NUVOLE ALL'ORIZZONTE

Intervista di Silio Boccanera a Eric Hobsbawm


Guerre infinite, disuguaglianze sociali, razzismo strisciante, declino dello stato: lo scenario del nuovo secolo è preoccupante. E offre un'occasione d'oro ai reazionari di tutto il mondo.

Il primo anniversario dell'11 Settembre ci spinge a riflettere ancora sul significato di un evento che ha sconvolto il mondo. E' un episodio isolato o ha segnato una svolta storica? All'alba di un nuovo secolo, stiamo forse entrando in un'"epoca di estremi", secondo la definizione che lo storico britannico Eric Hobsbawm ha dato del ventesimo secolo? Nessuno può spiegarlo meglio dello stesso Hobsbawm, che ha 85 anni e ha studiato e vissuto in prima persona i conflitti del novecento.

Lei ha definito il novecento un'epoca di violenza e di guerre. I primi segnali del ventunesimo secolo le fanno temere che si continui nella stessa direzione?

Non credo che ci saranno guerre mondiali come quelle del secolo scorso, soprattutto perché non ci sono più grandi potenze contrapposte - a meno che non si scateni una guerra tra Stati Uniti e Cina. Ma non sarà un secolo di pace.

Se ci saranno nuove guerre, cosa le distinguerà da quelle del novecento?

Forse le guerre sullo stile del novecento continueranno a livello regionale, come in Asia. In fondo la guerra tra Iran e Iraq, a cui abbiamo prestato poca attenzione, è stata molto importante. Ci ha interessato poco perché non faceva parte della guerra fredda, il grande scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Questo tipo di conflitti continueranno senza dubbio a esserci, anche se saranno più limitati, per timore di un possibile intervento statunitense. Ma ci sarà un alto grado di insicurezza, soprattutto nelle aree del mondo in cui le istituzioni statali si stanno disintegrando.

La guerra contro il terrorismo sarà una nuova versione della guerra fredda?

Dal punto di vista della politica statunitense, sì. Nella vita reale, no. Innanzitutto non è una guerra. Non c'è un avversario contro cui combattere: una potenza nemica, uno stato nemico. Inoltre il terrorismo non è un nemico: è un termine propagandistico che ci è utile per qualificare gli atti di persone che non ci piacciono e che fanno uso della violenza. Tutti usano la violenza. Quelli che ci piacciono non li chiamiamo terroristi, ma combattenti per la libertà o qualche altra cosa del genere.
Non dico che "terrorismo" sia un'espressione senza senso. Ma dal punto di vista degli Stati Uniti è solo un altro modo per dire: "Combatteremo chiunque ci sembra di poter sconfiggere". E intendono proprio chiunque.

Le nuove forme della pace

Questi nuovi conflitti si distinguono da quelli del passato perché non c'è una dichiarazione di guerra, né una vera e propria fine delle ostilità. E questo ci porta a pensare alla pace. Che cos'è oggi la pace? Non è nient'altro che un intervallo, un mantenersi lontani dalle zone di conflitto?

Ci sono delle aree pacifiche, ma complessivamente il mondo non è in pace. Durante la maggior parte del ventesimo secolo, l'America Latina è stata una regione pacifica, perché non ci sono state guerre tradizionali tra stati. Credo che l'unico grande conflitto sia stato la guerra del Chaco, negli anni trenta. A parte questo, praticamente niente. Dal 1945 anche il centro, il nord e l'ovest dell'Europa sono state zone di pace, e sembra molto improbabile che in futuro scoppi una guerra tra Germania e Italia o tra Francia e Germania. Tuttavia gran parte del mondo non si trova in questa situazione. E non è possibile parlare di pace se abbiamo in mente la definizione del filosofo Thomas Hobbes: "La guerra esiste non solo quando c'è una battaglia, ma quando la battaglia può avere inizio in qualsiasi momento". E' la situazione in cui si trovano molte aree del mondo, praticamente tutte. In fin dei conti ci sono molte battaglie in corso in posti come l'Africa.

Oggi "guerra" è una parola che viene usata per troppe cose: guerra contro la droga, contro il crimine, contro il terrorismo, contro tutto.

E' per questo che dico che "guerra al terrorismo" è un'espressione propagandistica, utile alla politica interna degli Stati Uniti ma priva di significato dal punto di vista internazionale.

