Steinberg nel suo bellissimo libro Ethnic Myth: "Non importa da dove vieni, dovrai diventare come
noi" (accoppiata al complementare comandamento rivolto ai neri e ai nativi
americani: "Non importa quel che fai, non riuscirai mai a essere come
noi").
Guarda in
cucina
Succede
come nelle cucine "etniche": negli Usa ce n'è da tutto il mondo,
cinese, italiana, greca, cambogiana, coreana, indiana e così via, e però
ciascuna è "reinventata", americanizzata, diventa un'altra forma di
"invenzione della tradizione", per riprendere il fondamentale libro
dei primi anni '80 di Hobsbawm e Trevor Roper. Basta andare in un ristorante
italiano negli Usa per capire che la "cucina italiana" è lì
esagerata, a connotare l'italianità, quella immaginata delle donne vestite di
nero in groppa al ciuco, e perciò con una esasperata dose di aglio, di olio: la
professoressa di Harvard Donna Gabaccia racconta benissimo questa reinvenzione
della cucina etnica in We Are What We Eat.
Così da due secoli fiumi di stranieri sono entrati a fiotti negli Usa, ma in un
certo senso il mondo ne è restato fuori, come sul pianerottolo.
Però la distruzione delle Twin Towers può aver costituito una svolta: da un
secolo gli Stati uniti erano entrati nel mondo (è del 1899 la guerra contro la
Spagna per Cuba e Filippine), ma solo l'11 settembre 2001 il mondo è penetrato
negli Stati uniti, che sono diventati un po' più simili a tutti gli altri paesi
al mondo, più vulnerabili, come diceva Studs Terkel.
Al Monterey Institute sono quintuplicate le iscrizioni ai corsi di arabo,
secondo il Los Angeles Times. C'è,
qui a Washington, il Middle East Institute: di solito le sue classi di arabo
hanno circa 90 studenti a trimestre, adesso ne ha 130. Sono raddoppiati anche
gli studenti in persiano, turco ed ebraico. Il suo sito Web riceveva in media
8.000 collegamenti al giorno. Da settembre ne riceve 50.000. I motori di
ricerca di Internet sono inondati da richieste sull'argomento: a settembre nove
delle dieci ricerche più gettonate su Google riguardavano temi relativi
all'attacco: Afghanistan, Talibani, Osama Bin Laden e ... Nostradamus.
C'è anche un aspetto economico, i "verdi" - come dicono qui (non i
verdoni, come sono tradotti nei gialli in italiano). E' schizzata alle stelle
la richiesta di traduttori da queste lingue esotiche. Con i commandos impegnati
in Afghanistan e con la prospettiva di una più massiccia guerra di terra, il
governo degli Usa scopre di essere del tutto scoperto sul piano linguistico. Il
New York Times riporta che la ditta
Ad-Ex Translation Worldwide ha ricevuto la commessa di tradurre migliaia di
parole ordinarie inglesi in dari, pashtun, urdu e uzbeko, tutte lingue parlate
in Afganistan. Tra le parole richieste non compaiono termini né scientifici, né
finanziari, né legali: "Secondo me, sono frasi di sopravvivenza e
vocabolario per le truppe", ha detto il direttore. Un'altra ditta,
Lionbridge Technologies, ha ricevuto una commessa da molti milioni di dollari
per tradurre dall'inglese in arabo il software per le comunicazioni militari e
manuali di addestramento per equipaggiamenti tecnici.
L'American Translator Association ha sede ad Alexandria, il sobborgo più
elegante di Washington. Circa 500 dei suoi 8.300 membri sono ditte di
traduzioni o reparti di traduzione di grandi corporations. Gli altri 7.800 sono singoli traduttori. E'
interessante la tabella pubblicata dal quotidiano newyorkese, delle lingue in
cui sono specializzati i traduttori americani: solo 120 i traduttori
dall'arabo, 50 dal coreano, 21 dal farsi, 7 dall'albanese, e poi 6 dal dari e
dall'hazeri, e uno solo dal cambogiano e dal pashtun! A paragone, spagnolo:
2.217; francese: 1.189; tedesco: 903; russo: 481; giapponese: 384; cinese: 154.
Fa impressione soprattutto il rapporto tra francese (parlato da meno di 100
milioni di persone al mondo) e cinese (1,3 miliardi).
Passioni
effimere?
Un
altro problema per le agenzie governative è che pagano poco, molto meno dei
privati (informazione che farà forse arrabbiare i malpagati traduttori delle
case editrici e testate italiane): per un'ora di traduzione dall'arabo l'Fbi
paga tra i 27 e i 38 dollari (60-80.000 lire), mentre il settore privato sborsa
tra i 150 e i 220 dollari (320-450.000 lire) per la traduzione di 6.000
battute, cioè tra le 110 e le 150.000 lire a cartella.
Può darsi che sia transitoria quest'infatuazione per il grande mondo là fuori.
Che sia come l'improvvisa passione per le matematiche e le scienze che colse
gli studenti americani dopo il 1956, quando l'Urss lanciò nello spazio la
cagnetta Laika e, nel '60, l'umano Gagarin. O come l'interesse per l'Estremo
oriente che colse l'America dopo Pearl Harbour. O la brama di informazioni
sull'Indocina durante la guerra del Vietnam: nell'autobiografica introduzione
al volume Spectre of Comparisions,
Benedict Anderson (l'autore del libro sulla nascita dei nazionalismi, Comunità immaginate) racconta come mai è
diventato uno specialista del Sudest asiatico, anzi come è nata questa
categoria, "Sudest asiatico", come è diventata poi una disciplina
accademica, infine un dipartimento universitario con biblioteche, riviste,
conventions annuali...
Può darsi che tutto questo improvviso interesse sia transitorio. E la guerra
che gli Usa stanno conducendo in Afghanistan è un pessimo segnale. Il solito
ricorso alle solite bombe dalla solita alta quota. La solita equazione (che
sciaguratamente ha contagiato per tanti anni la sinistra e il movimento
operaio): il nemico del mio nemico è mio amico. Il che non è affatto vero, e ha
effetti catasatrofici. Uno può essere contro gli Usa, e nello stesso tempo deve essere contro i talibani che
imprigionano le donne in casa, e contro bin Laden che uccide migliaia di
innocenti in un colpo. Comunque vada, godiamoci questa breve "estate
indiana" (come è chiamata qui l'estate di San Martino), di apertura verso
il mondo. Anche se somiglia un po' troppo alla circospetta sospettosità con cui
i turisti americani esaminano quegli sconosciuti manufatti che sono i bidet
europei.
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(Articolo
tratto dal giornale “Il manifesto”)