LA GUERRA PREVENTIVA
Lucio Magri
In modo pacato e razionale - basandomi cioè su innegabili elementi di fatto
organizzati in un ragionamento, e risparmiando princìpi pur importanti o pur
ragionevoli supposizioni - vorrei sostenere una tesi molto radicale. Che è la
seguente. Di fronte alla guerra all'Iraq e nel contesto in cui si colloca è
giustificato, utile e necessario solo un 'no' secco e immediato. Ogni
complemento che lo precisi ponendo condizioni circa il modo o il chi, che
temporeggi nella speranza che poi non ci si arrivi, che si limiti a contestarne
l'efficacia - persino ogni rifiuto che lo stemperi in una scelta morale in nome
del principio della non violenza, fuori dal tempo e dallo spazio - in questo
momento non solo è insufficiente a fermare il corso delle cose, ma al contrario
funziona come una copertura, fino alla complicità. Il copione infatti è ormai
in scena e il messaggio complessivo è inequivocabile.
È un copione già visto, ricorda drammi recenti, ma richiama, pur tra tante
differenze, addirittura gli anni più foschi del secolo scorso.
Una tragedia in tre atti:
Atto primo: L'invenzione di un sopruso a cui reagire o di una minaccia
cui far fronte. Una minaccia tanto grave e tanto incombente da legittimare non
solo una "guerra giusta", ma una "guerra giusta" preventiva.
Questa era la premessa necessaria, e una gigantesca macchina propagandistica
sta già tentando di farla penetrare nel senso comune ancora dubbioso, senza
essere a sufficienza contrastata. Saddam vuole presto scatenare un'offensiva,
non solo in Medio Oriente ma contro tutto l'Occidente, ha accumulato o sta per
acquisire i mezzi di distruzione di massa per sferrarla, occorre fermarlo in
tempo, prima che l'intenzione possa essere messa in atto. Intervenire subito
per impedirglielo è pertanto un passaggio cruciale e necessario della lotta al
terrorismo e agli Stati che lo sostengono.
Nessuno degli elementi di questa tesi ha sia pure un minimo di rapporto con la
realtà.
La forza aggressiva che l'Iraq sta per 'mettere in campo' non solo non è
infatti provata, ma è smentita anche da personaggi e settori dell'establishment
interno al fronte di chi la guerra vorrebbe farla al più presto.
Una commissione apposita dell'Onu, che doveva fare una ricognizione dello stato
reale del potenziale militare iracheno dopo la guerra del Golfo, concluse che
essa era ormai ridotta al dieci per cento di quella precedente e che pure era
stata rapidamente sbaragliata con centinaia di migliaia di morti iracheni e 28
morti tra gli occidentali (di cui non pochi per gli incidenti). L'Iraq non ha
avuto successivamente una struttura industriale per ricostruire quella forza,
né i mezzi finanziari per acquistare consistenti e moderni armamenti per
renderla più efficiente. Il capo degli ispettori che pure hanno lavorato per
anni a una verifica, ha solennemente dichiarato che l'Iraq oggi è meno potente
e peggio armato di allora. L'istituto inglese di ricerche strategiche e
militari - la più autorevole autorità in materia da parte occidentale - afferma
più o meno la stessa cosa.
Ma anche se in parte sbagliassero valutazione e Saddam fosse riuscito,
nell'ombra, ad acquistare qualche semimoderna e arronzata arma di distruzione,
certamente egli non ha i mezzi per usarla se non poco oltre i suoi confini e
solo per un orrendo atto dimostrativo, esponendosi però in poche ore alla
totale distruzione, oltre che di sé e dei suoi fidi, dell'intero Iraq, da parte
dei paesi limitrofi (Israele, anzitutto, come potenza atomica) e degli
americani già militarmente presenti nell'area. Sarebbe l'atto di una sorta di
kamikaze a scala gigantesca.
