La prefazione del
romanzo "Roma Divina", di Piero Ravasenga
UN PROVINCIALE NELLA
ROMA FASCISTA
Piero Flecchia
Il critico deve restituire
A. Jacomuzzi
La prima condizione perché un corpus letterario sia fruibile è la comprensione linguistica,
ma la seconda è che i suoi testi siano accessibili. Ed è proprio questa
seconda, e capitale condizione, che manca per la gran parte del corpus delle
opere significative in lingua italiana nell'intorno cronologico 1870-1970, e
che compendia due grandi momenti della nostra letteratura individuabili come:
a) Letteratura dell'Unità: che va da Roma capitale (1870),
conclusione del Risorgimento, al delitto Matteotti (1924), inizio della
dittatura fascista. Questa letteratura culmina nella figura e nell'opera di
Luigi Pirandello, della quale, come del Verga, del D'Annunzio, del Pascoli, è
disponibile nelle librerie una ragionevole parte, mentre la più parte delle
opere, e alcuni autentici capolavori, dell'Imbriani, Faldella, degli
scapigliati, del calandra, Gozzano, serra, Martinetti, Rensi, sono reperibili
in poche biblioteche pubbliche ed episodicamente su cataloghi di antiquaria o
sulle bancarelle. E soltanto perché alcune benemerite collane americane
economiche ne hanno editato qualche testo.
b) Letteratura della Resistenza: la sua origine risale al delitto
Matteotti, che costrinse infine anche oppositori tiepidi e distratti quali un
Benedetto Croce e la destra storica liberale a prendere atto della natura
criminale liberticida del mussolinismo. Questa letteratura non finisce con la
caduta del fascismo; anzi, tutti i suoi grandi testi letterari sono di evo post
fascista: lo sono Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945),
Se questo è un uomo di Primo Levi !1947), la grande epopea di Beppe Fenoglio,
la raccolta poetica di Eugenio Montale La bufera e altro (1956), la
grandiosa analisi del mussolinismo Eros e Priapo di Carlo Emilio Gadda
(1967). e questo perché la classe politica post fascista, tolto il breve
intermezzo dei ministeri della liberazione - la cui area è arduo estendere fino
a i ministeri De Gasperi, se si riflette con passione di libertà sulla vicenda
Guareschi -, continua la linea fascista di repressione manipolativa del codice
letterario nazionale. Le grandi organizzazioni politiche d'area cattolica e
marxista conducono una lotta capziosa e sottile contro la libertà di scrittura,
il cui risultato è di perpetuare il clima di conformismo intellettuale fascista
tanto nel periodo del puro clericalismo dell'evo Fanfani-Moro, che nel periodo
del cattomarxismo della DC dei Moro e Zaccagnini e del PCI del compromesso
storico berlinguerriano. Accade così che le ragioni storiche fondanti la scelta
morale che ha determinato, durante il fascismo, la nascita della scrittura
della Resistenza permangono immutate per gli anni seguenti la sua caduta. Anche
in questi anni la letteratura vive una condizione di esilio interno, come
dimostra la radicale emarginazione dai centri decisionali della cultura, in
quanto non cattolici e non marxisti, dei maggiori scrittori: i Fenoglio, i
Moreselli, i Flaiano, i Lampedusa; che sono di fatto esuli in patria,
dissidenti interni non diversi dai grandi dissidenti russi: E anche di questa
letteratura, pressoché contemporanea, è arduo trovare i testi, come dimostra in
modo clamoroso l'assenza in libreria di una tra le sue maggiori opere, e
illuminante per la comprensione della storia dell'Italia del XX secolo: il
romanzo di Mario Soldati Le due città (1964). Una letteratura della
resistenza che dalla fine del settimanale pannunziano "il Mondo",
reso possibile dai capitali di Adriano Olivetti, non avrà più una voce.
Ridotta a letteratura
antifascista, la letteratura della Resistenza è progressivamente cancellata
dalla coscienza collettiva attraverso un processo sistematico di
mistificazione. Il risultato è, dagli anni '70, la cancellazione di una
autonoma cultura contemporanea italiana. Da dove l'imporsi della lingua dei
traduttori: il segnale più evidente della provincializzazione mascherata da
pseudocosmopolitismo, come ben illustrato dal percorso dei vari Eco, Pisolini,
giù fino a Tabucchi.Individuare letterariamente il secolo 1870-1970 attraverso
le due grandi correnti dell'Unità e della Resistenza non significa respingere
le correnti individuate dalla critica letteraria, ma che verismo decadentismo
futurismo simbolismo crepuscolarismo ermetismo neorealismo postavanguardia…sono
correnti la cui ascesa e caduta, i cui orizzonti e personalità si comprendono
nella loro vera natura: se ne coglie a pieno il senso soltanto quando le si
inquadri nelle due onde lunghe della letteratura dell'Unità e della Resistenza,
altrimenti diventano processi di imitazione provinciale, strumenti di piccoli
giochi di potere di consorterie. Vediamo quindi di definire che cosa connoti,
nell'intorno temporale 1870-1970, un testo come partecipe aut della letteratura
dell'Unità, aut della letteratura della Resistenza.
La letteratura dell'Unità raccoglie l'eredità del Risorgimento in quanto
aderisce alle sue scelte rivoluzionarie di rottura con la tradizione
totalitaria controriformista cattolica. La rivoluzione risorgimentale persegue
la costruzione di uno stato unitario guidato da un sistema politico fondato sul
tipo di libertà laiche elaborate tra settecento e inizio ottocento intorno
all'idea di liberalismo, dove al centro sta il parlamentarismo come processo
politico capace di garantire udienza e svolgimento pacifico ai conflitti tra
gruppi e classi di una comunità nazionale. Questa visione liberale, più o meno
radicale, aveva trovato espressione nel codice letterario italiano attraverso
le tre eminenti figure di Foscolo, Leopardi e Manzoni, le cui opere definiscono
e decidono la forma della riflessione di tutta la letteratura dell'Unità.