Assisteremo, in nome di questa presunta guerra al terrorismo, a violazioni dei diritti civili e umani in Europa e negli Stati Uniti, come è accaduto in America Latina durante la guerra contro i rossi e i sovversivi?

Si, credo che sia un pericolo molto reale.Uno dei rischi maggiori delle cosiddette guerre contro le ribellioni, il terrorismo o il banditismo, è che quasi sempre fanno ricorso alla tortura. L'America Latina ha un'enorme esperienza al riguardo. E oggi il pericolo esiste: ci sono persino degli intellettuali negli Stati Uniti o in Israele che sono pronti a giustificare la tortura. Mi sembra un ritorno alla barbarie.

Lei parla di un cattivo uso dei termini. La distinzione tra combattenti e non combattenti, per esempio, è stata usata per privare i prigionieri talibani a Guantanamo delle garanzie previste dalla convenzione di Ginevra. Le nuove guerre stanno eliminando la distinzione tra combattenti e non combattenti?

Sì e no. Per certi aspetti questa distinzione è tornata d'attualità. Nel ventesimo secolo in pratica non esisteva più, e l'obiettivo principale delle grandi guerre era quello di distruggere i non combattenti. Grazie all'alta tecnologia a nostra disposizione, oggi è possibile selezionare gli obiettivi con molta più precisione di prima, e distinguere tra combattenti e non combattenti. Tuttavia, nell'ora della verità, non c'é da fidarsi molto di queste nuove tecnologie. Lo abbiamo visto in Afghanistan, dove sono morti molti più civili che combattenti.

Conseguenze a lungo termine

Analizzando gli attentati dell'11 Settembre, che tipo di conseguenze a lungo termine prevede?

Credo che gli eventi dell'11 Settembre, di per sé, non abbiano avuto una grande importanza politica o militare. Sono stati tragici e spettacolari, ma non hanno cambiato lo scenario internazionale. L'idea secondo cui gli Stati Uniti sono veramente in pericolo è poco realistica. Bisogna essere consapevoli dei limiti di questo tipo di attività terroristica. Non credo che qualcuno pretendesse di abbattere gli Stati Uniti. Non ce l'avrebbe fatta. Se gli attentatori dell'11 settembre avessero avuto la capacità di movimenti terroristici efficienti come l'Eta in Spagna o l'Ira in Inghilterra, forse avrebbero cercato di obbligare gli Stati Uniti a ritirarsi da certe regioni. Come l'Eta, che vuole che la Spagna si ritiri dal Paese Basco, o l'Ira, che vuole buttare fuori la Gran Bretagna dall'Irlanda del nord.
Gli Stati Uniti, chiaramente umiliati per aver subito un colpo così duro, hanno pensato di fare qualcosa per recuperare la loro posizione internazionale. Sicuramente si sono spinti oltre e hanno utilizzato quest'occasione per stabilire definitivamente la loro egemonia mondiale, soprattutto in campo militare.

Dopo la vittoria

Abbiamo visto la grande dimostrazione di forza dell'esercito statunitense in Afghanistan. Il budget militare degli Stati Uniti è aumentato in maniera esponenziale. E' possibile che la loro superiorità si sia fatta così schiacciante da far perdere importanza non solo ai nemici, ma anche agli alleati?

La situazione non è cambiata. Era già chiaro durante la guerra del Golfo: se ci fosse stato un conflitto armato tra le potenze del terzo mondo e quelle del primo, queste ultime avrebbero vinto. Potevano vincere tutte le battaglie che volevano. La domanda da porsi è: e dopo cosa sarebbe successo? Come si stabilisce un controllo duraturo? Come si gestisce un intervento permanente in questi paesi? In passato si poteva fare perché in gran parte del mondo la gente era preparata ad accettare la logica del potere. I britannici sono riusciti a governare l'impero indiano, un'area molto più grande della Gran Bretagna. Controllavano centinaia di milioni di persone con un numero esiguo di soldati e funzionari britannici, in parte anche perché gli indiani sono sempre stati sottomessi ai diversi conquistatori. Inoltre, un popolo può stabilire il proprio potere tessendo alleanze. E anche in quel caso è andata così: l'impero britannico in India dipendeva in buona misura dalle sue alleanze con i principi indiani.

Ma il potere britannico di quel periodo non era così egemonico come è oggi quello degli Stati Uniti, almeno sul piano militare.