Quale plausibilità si può attribuire a questa improvvisa trasmutazione di un
dittatore senza princìpi, ossessionato dalla continuità e dalla stabilità del
suo regime, ormai quasi ereditario, in un nuovo Bin Laden promotore della più
disperata guerra sante e personalmente pronto al sacrificio?
I pessimi precedenti in questo caso non valgono, anzi dimostrano il contrario.
Il regime iracheno è esecrabile per ottimi motivi: ha massacrato i suoi
oppositori in modo preventivo (comunisti anzitutto, poi minoranze musulmane o
etniche, fino a membri della sua stessa famiglia e tribù); ha aggredito l'Iran
(un milioni di morti) con l'appoggio americano; ha infine invaso il Kuwait per
allargare il suo potere economico e politico nella regione (rompendosi le corna
e cercando poi di sopravvivere), pur pagando il prezzo di dieci anni di
bombardamenti contro cui non poteva reagire e di sanzioni che hanno decimato il
suo popolo e la sua economia. E perdendo influenza non solo tra i governi, ma
anche tra i popoli arabi, palestinesi compresi. Cosa lascia sospettare la sua
propensione al martirio? Perfino un fanatico come Hitler ha esitato di fronte
alla guerra prima di poter avere la speranza, militare e politica, di vincerla.
Vogliamo allora ridurre l'imputazione all'ipotesi che più semplicemente egli
voglia coprire e dotare di mezzi terribili per servirsene ai suoi fini di
potenza regionale frustrata, il terrorismo islamico? Anche questa ipotesi non
regge un minuto. Il capo attuale dei servizi segreti francesi ha spiegato su
"Le monde" che al Qaeda sopravvive alla guerra in Afghanistan , e vi
ha reagito decentrando i suoi uomini in una rete diffusa in molti paesi, anche
in Occidente, ma soprattutto là dove esistono forze fondamentaliste - da
alimentare per farsi proteggere ora e per reagire più tardi. Tra i paesi
infiltrati da lui citati manca proprio l'Iraq: non a caso, ma per il carattere
repressivo e monocratico di quel regime, per la sua matrice laica, per la sua
frammentazione religiosa.
Ma ammettiamo pure che tutto ciò non basti a tranquillizzare l'Occidente dopo
il trauma dell'11 settembre. C'è una soluzione molto semplice: l'invio di nuovi
ispettori dell'Onu, con piena libertà di verifica, offrendo in partenza
garanzie precise sulla loro oggettività e autonomia di giudizio, e offrendo in
cambio, in prospettiva, la fine di sanzioni a quel punto senza ragione. Ma
questa soluzione implica l'iniziativa si un soggetto terzo, in questo caso
l'Onu, e una soluzione politica e diplomatica negoziata. L'esatto contrario di
ciò che è stato già deciso dall'Onu per medicinali e viveri - e sono state
mantenute in piedi proprio per iniziativa di coloro che chiedono oggi il rispetto
delle decisioni dell'Onu. Una soluzione politica dunque c'è, come e anzi molto
di più facile che a Rambouiller, ma non la si vuole neppure tentare.
Ecco perché tutti coloro che oggi chiedono "maggiori prove prima di
passare alla guerra" - o quelli che chiedono soluzioni politiche e intanto
accettano la tesi della "minaccia incombente" imbrogliano se stessi e
l'opinione pubblica, aprono alla guerra il primo varco essenziale. Il primo
atto del dramma sta così per concludersi.
Atto secondo: l'ultimatum. Non si deve e non si può fare una guerra
"unilaterale". cioè non concordata tra gli alleati nella lotta al
terrorismo, senza un mandato, una legittimazione dell'Onu, dicono i più
risoluti; "nel quadro dell'Onu", dicono quelli che già si impegnano a
sostenere comunque le scelte finali americane. Ma cosa si chiede all'Onu e cosa
si sta tentando di imporre all'Onu? Un vero ultimatum: immediato rientro degli
ispettori, senza condizioni si aggiunge, e senza trattative; se l'ultimatum
sarà respinto la parola passerà alla forza.