I testi della letteratura dell'Unità però nascono in una Italia politicamente
unificata; una realtà dunque profondamente matura, e ben compendiata
dall'espressione illuminante di Massimo d'Azeglio: l'Italia è fatta, ora
bisogna fare gli italiani. Contribuire a fare gli italiani è la
grande impresa che definisce la letteratura dell'Unità, ma quale tipo di
italiano?
È intorno a questa questione fondamentale: quel sia il tipo di società italiana
da realizzare, che si determinano le riflessioni, e quindi le opere, le
correnti, i periodici della letteratura dell'Unità, che intanto si trova a
dover sostenere l'urto con il Vaticano: la più grande forza culturale
organizzata della penisola, nonché il grande oppositore dell'Unità
risorgimentale. In questa logica papa Ratti saluterà Mussolini l'Uomo della
Provvidenza. Quello stesso Mussolini nel quale Piero Godetti aveva intanto
individuato l'uomo dell'antirisorgimento.
La scelta anticlericale è fondante la letteratura dell'Unità. Il cattolico
Manzoni la condivide con il laico verga: entrambi sanno che il vaticano
condanna il parlamentarismo, e la libertà di pensiero: nettamente e duramente.
Una condanna così radicale e determinata che giungerà fino alla scomunica dello
scrittore dell'Unità nella cui opera è stata più profonda l'ispirazione
cristiana: il Fogazzaro, credente, ma non disposto a rinunciare al suo
liberalismo conservatore.
Il progresso civile dell'Italia unita è il dato centrale della letteratura
dell'Unità. essa è prigioniera del grande progetto tracciato dalla generazione
degli eroi: i Cavour, Cattaneo, Mazzini, d'Azeglio; e che si rivelerà il
discrimine di giudizio davanti all'irrompere del socialismo nel ventennio
1880-1900. Lo documentano esemplarmente sia le posizioni di chi vi aderisce,
come De Amicis, sia chi vi si oppone, come Verga. Sempre decisivo è il giudizio
personale sul valore progressivo e di più adeguato fattore di unificazione
nazionale della nuova dottrina, il cui declino, dopo il decennio 1890-1900, nel
mondo intellettuale è la conseguenza della percezione del valore centrale nel
socialismo della lotta di classe, e quindi di una proposta culturale totalmente
altra, rispetto al modello parlamentare liberale. La letteratura dell'Unità ha
una impronta liberale troppo profonda per capitolare al socialismo. Ecco
perché, per quanto critica rispetto al potere politico, la stessa scapigliatura
resterà tutta dentro i valori della letteratura dell'Unità; soltanto dalla cui
dissoluzione, Gramsci comprendeva, avrebbe potuto nascere una vera possibilità
di trasformazione rivoluzionaria in senso socialista del paese. Questo è il
senso politico della proposta culturale gramsciana di una letteratura
nazionalpopolare, ma che non sarebbe mai venuta, per la grande forza del codice
della tradizione risorgimentale. E dopo aver retto al socialismo, la forza
della letteratura dell'Unità si riconferma davanti al fascismo; attraverso la
sua trasformazione in letteratura della Resistenza.
Il fondamento liberale del codice letterario della letteratura dell'Unità non
solo reggerà al fascismo, ma non meno tenacemente all'evo del clerico-comunismo,
rivelandosi il segnale più forte della difesa di una visione laica di libertà,
e quindi l'elemento vitale del processo di modernizzazione del paese; intanto
preso nei cicli della rivoluzione industriale.
La letteratura della Resistenza non è altro che la coscienza della
irrinunciabilità del grande codice letterario nazionale risorgimentale, dove al
centro sta una scelta antitotalitaria espressa dalla visione di progresso
collettivo inscindibile da una condizione di libertà individuale. Ma questo
codice, a partire dal fascismo, è stato tradito dalla classe politica, alla
quale bisogna dunque resistere, smascherandone l'inganno. Il fascismo promette
un impero, lo conquista, ma al prezzo del grande tradimento dell'ideale
mazziniano di fraternità dei popoli nella diversità. Valore che così Ravasenga
vive, milite andato in Abissinia: "In Etiopia avevo mangiato la burbutta,
una specie di farina abbrustolita che tiene il luogo del pane. Avevo conosciuto
altra razza, altra gente tutt'altro che spregevole, e rinunziato di buon grado
a credermi superiore a loro o farmi crociato o colonizzatore, magari fregando
questa gente con talleri falsificati, come di quando in quando accadeva". Roma
divina, pag. 53. Il codice letterario dell'Unità ha vinto sulla propaganda
fascista, sulla cultura manipolante del potere. Generalizzando, la letteratura
della Resistenza non è che la letteratura dell'Unità entrata in una situazione
conflittuale radicale con la logica di dominio della classe dirigente politica.
Esemplare illustrazione di questa continuità di conflitto da fascismo a post
fascismo tra dominio politico e codice letterario sono i casi Fenoglio,
Morselli e Lampedusa, tutti e tre morti pressoché inediti, il loro pensiero
epurato dal dibattito nazionale per tutti gli anni '50-'60: quando avrebbero
potuto dare uno straordinario contributo di idee, ma che erano state segnate
con il più perentorio NO della cultura ufficiale. Ecco perché il romanzo Il
comunista di Guido Morselli. Giunto fino in bozze da Rizzoli, non fu
editato per servilismo verso il PCI. Fu pura persecuzione ideologica.
Egualmente inedito per chissà quanto ancora sarebbe rimasto il capolavoro di
Lampedusa, Il Gattopardo; due volte stroncato nei suoi giudizi di
lettura per la Einaudi e la Mondatori da quel braghettaro della cultura
cattomarxista che fu Vittoriani, giunse alla stampa per volontà di Giorgio
Bassani, poi fatto oggetto, per il suo spirito laico, di persecuzioni dalla
consorterie clericomarxiste. Non meno amaro il percorso editoriale di Beppe
Fenoglio. Vittoriani gli tagliuzzò il suo primo romanzo, trasformandone
l'autore in scrittorello di novelle, ma non essendo insignificante, lo si
accusò: lui che aveva combattuto tra i partigiani, di offendere la memoria:
Sarà l'intervento di Geno Pampaloni, come Bassani spirito profondamente laico,
a trarre Fenoglio dall'oblio. Davanti alla sua assoluta grandezza incomincerà
un balletto di interpretazioni letterarie miranti a trasformarlo in scrittore
di genere. Ovviamente il genere partigiano.