Su scala mondiale, no. In Asia meridionale l'impero britannico dominava completamente: governava la regione, la amministrava e poteva dirigerla da Londra. Ma nel resto del mondo non era così. I britannici sapevano di essere pur sempre un paese di medie dimensioni che aveva temporaneamente un immenso potere militare - era l'unica potenza navale del mondo - e un'economia molto forte. Tuttavia, gli inglesi sapevano di non avere la forza sufficiente per stabilire un dominio completo. Per esempio, nell'America del nord, durante il periodo coloniale, gli inglesi sono intervenuti all'inizio della lotta per l'indipendenza, ma poi si sono arresi. Hanno deciso che era un territorio troppo lontano. Potevano farlo, ma hanno pensato che non ne valeva la pena.

Ci sono dei parallelismi, quindi con l'impero statunitense di oggi per quanto riguarda il potere economico e militare. Lei vede segni di decadenza o di perdita di questo potere?

E' difficile da dire. Non noto indizi di decadenza, ma vedo segni di debolezza nell'economia statunitense. Sono un uomo vecchio - sono nato nel 1917 - che ha vissuto gran parte del ventesimo secolo, e se c'è qualcosa che ho imparato è che i grandi imperi si dissolvono rapidamente. Ho assistito alla caduta degli imperi coloniali. Ho visto il tentativo dei tedeschi di stabilire un impero in Europa e forse in tutto il mondo: il Terzo Reich, che doveva durare mille anni e che non è durato poi molto. Ho vissuto la grande rivoluzione mondiale, che doveva durare per sempre, ma poi non è andata così.

La rivoluzione dei soviet?

Sì. Sono troppo vecchio per vedere la fine di un'egemonia temporanea nelle mani di una sola potenza, ma alcuni lettori della mia autobiografia la vedranno.

Governi bellicosi

La bellicosità del governo statunitense è un fenomeno che riguarda solo i repubblicani e George W. Bush? O è diventata parte integrante della politica americana, indipendentemente da chi governerà il paese dopo Bush?

La stupida bellicosità e il gretto egoismo della politica statunitense, secondo me, sono patrimonio di Bush. Per esempio. L'idea di mettere in pericolo tutta l'organizzazione mondiale del commercio per una rigida protezione dell'acciaio statunitense contro tutto e contro tutti, con il solo scopo di accontentare gli elettori della Pensylvania, è tipica del regime di Bush.
Tuttavia, l'idea che gli Stati Uniti sono la potenza dominante nel mondo è molto diffusa nell'apparato politico, militare e intellettuale di Washington. Prima gli americani erano abbastanza realisti da rendersi conto della necessità di avere degli alleati, anche se alcuni di essi erano poco più che subordinati. Uno dei principali obiettivi della politica estera statunitense è stato impedire che gli europei sviluppassero un potere militare proprio. Per gli statunitensi l'ideale è stato sempre che le potenze europee, a cominciare da quella britannica, vivessero delle briciole americane. Le autorità statunitensi dicono spesso che l'Europa non fa tutti gli sforzi necessari in campo militare, ma gran parte della sua politica è consistita proprio nell'impedire che il vecchio continente potesse rendersi autonomo dall'apparato militare statunitense.

Crede che gli europei cercheranno di fare da contrappeso al potere americano?

Gli unici europei che hanno cercato di non dipendere dagli Stati Uniti sono stati i francesi. Anche se poi si sono alleati con gli Stati Uniti per lottare contro l'Unione Sovietica. Ma si sono resi conto che gli Stati Uniti potevano essere una minaccia altrettanto grande, perché si tratta pur sempre di una superpotenza. Non credo che ci sia nessun paese in Europa capace di competere contro gli Stati Uniti. Il vantaggio militare degli statunitensi è tale che nessuno può competere con loro, tranne forse i cinesi.

Cosa pensa della Cina? Crede che possa bilanciare il potere statunitense oggi o in un prossimo futuro?

Sotto certi aspetti gli Stati Uniti non sono dominatori. La loro economia, per esempio, non è superiore a quella europea. Credo che si possa dire lo stesso della Cina, sul piano politico. La Cina è una potenza indipendente. Ci sarà un conflitto tra la Cina e gli Stati Uniti, che sfocerà in uno scontro militare? Il rischio c'è, perché gli americani hanno preso un impegno storico per la difesa di Taiwan, e i cinesi invece vogliono annettere l'isola. E questo è un motivo di conflitto.

Nel nuovo ordine mondiale ci sarà ancora meno spazio per i bisogni dei paesi in via di sviluppo?