Già in sé è una richiesta insensata. Insensata perché è troppo e troppo poco.
Troppo, perché l'Onu non può emettere un vero ultimatum, dato che la sua carta
costitutiva esplicitamente esclude la legittimità di un conflitto armato se non
come risposta difensiva ad un attacco già iniziato (e infatti un mandato in
questo senso fu possibile solo - in modo peraltro tormentato - di fronte a due
invasioni già in atto oltre i confini di Stati riconosciuti: la Corea e il
Kuwait. L'Onu può solo formulare risoluzioni impegnative, come quelle reiterate
più volte contro l'occupazione israeliana dei territori palestinesi, il cui
rispetto gli americani stessi attivamente hanno sabotato. Oppure l'Onu può
fornire altrettanto impegnativi accordi multilaterali, come quello sulla non
proliferazione delle armi nucleari, che gli americani trasgredirono o permisero
di trasgredire ai loro fedele (Israele, Pakistan, ecc).
Troppo poco, perché un ultimatum non definirebbe né chi, né come, né fino a
quale sbocco dovrebbe essere gestita una 'guerra preventiva' - anzi, nel caso
attuale già si accompagna ad una concentrazione di massicce armate americane e
inglesi sul teatro del conflitto, come elemento di pressione -, e finirebbe con
il lasciare alla decisione unilaterale delle forze in campo tutte le decisioni
successive.
Chi chiede dunque un ultimatum, e chiede "di agire nel quadro
dell'Onu", mente, o meglio predispone una "legittimazione"
fasulla e a posteriori che sovverte dalle radici l'ordine internazionale.
Chiede un atto illegittimo, un mandato in bianco, anche se si riuscisse ad
evitare un veto nel consiglio di sicurezza, tanto più se si dovesse passarci
sopra. Questo "secondo atto" del copione - nel momento in cui
scriviamo, cioè dopo il discorso di Bush sostenuto da Blair e tra altri da
Berlusconi - sta già andando in scena.
Terzo atto: Proclamato un ultimatum, si aprirà la strada alle sue
diverse interpretazioni, e ai diversi giudizi sul se e sul quanto esso sia
stato, o si avvii a essere effettivamente rispettato (è già avvenuto in passato
sulla questione degli ispettori e delle sanzioni). Così diventa facile, quasi
scontato, che incidenti, sommosse interne vere o presunte, o provocazioni bene
o male preparate, consentano a chi già lo vuole di passare subito e da solo a
vie di fatto, andando presto e automaticamente oltre la questione del
"disarmo" da imporre, arrivando subito a una guerra totale che - per
rovesciare un regime (il vero obbiettivo) - massacri un paese e diventi poi
arbitro del suo futuro assetto, fino a un protettorato permanente. È già
avvenuto nel caso del Kosovo (dal fallimento programmato della trattativa,
all'intervento "umanitario" per fermare la pulizia etnica, allo
smantellamento generale della Serbia, alla fine imposta dalla federazione
jugoslava, all'impianto permanente delle basi americane). Più sinistramente,
l'intero copione riproduce esattamente le antiche vicende
dell'Anschluss, della cancellazione della Cecoslovacchia, del corridoio di
Danzica.
C'è un ragionamento
ancora più importante da fare, anch'esso fondato non su supposizioni, ma su
fatti incontrovertibili e conosciuti da tutti. Riguarda il nesso tra l'intervento
in Iraq e la dottrina, la strategia generale che lo giustificano e lo
chiariscono. Anche qui il dubbio non è lecito.