Così il clericomarxismo, tra gli anni '50 e '60, ha privato l'Italia del
contributo vivo delle sue tre maggiori personalità letterarie, ma non deve poi
troppo sorprendere, visto che il clericomarxismo è stato anche il responsabile
della distruzione della nostra filmografia. Anche qui non ha fatto altro che
continuare la linea politica fascista di controllo sui soggetti e sui
contributi finanziari ai produttori. Il grande maestro di questa porca faccenda
fu don Giulio Andreotti, al quale va il merito di una nostrana lista di
proscrizioni, a non farci secondi agli USA. Ad illustrarne il senso e la
portata gli esempi De Sica e Antonioni. Non baciapile, non marxisti. De Sica
dopo Umberto D. non riuscirà più a dirigere un suo film, ridotto a protagonista
della commedia di costume; Antonioni già da l'Avventura, per girare,
deve ricorrere a capitali esteri, mentre quel vero autore di Regime che fu
Pisolini, e i vari guitti di contorno dai Rosi agli Scola, sperperano i loro
inutili talenti nell'orgia dei finanziamenti di stato. Va da sé che la classe
politica cattomarxista non avesse nessun interesse per il corpus di testi dov'è
depositato un laico valore resistente alla clericalizzazione del paese.
Non solo per un dato
puramente cronologico l'opera di Piero Ravasenga (1907-1978, nella foto) segna
il momento del passaggio dalla letteratura dell'Unità: di dialogo
interlocutorio con la classe politica intorno a un comune codice di valori,
alla letteratura della Resistenza: di aperto conflitto con il potere
politico in ragione di una incolmabile di variazione tra il progetto della
classe politica egemone e il progetto del grande codice letterario dell'Unità.
E nella parabola sia letteraria che umana di Piero Ravasenga è contenuta anche
la spiegazione del perché l'Italia manchi, a differenza della Francia, di una
letteratura di orientamento nettamente reazionario. Lo impedì il fascismo
stesso, e malgrado in Italia ne esistessero tutte le premesse, a incominciare
dalla figura e l'opera di Filippo Tommaso Martinetti e della sua cerchia. Per
quanto oggi ciarlino i ricercatori alla Veneziani di una cultura dell'evo
fascista sulla quale sarebbe stata pronunciata una sorta di damnatio
memoriae, non troveranno ombra di testo letterario di un qualche valore. Se
in politica e in religione baste crederci, in letteratura fortunatamente vale
ancora la prova del fatto, che nello specifico letterario è il testo: e non
esistono testi letterari credibili di matrice fascista. Comunque la si rigiri,
un Martinetti era già ultracelebre prima del fascismo, e il suo futurismo si
decompose, divenne un fantasma proprio in evo fascista, come tutta la
complessiva letteratura d'ispirazione nazionalista; che proprio per la
stupidità fascista nel gestire la cultura attraverso il Ministero della Cultura
Popolare o ne accettò le norme e regredì a pura propaganda, o ruppe, per poter
esistere, con il progetto culturale fascista. E proprio questa seconda scelta
illumina esemplarmente la figura e l'opera di Piero Ravasenga, e soprattutto
con il suo romanzo fin qui non casualmente inedito, Roma divina, titolo
sulfureamente ironico. Piero Ravasenga nasce a Borgo san Martino, comune alle
porte di casale Monferrato, dove il padre è medico condotto, in una famiglia di
borghesia benestante, il cui orizzonte spirituale è quello dei valori
risorgimentali. Nipote di Onorato Vigliani, uno dei protagonisti del
Risorgimento è la madre, Agostina Vigliani donna con profondi interessi
artistici: collabora a riviste e pubblica da Streglio nel 1900 un romanzo,
mentre frequentano la casa di Borgo, tra gli altri, Guido Gozzano e Polizza da
Volpedo. Piero Ravasenga si forma quindi entro la parte più viva della cultura
italiana coeva, ma il clima tragico di guerra contro il nemico storico
dell'Italia risorgimentale: l'impero Austroungarico, ne impedisce una serena
maturazione. Quando l'Italia entra in guerra Ravasenga ha otto anni, e il suo
idolo e poi modello diventa il D'Annunzio del discorso di Quarto, il poeta
soldato autore della beffa di Buccali e della trasvolata su Vienna. Il pilota
che guida l'aereo del Vate è il casalese Natale Palli, poi morto nel 1920 in un
volo sulle Alpi, diventando una figura simbolo del Ravasenga adolescente e
giovane scrittore.
La tendenza a un nazionalismo esasperato si accentua nel Ravasenga adolescente
per il clima di tensioni sociali, con episodi da guerra civile tra proletariato
e borghesia in Casale Monferrato; allora uno dei poli dello sviluppo
industriale del paese: La pace portò licenziamenti e disoccupazione , sfociati
in scontri di piazza, il cui clima così rievoca in un passo di Roma divina:
" La fortuna gli era venuta suo malgrado, quando un gruppo di teppisti e
di mezzo idealisti - e poi sempre questi secondi la purgarono - gli strapparono
le decorazioni di guerra. Sorgeva il fascismo, dilagava lo squadrismo. Il
console C., allora semplice camicia nera, si trovò ad affrontare situazioni
poco pacifiche. Seppe sparare a tempo e lungo, seppe arrischiare come un
giocatore d'azzardo, ma non infierì negli episodi spiccioli e spiacevoli della
reazione" pag. 45-6.
