La natura della cittadinanza è diventato il problema principale della
politica o uno dei problemi principali in buona parte del mondo. Certo lo è in
Europa e negli Stati Uniti. Parallelamente cresce l’importanza della scelta tra apertura e chiusura delle frontiere
alle merci e agli uomini (ed anche ai capitali: ma quelli non sembra sia
riuscito a fermarli nessuno fino ad ora) e della scelta tra esportare
produzioni o importare lavoratori.
Si dice xenofobia, razzismo, insicurezza, scontro di
civiltà ma si sta parlando di diritti e di reddito; di disuguaglianze enormi e
crescenti di diritti e di reddito. La cittadinanza negli stati nazionali è
stata una forma, controversa e limitata, di universalismo, almeno nei paesi che
hanno una legge di naturalizzazione (l’Italia non ce l’ha ancora) o che applicano lo ius soli. Ed anche le religioni monoteiste sono state una forma,
limitata ai credenti, di universalismo, con le ovvie incompatibilità,
gerarchie, guerre.
Oggi classi sociali, religioni, cittadinanze, si
mescolano perché le sovranità degli stati diventano più complicate, non solo
nell’Unione Europea, e i credenti delle varie religioni si mescolano. Questa
complicazione e la separazione degli ambiti del diritto, della forza,
dell’economia possono essere una via verso una estensione dei diritti. Una
valutazione positiva del cosiddetto interculturalismo, cioè della formazione di
un sistema culturale in trasformazione, con nuovi intrecci e una base comune di
diritti, ha portato a pensare che, con molto lavoro, si potesse arrivare a una
società aperta e regolata, in cui potessero coesistere un sistema
universalistico di diritti e doveri e una ampia sfera di libertà: libertà
religiosa, di costumi, di affettività, di comportamenti personali. Ma oggi
sembra crescere, qualche volta trionfare, la tendenza opposta: quella alla
chiusura, alla espulsione o alla soppressione dei diversi, all’uso sregolato
della forza. Ci soffermeremo pertanto su tre libri, esempi di studi non di
occasione sulla discriminazione nei confronti dei diversi, e sulla loro
incontenibile spinta, nei tempi lunghi, dei secoli e dei decenni, in due paesi
emblematici per la loro capacità e volontà di accogliere e integrare lo straniero:
Stati Uniti e Francia.
Il primo,
Whiteness of a different color, è la storia della discriminazione nei
confronti degli europei negli Stati Uniti, dalla fine del Settecento ad oggi. È
un libro a tesi, un libro cioè che, dall’interno del trionfo economico e
culturale degli “etnici” degli americani tra virgolette, gli italiani, gli
irlandesi, gli ebrei (di cui anche l’autore fa parte), i polacchi, i russi, i
greci, i tedeschi, guarda all’indietro agli infiniti contorcimenti con cui il
legislatore e i giudici hanno cercato di escludere dalla cittadinanza e dalle
garanzie della legge persone che in nessun modo potevano essere escluse in nome
di una precedente condizione di schiavitù, cioè dell’essere o essere stati
merce. Di volta in volta l’appartenenza a un gruppo incapace di autogoverno, di
democrazia è stata definita in base alla razza, al colore, alla cultura. In
nome della cultura sono stati giustificati dalla stampa, ma qualche volta anche
dai giudici, rifiuti di ingresso ed uccisioni, linciaggi singoli e di gruppo
(un gruppo di sei italiani linciati perché ovviamente colpevoli per
appartenenza etnica di uccisioni in scontri di quartiere, come quello del
pronto soccorso di Napoli sono ovviamente colpevoli per presenza in ospedale
degli scontri di piazza del giorno prima). Il linguaggio della esclusione può
cambiare moltissimo a seconda delle teorie scientifiche prevalenti nel periodo
– e perciò a fine Ottocento la razza la fa da padrona – ma chi si vuole
escludere, cioè gli ultimi arrivati, i poveri, i manovali, quelli con costumi
un po’ diversi, è sempre chiarissimo.
Come spesso i libri a tesi non si tratta di una
ricostruzione storica veramente soddisfacente. Persone che hanno distrutto il
concetto di razza o l’idea della intrinseca differenza del pensiero selvaggio,
come Franz Boas e Ruth Benedict, finiscono nel calderone perché usano il
termine “caucasico”. E gli Stati Uniti sono un po’ ingiustamente vilipesi, su
scala planetaria e secolare, dal momento che il grado di inclusione di noi
cafoni meridionali nel Regno delle due Sicilie o in quello di Napoli non era
molto buono e i sei italiani ammazzati sono meno di quelli di Aigue Mortes (
per non parlare dei sei milioni di morti delle leggi razziali nostre, europee).
Però la ricognizione è spesso sorprendente per il lettore non specialista – fin
dove si può stiracchiare l’affermazione che “tutti gli uomini sono creati
uguali” – e impone qualche riflessione sulla vastità dei limiti della
interpretazione.
Il secondo volume I latinos alla conquista degli Usa di Mike Davis ha un titolo
italiano assai meno espressivo del contenuto di quanto non sia l’originale (Magical urbanism) che, col suo
riferimento al realismo magico e alla totale compresenza nelle città e nella
vita economica e alla quasi totale alterità nei costumi, deve essere sembrato
difficile e poco invitante, mentre la conquista fa pensare – quien sabe? – al Che, al Sud che
conquista il Nord.
Temo che il libro non parli di questo ma della
ripresa, della continuazione di una esclusione. Oggi gli etnici sono diventati
importanti, fanno i registi, scrivono i libri e fanno Sesame street in televisione, ma gli ultimi arrivati, i latini che
non sanno l’inglese, sono ancora e sempre fuori, o almeno in bilico tra
differenza e integrazione, anche se Bush ha imparato qualche frase di spagnolo
per farsi votare. Ma l’analisi dei flussi dice che il voto latino non ha
determinato un bel nulla.
Il libro di Gerard Noiriel, Le creuset francais, rintraccia invece la storia della esclusione,
della sottolineatura della differenza, nel paese dell’Ottantanove. È un libro
più vecchio ma molto interessante, e lo citiamo perché è un ottimo retroterra
per capire il passaggio a destra delle vecchia regioni industriali e di una
parte delle periferie operaie della Francia. Il problema che si pone non può
essere risolto sottolineando la positività della differenza in polemica con
quelli che si ritengono minacciati. Si può tentare una soluzione per cominciare
riconoscendo la presenza crescente degli immigrati, il loro indispensabile
contributo ai servizi e alla produzione e quindi dando le risorse necessarie
per consentirgli di vivere nella pienezza dei diritti e con tutte le libertà
dei cittadini.
Questo vuol dire soldi per le case e per le scuole,
una legge di naturalizzazione, una legge sulle libertà religiose, nata come
proposta col governo Prodi e morta senza lasciare memoria di sé. Altrimenti
siamo nella selva delle intese e Dio ci salvi. E poi bisogna trovare le risorse
e una speranza per i giovanotti mal messi e spaventati che vogliono liberarsi
dalla loro paura sterminando lo straniero.
- -
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
(Tratto
dal quotidiano Il manifesto, maggio
2002)