Ancor prima dell'11 settembre, tanto più esplicitamente dopo, Bush - e
particolarmente il suo vicepresidente, il suo ministro della difesa e il suo
consigliere per la sicurezza - hanno annunciato una svolta generale nella
politica estera americana. Il loro discorso è brutale ed ha il merito della
chiarezza. Vale dunque la pena di riprenderlo. Si scrive, si dice, si ripete:
dopo la fine della guerra fredda il mondo è rimasto senza un governo, ma non
per questo senza conflitti, esso è e sarà percorso da antagonismi economici,
sociali, geopolitici che nel lungo periodo, ma solo nel lungo periodo, lo
sviluppo delle risorse economiche assicurato dal mercato e la generalizzazione
delle democrazie rappresentative possono e debbono gradualmente e fino a un
certo punto comporre. Ma nel frattempo questo processo non può avvenire senza
ordine e stabilità politica, anzi, in mancanza di un potere forte e dotato di
mezzi coercitivi adeguati, si moltiplicheranno aree di crisi, episodi di
sovversione, prolifereranno di fondamentalismi etnici e religiosi, di cui il
terrorismo è la espressione fatale e la conseguenza.
L'idea di neutralizzare il terrorismo o di comporre le crisi regionali,
rimuovendone le cause lontane e profonde, è pertanto un'illusione totale. Al
contrario, estirpare il terrorismo con la repressione senza limiti, e
rovesciare gli stati che direttamente o anche indirettamente contribuiscono al
disordine, resistono al mercato e non si adeguano ai valori e alle regole del
modello politico e culturale oggi di valore universale è la condizione
preliminare per assicurare la soluzione dei problemi reali del mondo e
garantirgli un futuro migliore.
Gli Stati Uniti rappresentano la migliore approssimazione di questo modello da
esportare, e solo essi hanno i mezzi necessari per garantire l'ordine. A
condizione di mantenere una supremazia militare permanente e soverchiante, di
esibirla sul campo come deterrente assoluto, di non poterla usare senza
vincoli. Parole come "guerra di lunga durata", "paesi
canaglia", "missione americana", hanno un senso in questo
ragionamento.
E non è solo una dottrina annunciata. Già si è tradotta in un chiaro progetto
di ristrutturazione della spesa militare, con un nuovo gigantesco finanziamento
programmato, con l'innovazione dei sistemi d'arma, dei modelli organizzativi,
nella dislocazione delle forze. Gli Stati Uniti devono essere non solo i più
forti, ma capaci di intervenire subito e ovunque, di fare guerre senza dover
subire vittime o perdite, e di poterlo fare a loro criterio - "legibus
soluti" (in parte anche all'interno del loro campo e del loro paese). E
già si è manifestata con atti concreti in altri campi: il rifiuto di una corte
internazionale che possa imputare loro crimini di guerra, il rifiuto di vincoli
anche molto limitati a proposito dell'ambiente, le svolte
"preventive" quali il sostegno alla violenza e all'intransigenza di
Sharon, i primi segni di svolta in Venezuela, Colombia, in tutta l'America
Latina e l'Asia centrale.
A questo punto resistere
all'intervento armato in Iraq e contemporaneamente ribadire la convergenza
strategica con la politica americana, anche nella sua attuale versione, come fa
ancora tanta sinistra di casa nostra, è un puro segno di cecità e di
opportunismo, e finisce con il togliere all'opposizione la sua arma più importante
ed efficace verso Bush, cioè il rischio di una crisi nei suoi rapporti con
l'Europa.
Non voglio dire con questo che anche incrinature, riserve parziali, nel fronte
moderato, siano prive di significato. O che il corso delle cose sia già
definito in partenza, immodificabile, e il disegno attuale degli Stati Uniti
non incontri difficoltà e sia destinato al successo.
C'è, per l'immediato, un'opinione pubblica in Europa, e anche negli Stati
Uniti, ben più perplessa e incerta che mai prima d'ora: sull'utilità della
guerra e sul valore universale del modello americano. C'è nel mondo arabo una
difficoltà ad allinearsi ben più grande che rispetto alla guerra del golfo e
quella in Afghanistan. La Cina e la Russia non possono non avvertire che la
dottrina Bush nel lungo termine le riguarda direttamente. La critica e
l'autocritica dell'americanismo entusiasta e dell'occidentalismo acritico, nel
mondo intellettuale, dopo un picco emotivo, è in netta ripresa: basta leggere
la stampa internazionale o vedere i film sull'11 settembre dopo un anno.