Il giovane Ravasenga è schierato su posizioni antisocialiste, e già da prima
che emerga Mussolini, nel quale i ceti borghesi liberali e i loro leader, da
Croce a Giolitti, vedono un utile strumento; che però saprà strumentalizzare
questi ceti e personalità, anche per un concomitare di circostanze eccezionali:
la condizione di depressione psichica del re, la tendenza clericale della
regina madre, e soprattutto l'appoggio determinante del vaticano, deciso a
servirsi del fascismo per liquidare la classe dirigente liberale, con la quale
sa che non potrà mai fare patti grassi.
Di questa visione strumentale del fascismo partecipa anche il giovane
Ravasenga, come si coglie anche in questo significativo passo di Roma divina:
"Dissero che c'era dentro (dal duce) Federzoni. Ricordai le camicie
azzurre dei nazionalisti: Federzoni aderendo al fascismo portava la fissità e
restava un peso determinante". Ma il nazionalismo di Federzoni non era più
la dottrina dai contenuti di libertà elaborata da Mazzini. Era ormai una
dottrina imperialista allucinatrice, e solo accettandone il codice
integralmente: quale lo aveva ridefinito nei rituali e nelle formule il
D'Annunzio della marcia su Fiume, Mussolini aveva raggiunto il potere. Si
aggiunga che il Mussolini giovane si era formato spiritualmente in un ambito
culturale del tutto antagonista rispetto ai valori liberali risorgimentali. Il
punto di partenza culturale di Mussolini era stato il socialismo, e lungo tutto
l'arco della sua parabola politica rimarrà sempre un implacabile critico della
borghesia, nella quale avvertiva un avversario irriducibile al suo progetto di
dominio. Il pensiero politico borghese rifiuta strutturalmente l'idea di capo
carismatico, perché sorto proprio dalla lotta contro forme di società totalitaria,
dove al centro c'è sempre il momento unificante di una caperia carismatica. E
l'idea politica liberale borghese impronta di sé tutta la cultura dell'Unità.
Il duce, per imporre il suo progetto, doveva battere in blocco questa cultura,
ma che era anche tutta la cultura dello stato italiano risorgimentale, del
quale, attraverso il fascismo, Mussolini mirava ad impadronirsi.
In questo quadro appare chiaro che Mussolini doveva condannare a morte Godetti
come i Rosselli, portatori di una cultura che escludeva programmaticamente il
suo progetto politico. Ma l'omicidio e il carcere non erano che le soluzioni
estreme, davanti ad avversari irriducibili. Formidabile tattico, Mussolini
progettò di soffocare la cultura dell'Unità: i valori di libertà che portava,
attraverso una combinazione di culto del capo e di corruzione capillare,
rafforzate con una azione poliziesca inquisitiva. Una corruzione sapientemente
dosata: mentre offriva la magnitudine dell'Accademia Nazionale a irretire i
vari Bontempelli, Baccelli, poi graduava, via discendendo, una pletora di
istituti e prebende minori e minorissimi per minori e minorissimi personaggi.
Un quadro di corruzione intorno al culto del Capo che in Roma divina
Ravasenga ricostruisce, sia rievocando il miserabile direttore di una rivista
inventata per spillare soldi al regime, sia nella esilarante pagina dove
racconta come va a chiedere un piccoli sussidio a Martinetti, grande
elemosiniere del regime tra le pletore degli artisti basiti e famelici. Una
corruzione intellettuale spicciola che si media per i grandi salotti mondani
quali quello della Sarfatti, e gli oscuri delle varie signora Lola, nei quali
si trova impaniato anche il giovane Ravasenga calato a Roma, ma che non ha per
formazione il culto del capo. E non lo ha in quanto la sua coscienza si è
modellata sui valori del Risorgimento, dove al centro stava la lotta contro il
capo dei capi, l'ungitore dei re; il papa. Ecco che cosa impedisce a Ravasenga
il culto fascista del capo: il suo anticlericalismo razionale, che diventa
antifascismo dopo il concordato tra il regime e il Vaticano, e non già al
delitto Matteotti, al delitto Godetti: azioni umanamente rivoltanti, ma
politicamente necessarie in rapporto alla necessità dell'ora, era il
ragionamento. Lo descrive la scelta di Pirandello di aderire al fascismo dopo
il delitto Matteotti.
Pirandello, e con lui Ravasenga, vedeva nel fascismo la estrema e necessaria
difesa della tradizione risorgimentale borghese, attaccata ed erosa da due
poderose forze: la chiesa cattolica e i vari movimenti d'area proletaria, tra
il socialismo umanitario e l'anarchia malatestiana, via passando per la
socialdemocrazia marxista. Per Pirandello il fascismo era la dittatura
necessaria a salvare la tradizione risorgimentale, ma che doveva abbandonare il
potere dopo aver svolto la sua funzione, restaurando libertà di pensiero e di
iniziativa politica parlamentare. Ed ecco perché dagli anni '30 Pirandello
entra in conflitto con il fascismo. Dopo aver chiesto esplicitamente a
Mussolini di chiudere con le persecuzioni e la repressione.
La rottura tra Ravasenga e il regime si determina quando Mussolini firma
"il concordato" (1930), che consegna la scuola al Vaticano, e apre
alla riclericalizzazione della nazione. Il concordato è per Ravasenga il
segnale di un antirisorgimento in atto, di una regressione verso la negazione
di ogni libertà. Inizia da questo momento: dal 1930, la sua lunga riflessione
sul fascismo e sul duce, la cui magistrale sintesi è Roma divina, ma
inizia anche il suo lungo esilio interno, il cui tratto tragico è
l'impossibilità per lui, affermato giornalista, di guadagnarsi da vivere con il
proprio lavoro. E per una ragione molto semplice: tutto quello che egli
vorrebbe scrivere lo porterebbe immediatamente dritto in galera. E in una
galera ancor più profonda chi gli desse licenza di pubblicare.
In Piero Ravasenga il
sistema fascista e la cultura dell'Unità vengono a confronto: dentro la sua
coscienza, e la scelta della sua coscienza lo porta a quella condizione di
esilio interno che non sarà soltanto sua. Chi ne voglia cogliere il senso
drammatico ha a disposizione le lettere del Montale cacciato nel 1930 dal
gabinetto Vieusseux per non aver la tessere del regime; come il percorso che
porta Guido Morselli al suicidio esempla l'isolamento spirituale di chi abbia
cercato libertà di scrittura sotto il clericomarxismo.