Dal punto di vista politico non c'è più molto spazio se non in ambito regionale, perché in un certo senso gli Stati Uniti sono l'unico paese con una politica mondiale. Dal punto di vista economico, credo che molto dipenda dal successo o dalla sconfitta del neoliberismo. Durante gli ultimi vent'anni abbiamo assistito al processo di globalizzazione, un fenomeno senza dubbio in atto, anche se ad alcuni piace e ad altri no.
Il punto è che si è identificato questo processo di globalizzazione con l'idea del libero commercio mondiale e di un mercato senza controlli. Questo ha contribuito a rafforzare alcuni dei grandi stati del nord e ha indebolito tutti gli altri; soprattutto l'America Latina. Mi irrita sentire continuamente persone che si chiedono se ci sarà una depressione mondiale. Ciò che questi signori intendono dire è se ci sarà una depressioni negli Stati Uniti e in Europa, perché in paesi come il Brasile le depressioni economiche vanno e vengono dal 1980.

Il Fallimento del mercato

Intende dire che in quelle regioni c'è già stata una depressione?

La gente spesso si dimentica di quell'80 per cento della popolazione mondiale che vive nel sud, nel terzo mondo. Ma credo che il cosiddetto "consenso di Washington", o come altro si vuole chiamare questo fondamentalismo del libero mercato, stia arrivando alla fine, perché è chiaro che ha fallito, soprattutto negli ultimi tre o quattro anni. Non appena torneremo a un'economia internazionale in cui lo stato ha il potere necessario per controllare gli eccessi del libero mercato, ci sarà più spazio per le economie del sud.

Alla fine del suo libro Il secolo breve lei dice che "non può guardare al futuro con grande ottimismo". Che cosa le fa più paura?

Quello che mi fa più paura è l'indebolimento progressivo dello stato. Durante gli ultimi trent'anni, sotto molti aspetti, è diminuito in modo molto grave il livello di legge e di ordine, e il controllo dei governi su quanto accade all'interno dei propri territori. E' una tendenza che si osserva in tutti i paesi, anche negli Stati Uniti. In America Latina, per esempio, è difficile pensare che il governo colombiano abbia davvero il controllo su quanto accade nel suo territorio. E' una situazione relativamente nuova, simile a quella che esisteva in America Latina agli inizi del diciannovesimo secolo, ma che all'epoca era stata superata.

La perdita di controllo dello stato-nazione.

Lo stato-nazione perde controllo, e questo genera grande insicurezza e violenza. Ho anche paura dell'enorme aumento delle disuguaglianze sociali negli ultimi venti o trent'anni. E' vero, nel complesso la maggioranza delle persone nel mondo vive meglio, di più e in migliori condizioni, ma durante il ventesimo secolo le disparità sociali sono cresciute. E sono disparità pericolose. Tutti questi elementi generano instabilità, ma si tratta di un'instabilità imprevedibile. La cosa che mi fa paura è che le persone che hanno più probabilità di trarre vantaggi politici da questa instabilità sono i reazionari. Sta aumentando la portata di fenomeni come la xenofobia, il razzismo, il fondamentalismo economico e soprattutto quello religioso. Quest'ultimo, disgraziatamente, riguarda tutte le religioni.

Sono queste le minacce che lei percepisce e teme?

Esattamente. La causa della ragione, del progresso e del miglioramento, che tutti noi abbiamo difeso in varie maniere - come liberali, socialisti o comunisti - è sempre più debole. Ho paura del successo politico degli stessi che hanno provocato le grandi tragedie del novecento. Non si tratterà forse del fascismo, ma sarà lo stesso tipo di destra estremista, nazionalista o fondamentalista. E questo è uno scenario possibile, di cui bisogna aver paura.


(El País, Spagna, tratta da "Internazionale" del 4 Ottobre 2002)



Eric Hbsbawm è nato nel 1917, ed è professore emerito di storia economica e sociale alla London University. Tra i suoi libri più recenti pubblicati in italiano Intervista sul nuovo secolo (Laterza), Il secolo breve (Rizzoli 2000), De Historia (Rizzoli 1997), L'età degli estremi (Carocci 1998), Nazioni e nazionalismi (Einaudi 2002) e I banditi (Einaudi 2002). La sua autobiografia, Interesting times è appena uscita in Gran Bretagna e sarà pubblicata in Italia da Rizzoli a ottobre.