Voglio solo dire che siamo a un confine oltre il quale la prudenza o la
reticenza ora si separano del realismo, perdono efficacia, compromettono il
futuro. Con questo intervento si tornerebbe indietro di secoli, quanto alla
percezione della guerra nel senso comune, ma ormai in un epoca nella quale i
mezzi avveniristici di sterminio assumono una portata inimmaginabile. E al
tempo stesso si varca un confine oltre il quale la lotta contro la guerra
ridiventa non solo affare di minoranze o questione morale, ma torna a
presentarsi come l'incrocio tra tutte le altre, connette problemi di libertà,
di legalità, di giustizia sociale, di sopravvivenza del genere umano. Perciò
essa può raccogliere il consenso di una maggioranza, unire movimenti e culture
diverse, Nord e Sud del mondo, offrire finalmente un nuovo punto di partenza
per ricostruire su nuove basi una sinistra oggi smarrita e divisa, per tessere
nuove alleanze senza perdere l'identità culturale e programmatica. Una prima discriminante
insomma per ristabilire una differenza reale e non nominalistica tra destra e
sinistra. Anche questo è già accaduto in un passato non troppo lontano, quando
tutto sembrava ormai compromesso.
Non credo che questa speranza, per quanto ancora esile, sia priva di
fondamento.
Prendiamo come esempio la vicenda che meglio conosciamo, sulla quale possiamo
incidere. In Italia e in Europa una nuova destra ha assunto, in pochi anni, il
governo di molti e grandi paesi del continente. Lo avevamo previsto e ne
abbiamo parlato a lungo. Perché non si è trattato solo di un'oscillazione
elettorale, ma dell'approdo di una conquistata egemonia e della costruzione di
un blocco di forze sociali, che ha unito masse disorientate e deluse con poteri
interni e internazionali dotati di imponenti strumenti. E da tutto ciò le forze
di sinistra sono state infiltrate o conniventi, uscendone con le ossa rotte.
Ma in breve volgere di tempo, per una classe dirigente ancora più incapace di
quanto la si immaginasse, e per una crisi economica che la stringe rendendola
molto più avventurosa, aggressiva ma anche più vulnerabile, la situazione per
la destra vittoriosa è cambiata non poco.
Mi azzardo a dire che si tratta di qualcosa di più di un disagio. Il governo
non appare solo screditato, e non importano molto le sue incertezze e interne
divisioni. Esso ormai fatica a tenere insieme il suo blocco sociale, populismo
e liberismo. Cominciano quindi ad emergere gli elementi e le premesse di una
competizione vera tra due schieramenti politici e sociali.
È nato un movimento di massa che ha un orizzonte e connessioni mondiali e, sia
pure confusamente è riuscito a riportare in primo piano nel sentimento delle
masse, nelle élites intellettuali. negli stessi partiti, i grandi e drammatici
problemi della società postindustriale: disuguaglianze, esclusione, precarietà
del lavoro, degrado ambientale, degenerazione delle istituzioni. La crisi
economica, quale che ne sia l'evoluzione prossima futura, ha riaperto in tutti
un dubbio se non sul capitalismo in generale almeno sull'attuale assetto
capitalistico: neoliberista e neoimperiale.
A questo movimento più radicale, se ne sono poi affiancati - soprattutto in
Italia ma non solo - altri: una ripresa imponente delle lotte dei lavoratori in
difesa dei loro diritti, delle loro condizioni materiali, dello stato sociale;
e una inattesa mobilitazione di moderni medi ceti, anche moderati, ma ormai
animatissimi da un rifiuto intransigente del berlusconismo e dall'esigenza di
restaurare legalità e democrazia. Un'opposizione che cresce, e si fa vedere.