Tutta la generazione che crede nei valori della rivoluzione laica
risorgimentale, davanti alla svolta totalitaria fascista vive lo stesso dramma di
Piero Ravasenga, che diventa l'emblema di questo dramma nella vita e nella
scrittura. Una scrittura che dagli anni trenta può soltanto avere uno sbocco
editoriale episodico.
Ravasenga vive dopo la Liberazione in una vera furia di libertà, disperdendo gli
ultimi soldi del patrimonio personale in un giornale che si propone di
promuovere un'area di cultura libertaria, così tagliandosi la strada o ogni
possibilità di reinserimento, segnalatosi per il suo giornale oppositore
irriducibile alla sistematizzazione della cultura sedicente resistenziale nel
grembo marxista. E così, a partire dagli anni '50 Ravasenga diventa sempre più
povero e sempre più solo, sempre più emarginato, più smarrito in percorsi
perifericissimi. Ma non smette di pensare e scrive, e però per pensare e
scrivere deve allucinarsi con dosi sempre più devastanti di vino e di fumo.
Fermo nella sua determinazione di resistente, così porta avanti il suo progetto
di scrittura in una situazione estrema, alla quale regge soltanto per una forza
nativa grandiosa.
La decadenza fisica si protrae per anni, fino alla morte nel 1978, e lo cala
nel mondo della piccola delinquenza, dei barboni, dei vagabondi, egli diventato
il "grande vagabondo", d'estate infaticabile per le città e i paesi
d'Italia, in un andare e venire dal natio Monferrato, dove un gruppo di amici
gli sarà comunque a fianco. Lo ospiterà, lo sosterrà, conserverà le pagine
sparse che accumula, aderirà ad alcune sue iniziative editoriali che gli
procureranno qualche piccolo profitto.
Ravasenga è un lavoratore infaticabile nel suo disegno di scrittura, e capace,
per mantenervisi, delle voltate più impensabili, fino a ricoverarsi, il fiero
anticlericale, gli inverni in convento, e poi in pensionati di vecchiaia. Una
vicenda che descrive il prezzo della libertà di pensiero: il suo esercizio
sotto il cattomarxismo, e che viene così tradotta dagli scrittori del
regime:"…figura aliena da consuetudini con la società letteraria, è capace
di sprofondare per decenni, facendo perdere le tracce di sé, ha qualcosa del maudit…"
- in Dizionario della letteratura italiana contemporanea, pg. 645,
Firenze 1973. Attraverso una interpretazione pseudofolklorizzante la resistenza
morale diventa stranezza caratteriale, il conformismo e la viltà elevati
modelli di vita esemplare.
E però il precoce giovane scrittore - traggo tutte le informazioni biografiche
e bibliografiche dal fondamentale Teresio Malpassuto, Portriat d'un Paure
homme - Piero Ravasenga: la vita e le opere di un poeta da non dimenticare
- che aveva collaborato a "Critica Fascista", "Quaderni del
GUF", "il Giornale d'Italia", "la Fiera Letteraria", e
che continua a collaborare tra gli anni '50 e '60 alla "Gazzetta del
Popolo", e partecipa episodicamente alla vita artistica torinese e
milanese, trova nel 1963 uno spazio presso le edizioni del Milione, dove edita
Magnolie per Siglinda, romanzo breve di straordinaria sensibilità raffinata,
come prova il consenso degli spiriti più attenti della cultura italiana coeva,
da mOntale a Soldati. Tra questi vi è anche Geno Pampaloni, direttore di una
collana presso Vallecchi, che chiede a Ravasenga un romanzo. Vede così le
stampe nel 1964 Le nevi di una volta, altro romanzo breve di
straordinaria intensità, che rinnova il successo di Magnolie per Siglinda,
dal quale riprende temi e modi, e dove di nuovo il protagonista è un io
narrante che svolge una complessa riflessione in margine a pochi e rarefatti
avvenimenti che si svolgono come glosse e illuminazioni rispetto al tempo della
storia, mostrato come spazio di una intollerabile sopraffazione.
Da una lettura
complessiva dei due libri editi da Ravasenga in vita e dei tre inediti in
dattiloscritto emerge un disegno unitario, in ragione dell'unico io narrante
che regge un complessivo racconto e che impone una conclusione. Dopo il
fascismo, dopo il fallimento delle illusioni dell'evo della liberazione, tra
gli anni '50 e '60 Piero Ravasenga si impegna nel progetto di una grande libro
romanzesco che trasfiguri la sua vita nel racconto di un picaresco testimone
del proprio tempo. Orienta Ravasenga vero questo progetto la profonda e
meditata lettura della Commedia dantesca, nella quale ha individuato la
più grande macchina di scrittura di verità, e quindi di educazione morale, come
documentano alcuni suoi saggi letterari inediti.
Dopo gli anni quaranta Ravasenga sente di aver attraversato abbastanza mondo da
trarne un insegnamento esemplare, che deve comunicare attraverso un grande
romanzo picaresco di impianto dantesco. Incomincia ad accumulare appunti,
scrivere pagine, fissare momenti, delineare, portare avanti e riscompaginare il
quadro, le singole parti realizzate affidando a questo e quell'amico, dai quali
poi ritorna per riprendere i manoscritti e i dattiloscritti che ha lasciato, e
proseguire nell'opera di stesura e integrazione delle parti..
Mentre il lavoro di testimone di un evo è in corso di scrittura, si apre la
possibilità di pubblicare presso il Milione. Ravasenga è sotto l'effetto della
suggestione sentimentale per la giovane donna trasfigurata in Siglinda, che
diventa il fatto intorno al quale recupera altre pagine di preesistente
scrittura, compreso un racconto già preparato per la "Gazzetta del
Popolo". Eppure il romanzo non risulta un assemblaggio incoerente: lo
unifica la tensione morale che lo mobilita nel disegno di giudizio universale
sul suo tempo, per cui ogni capitolo è a un tempo un episodio in sé conchiuso e
un esempio didascalico a illuminare una verità trascendente. Ed è anche la
logica di Le nevi di una volta, altro capitolo sotto il segno di una
testimonianza morale, della biografia del tempo che Ravasenga ha attraversato.
La pubblicazione del secondo romanzo è del 1964, Ravasenga morrà quattordici
anni dopo. In questi anni non gli sarà data la possibilità di pubblicare un
altro suo libro, mentre continuerà una episodica collaborazione a testate
locali. E però prosegue il suo progetto di giudizio universale,
organizzando in quattro opere il brogliaccio di pagine inedite, che in qualche
modo si collegano tra loro e completano il racconto dei due romanzi editi.
Abbiamo tre dattiloscritti, e sono: Roma divina: nel quale Ravasenga
ricostruisce il clima e la logica del regime fascista; Il premio letterario:
confronto tra l'evo fascista e quello del clericomarxismo; Cronaca del
secondo fieno: che ripercorre e rimedita la sua vicenda tra il fascismo e
il clericomarxismo. E lo smarrito Lo scarabillo: "Di questo romanzo
l'autore ci dà alcune indicazioni: in una lettera all'amico Gatto:-… non si
tratta di racconti bensì di un lungo arco di tempo e non è pubblicabile, si
capisce per ragioni politiche: i fascisti sono sempre dei cretini oggi come
ieri e i democratici non pubblicherebbero… come Salvator Gotta ha ritoccato il
suo romanzo al posto dei fascisti mettendoci egli eroici parmigiani (d'altra
parte non ha forse Ungaretti cancellato la dedica a Benito Mussolini dalla sua
più bella poesia: Carso), così il libro può apparire in veste politica
mentre relega la politica, specie quella italiana nella pattumiera". - in
T Malpassuto, op.cit. pg.169.
Di questo corpus che forma
il "Giudizio Universale" ravasenghiano sul nostro tempo, un
capolavoro della letteratura della resistenza, il momento significativo è Roma
divina. È il racconto di come Piero Ravasenga, in ragione della sua fedeltà
al codice morale della letteratura dell'Unità, entri in conflitto con il canone
fascista, diventando uno dei grandi autori della letteratura della Resistenza,
costretto dalla logica della scelta morale ad abbandonare i forti connotati
originari di pensatore borghese conservatore. Ma per afferrare il capitale
passaggio occorre avere chiaro il senso altamente emblematico di Roma nella
letteratura dell'Unità, e la degradazione di questo topos risorgimentale.
Una tra le più lucide intelligenze del nostro Risorgimento, Massimo D'Azeglio,
ammonì tenacemente gli italiano a non conquistare Roma, a evitare di essere
riconquistati dal papa. Per D'Azeglio l'Italia uscita dal Risorgimento non
doveva né connettersi ai romani né al medioevo papale, bensì alla tradizione
dei comuni liberi e dell'umanesimo, che aveva trovato il suo centro in Firenze.
Ecco perché Firenze doveva essere la capitale d'Italia, lasciando Roma al papa:
a non essere ripapizzati. E però il mondo della politica non è il regno della
ragione. La frazione radicale mazziniana considerava non concluso il
risorgimento senza la presa di Roma; né diversa la sponda monarchica, Roma
capitale, potenza ipnotica del mito, diventa il sigillo dell'epopea unitaria,
mentre la città storica non è che un agglomerato rachitico e malato di capanne
e di plebi, cannibalizzata dal copraccione spropositato di una pletoria di
preti frati e suore tra chiese e conventi e al corte vaticana. Per trasferire
la capitale da Firenze - dove il savio lungimirante D'Azeglio voleva restasse -
a Roma; muovere cioè la grande massa di impiegati e comandi e ministeri; il
corpo di una capitale, bisognava costruire ex nuovo una città. Nasce così la
Roma dei piemontesi, in anni di febbrile lavoro, che ci sono raccontati da
dentro gli accadimenti da due straordinari libri di uno dei grandi scrittori
dell'Unità, Giovanni faldella. Due libri dal laico titolo anticlericale: Viaggio
a Roma senza veder il papa, Casanova, Torino 1880 e Roma borghese,
Sommaruga, Roma 1882.
A questa Roma borghese accorrono dal nord come dal sud le più belle intelligenze:
a Roma convengono dalla Sicilia Pirandello e dal Piemonte Balla, e soprattutto
da Milano quello straordinario animatore della cultura dell'Unità che fu in
Roma, per una breve stagione, Angelo Sommaruga, editore che concentrò nella
capitale, intorno ai suoi giornali e libri, tutta l'intelligenze dell'epoca:
dal giovane D'Annunzio al grande narratore e formidabile polemista Vittorio
Imbriani, dal Carducci a Pascoli, Verga. Pressoché tutta l'intelligenza
nazionale pubblica su e legge il periodico di letteratura e costume edito dal
Sommaruga " La Cronaca Bizantina", il cui senso nella polemicissima
epigrafe carducciana, a ogni numero ripetuta a glossare la testata: Italia
Roma chiedeva Bisanzio le fu data.
Il sommaruga fu fatto fallire, malgrado il successo dei suoi giornale e delle
sue riviste, per una ben precisa scelta politica, che suonò come il primo
segnale forte di una ricerca di dialogo e riconciliazione con l'oltre Tevere.
Il ceto politico dirigente aveva deciso che Roma non potesse avere una vita
culturale vera, perché poneva allora, come pone oggi, gravi problemi
conflittuali di ordine morale con il vaticano. Proprio come un forte
proletariato li poneva di ordine politico, per cui bisognava evitare anche lo
sviluppo industriale della capitale. Una capitale con due corti che si
studiavano e una classe politica che si appartava dal paese e recitava un suo
spartito, protetta dalle temperie della nazione, la cui vita doveva svolgersi
altrove,. E infatti D'Annunzio esca da Roma, mentre nasce la biennale di
Venezia, l'editoria si sviluppa al nord, o resta a Firenze, i giornali
autorevoli diventano " Il Corriere della Sera" di Milano, " La
Stampa" di Torino.