Ho sentito molto dire che - secondo costituzione - non è con la piazza che si
cambiano legalmente i governi. Altri rispondere che i movimenti non sono solo
un diritto ma un utile stimolo. Cose ovvie ma in cui sfugge l'essenziale. da
sempre il movimento operaio e la sinistra hanno creato con lotte permanenti le
basi della democrazia, legato ampie masse a solide appartenenze ideali e
politiche, spostato o orientato l'opinione incerta e passiva. Oggi tutto ciò è
più vero che mai: perché solo una democrazia partecipata, radicata in lotte,
esperienze e discussioni collettive, può costruire nuove maggioranze contro un
sistema informativo completo, compatto e monocratico, in una società
atomizzata, con i poteri di fatto sottratti largamente alla sovranità popolare.
E infatti è questo risveglio di partecipazione che sta spostando l'opinione,
evoca una nuova leadership (la meritata popolarità del nuovo Cofferati),
condiziona un ceto politico quasi agonizzante e penetra in forze politiche
incapaci di autoriforma.
Ma tutto ciò è ancora lontano dal garantire una vittoria elettorale e
soprattutto una alternativa, di esprimere cioè un progetto riformatore
complessivo e ambizioso e assicurargli un consenso duraturo, di fronteggiare il
quadro mondiale. I movimenti sono comunicanti ma non convergenti, il loro
radicamento diffuso, la loro capacità di azione quotidiana restano limitati,
gruppi dirigenti e culture approssimativi. Nella sinistra politica moderata si
offre un leader carismatico, determinato nella lotta difensiva, ma incerto o
prudente nel definire una prospettiva: e il dibattito, la riflessione,
l'iniziativa non riescono ad andare oltre i confini di un restauro dell'ulivo
del '96. La sinistra alternativa, che pure ha spesso visto e previsto giusto,
resta minoritaria, frammentata, autoreferenziale, comunque non egemone. Parlo
non solo dell'Italia, ma tanto più dell'Europa, dimensione senza la quale non
c'è spazio vitale.
Bene, in questo circolo vizioso tra pericoli che si aggravano e occasioni che
non si riesce pienamente e rapidamente a cogliere, la questione che oggi
irrompe sulla scena - quella della nuova guerra - diventa decisiva. Può
travolgere quello che resta di spazio democratico. O al contrario invertire una
tendenza.
La "grande alleanza" del tutto subalterna agli Stati Uniti e al loro
progetto, e di cui l'Europa è un pilastro, si è ora incrinata: la Francia,
alcuni paesi nordici, la stessa comunità europea vi riluttano, la Germania vi
si oppone. L'opinione pubblica è ovunque in maggioranza diffidente. In
Inghilterra il sindacato e una forte minoranza laburista contrastano le scelte
di Blair. La Cgil in Italia e molte organizzazione cattoliche hanno preso una
posizione netta di rifiuto, le manifestazioni di piazza convergono: al
precipitare delle cose, l'Ulivo può esserne letteralmente sconvolto.
Un grande, tragico appuntamento dunque, come in passato, sul quale si
ridefiniscono identità, collocazioni, raggruppamenti politici e sociali. Ma
appunto perciò occorre che il pronunciamento di ciascuno sia netto, sia
consapevole delle sue ragioni profonde e delle sue implicazioni future. E sia
pronunciato subito, per influire sul corso delle cose prima che la moderna
macchina mediatica e l'antico ricatto patriottardo riconducano la maggioranza
nella palude.
A me paiono buone ragioni per assumere questa come discriminante prioritaria
tra chi sta da una parte o dall'altra, alla quale quindi subordinate oggi e per
il prossimo futuro ogni alleanza elettorale, ogni programma di governo, ogni
appartenenza organizzativa.
I bulli romani della tradizione dicevano; "prima meno, poi discuto".
Da buoni pacifisti diciamo più mitemente: prima contrastare questa guerra
annunciata, fato in tempo tutto ciò che potete per evitarla e poi discuteremmo.
(Tratto dalla rivista del Manifesto - Ottobre 2002)