Fu la scelta di conciliazione con il vaticano che portò a una
provincializzazione della capitale e a una dispersione dei centri intellettuali
e dei centri economici. Una politica culturale ed economica che durerà fino
all'evo fascista, e garantirà un certo decentramento alla vita del paese, darà
spazio a voci locali, manterrà identità create dalla traduzione storica,
realizzando così una sorta di regionalismo non formalizzato.
Una vita spirituale
autonoma che fascismo non poteva tollerare. Per metterla sotto tutela impose
alle testate giornalistiche direttori di osservanza fascista, e centralizzò a
Roma e nazionalizzò il cinema e la radio, intanto creando istituti di controllo
culturale quali: l'enciclopedia Treccani, l'Accademia, la scuola di arte
drammatica. Un progetto di censura, ma che al giovane Ravasenga, che aveva
letto nella biblioteca di casa i due libri sulla Roma capitale del Faldella, e
assorbito dalla famiglia il mito risorgimentale di Roma capitale, appariva come
l'inveramento del grande progetto risorgimentale di fare dalla nuova Roma il
centro spirituale dalla nazione. Ecco perché, dopo lettere, sceglie di venire a
Roma, là sistemato in una sorta di sinecura da un potente parente materno: il
quadrunviro Cesare Maria De vecchi, l'uomo più brutto e più stupido d'Italia
nel giudizio di Mario Soldati.
Piero Ravasenga giunge a Roma per continuare la dazegliana creazione degli
italiani attraverso la scrittura letteraria, ma mito risorgimentale e fascista
realtà vengono a confronto e determinano, come abbiamo già visto, la grande
svolta della sua vita. È il trapasso da scrittore della letteratura dell'Unità
a scrittore della Resistenza. Ma prima che questa svolta tragica possa
diventare materia di scrittura: trovi la sua adeguata forma narrativa, dovevano
trascorrere trent'anni. Ravasenga doveva decifrare: darsi una rappresentazione
completa delle tragiche ragioni dello scacco fascista. Un processo di
elaborazione che dura dagli anni '30, e che alla svolta degli anni '60 non si è
ancora, come descrive ( si veda la nota da noi premessa al testo) il
dattiloscritto di Roma divina, la cui presente redazione ha un termisus
ad quem individuato dal passo:" conduceva a modo suo la sua dolce
vita", ergo lo stato di elaborazione del dattiloscritto è posteriore
al 1960, anno della comparsa nelle sale di proiezione del capolavoro
felliniano.
Il racconto si articola in tre blocchi, ma sempre uno è il protagonista:
Mussolini, del quale, e del fascismo, nella pagine di Roma divina
Ravasenga traccia uno tra i più meditati, articoli e credibili profili.
Nell'incipit oppone al tempo della storia, dove il racconto è per calare il
lettore, il tempo del mito. È un breve excursus, di straordinaria suggestione
poetica, che disloca l'autore in un evocativo tempo dell'infanzia, con i cui
occhi ha gia visto Roma: l'ha toccata nel sogno. Da questo incipit favoloso la
narrazione scaraventa il lettore nel crudo di un luogo letterario topico della
Roma fascista: il caffè Aragno, ma immediatamente smantellato d'ogni orpello di
grande vita. Qui, il primo personaggio che il giovane Ravasenga incontra è un
commissario di polizia, che si finge in dissidio con il regime per incastrare i
dissidenti politici. Segue poi la galleria di parassiti vari, condotta con la
fulminea capacità sintetica dell'incisione al bulino. Un mondo rappresentato
con una lucidità che mira al grottesco. Una serie di ritratti che non cadono
mai nel bozzetto per il disegno che li organizza. Di stazione in stazione,
attraverso il caffè, la bettola, il postribolo, il sistema dello scrocco
reciproco di una società di parassiti porta il picaro pitocco Ravasenga al grande
parassita: il duce. In poche pagine, ma per anni meditate, riscritte, sintesi
di intelligenza e riflessione, l'Autore traccia il miglior ritratto che sia
stato dato del nefasto dittatore. Del quale non nega l'intelligenza, la
dottrina, la capacità manovriera, ma tutte queste virtù sono al servizio di una
opportunismo personale, di una completa mancanza di senso della vita
comunitaria e del rispetto individuale.
Questa prima parte è un unicum per ricostruire la cultura dell'evo fascista, e
spiegare il deserto di testi di scrittura creativa. Tutto era un gioco di
piaggerie, come racconta l'incontro con Martinetti. E dalla parola falsificata
nulla può avvenire. E infatti nella Roma fascista le ultime verità Ravasenga le
trova nel mondo dei pittori, impegnati in un magistero solitario e ascetico, ma
soprattutto separato dalla parola. Diventa così essenziale guardare le loro
tele, ragionare di arte. Il mondo della Roma fascista ha però uno spazio di
vita umana: la bettola degli sposati e dei poveri, che riconoscendo la natura
infernale della loro realtà, ad evaderne devono bere. Il bere diventa la forma
prima e immediata di resistenza esistenziale: che si nutre di un fiume
ininterrotto di vino. Il resistente Ravasenga dovrà berne fino a esserne
stroncato.
Vino e fascismo entro la simbologia ravasenghiana si escludono reciprocamente:
non c'è presenza di vino nella ricostruzione che il Nostro traccia della plebe
fascista, attraverso la descrizione della vita in una pensione romana, dove al
centro sta la figura grottesca di un gerarchetto, perfin affabile, ma minato da
una vanità mussoliniana che lo ridicolizza, e alla fine lo caccerà a
nascondersi nella miseria della Napoli della liberazione, in fuga dalla Roma
post fascista.
Il testo di Roma
divina è di grande complessità: la scrittura mira., seconda la lezione
dantesca, al realismo attraverso il simbolo e l'allegoria. Il racconto crudo ed
aspro sottende sempre un portato e simbolico e allegorico soltanto a tratti
avvertibili. Qui ne segnaliamo un evidente esempio.
Nelle pagine conclusive il lettore si imbatte in una bottega di fabbro ferraio,
a pochi passi da villa Torlonia, la residenza del duce. La bottega del fabbro
si individua per un lume e un ramo d'alloro, e Ravasenga la scorge prima di
vedere la villa del duce, e di scagliarsi in una calcolata invettiva contro il
tiranno, accusato della più falsa delle onestà: quella che l'attore recita
sulla scena, immedesimandosi in un personaggio che si è cucito addosso. Presso
Villa Torlonia abita una zia di Ravasenga, una scrittrice di buoni talenti, ma
caduta nella più assoluta banalità per aver aderito ai deliri menzogneri del
duce: l'ultimo, mentre la guerra precipita, le armi segrete hitleriane, emblema
del non voler vedere la verità. Ravasenga si è recato dalla parente a chiedere
un aiuto perché è povero e affamato. Potrebbe ottenerlo se fingesse, secondasse
la follia fascista della zia. E invece dice alla zia la verità: la guerra è
perduta, e non ottiene nulla. Ravasenga lascia l'alloggio della parente povero
e affamato come quando vi è entrato, e inveisce contro gli stupidi che dicono
la verità. Procede nella notte, rivede la bottega del fabbro e l'alloro. E poco
dopo incontra uno stremato, irriconoscibile compagno di bevute, reduce dalla
Russia, il verniciatore Pettirossi. Questo il crudo racconto, ma costruito con
simboli tratti dal codice interpretativo pascoliano dell'opera dantesca. Entro
questo codice, il fabbro è l'emblema di dante: lo ribadisce l'alloro, simbolo
della visione profonda apollinea, e il lume, guida alla verità. Solo dopo esser
passato davanti al fabbro: visione della poesia dantesca, scatta l'invettiva
contro il tiranno. Ravasenga può, illuminato dal maggior Fabbro, giudicare il
tiranno, mostrato nella sua menzogna. Ma perché questo accade? Perché si
accetta l'inganno? Ravasenga lo spiega attraverso l'incontro con la zia
scrittrice e l'invettiva contro la verità, a mostrare il gioco corruttore della
retorica, ma della quale non rimane vittima perché sa dov'è: ritrova la bottega
del fabbro, ovvero possiede interiormente la coscienza del vero attraverso
l'insegnamento dantesco, dove origina il codice della letteratura dell'Unità. E
questa conoscenza ha un premio, minimo eppure altissimo: l'incontro con il
verniciatore Pettirossi, reduce dalla Russia:" Sembrava già tanto che ci
fossimo riconosciuti. E fu una breve ma piacevolissima sosta presso i panini
umili ed il fiasco di un'osteria". Così si conclude Roma divina: il
regime è crollato, il canone della Resistenza intorno al vino della comunione
degli uomini ha retto.
L'episodio può anche essere letto come puro processo descrittivo di una visita
di un nipote scapestrato a una zia istupidita, ma da una analisi topologica
emerge una organizzazione calcolata dei luoghi e degli incontri: la bottega del
fabbro, villa Torlonia, la palazzina della zia, sono accostate ad arte da
Ravasenga. Come ad arte chiude il libro l'incontro con il reduce Pettirossi,
emblematico due volte: nella professione e nel nome. Verniciare è nascondere,
mostrare una forma cambiata: come l'operaio sotto il fascismo; la complessiva
realtà operaia, che Pettirossi emblematicamente rappresenta. Come emblematico è
il nome: il pettirosso è il piccolo passeraceo con tracce di rosso sul
mantello, e chi più ferito dell'operaio sotto il fascismo? Ma è anche un
passeraceo di straordinario coraggio: e solo per un grande coraggio il
verniciatore ha saputo tornare dalla Russia a Roma. La Russia è per Ravasenga
il luogo e l'emblema di un alt4ra grande inganno. La logica simbolica governa
la scrittura di Roma divina, si coglie in ogni pagina e determina sia la
costruzione degli episodi, sempre didascalici, che delle frasi sempre
emblematizzanti. Esemplarmente: nell'emblema romana antica il cane è simbolo
della plebe, e la plebe sotto il fascismo è un cane morto. Ecco a che cosa
allude l'osteria individuata come Cane Morto (che non si trova nella
toponomastica delle osterie romane), spazio di uomini che abitano in una realtà
scampata alla logica del dominio: rispetto al quale sono cani morti. Attraverso
il vino la comunità dei bevitori uccide la fedeltà canina al padrone fascista e
transita nel sogno paradisiaco di libertà.
Al lettore il piacere di transitare nel testo di Ravasenga dal livello della
quotidianità a quello del simbolo, avendo ben presente che questa
organizzazione simbolica della scrittura non ammette l'improvvisazione, esige
un ragionato rapporto tra le parti, e al livello del disegno complessivo e nei
rapporti dentro i capitoli e tra le frasi. Tempi lunghi e il possesso di un
codice che solo si può acquisire dalla adesione a una tradizione, che l'arte di
Ravasenga trova risalendo a dante lungo la linea Pascoli Rossetti Foscolo. Ma
questa riorganizzazione dantesca della scrittura di Roma divina non è
stata portata a completa conclusione, come si deduce da alcuni salti logici.
Esemplare: "Intorno a Ciano tutti e dietro il cerchio io ci si era
assiepati", che individua un nucleo non elaborato, ergo rimasto allo stato
di appunto. Una rottura netta, uno strappo nel tessuto narrativo, e però la
redazione del testo è stata portata da Ravasenga già così avanti da fare di Roma
divina il momento più alto della sua scrittura, straordinario capitolo
iniziale del suo "Giudizio Universale" sull'Italia tra fascismo e
cattomarxismo, e uno dei grandi testi della letteratura della Resistenza.
(Tratto dal Libro Roma divina - che cosa fu il
fascismo di Piero Ravasenga, Ed. Stampa Alternativa, Roma, 2001)