IL MONDO DI FLANNERY
O'CONNOR
Flannery
O'Connor era affetta da un lupus devastante. Nata nel 1925 a Savannah in
Georgia, la uccise nel 1964 un tumore, cui il suo corpo non riuscì a reagire in
nessun modo, debilitato com'era per le cure che il lupus per anni aveva
richiesto. Visse in una fattoria presso Milledgeville. Allevava pavoni:
quell'allevamento riempì la parte di vita attiva che le era possibile svolgere.
Era cattolica e fortemente credente. Ebbe per destino narrare storie di quel
sud che conosceva per natura nell'intimo del cuore. Wise Blood (La saggezza del sangue), pubblicato nel 1952, fu il
romanzo che le diede successo e notorietà: contemporaneamente, la sua esistenza
si trasformava in un definitivo calvario. Le forti dosi di cortisone di cui
necessitava per combattere e frenare il suo male le corrosero il fisico. L'uso
delle stampelle fu il primo passo verso più crudi impedimenti.
Ma
la vita di Flannery O'Connor non si svolse in una tetra attesa della morte.
Aveva ragione Manzoni: è una forza della fede cristiana quella non solo di
resistere al male del corpo, ma di sconfiggere il male morale che ne deriva con
una certezza di rinascita. Che poi è la molla della vita: e i modi a rinascere
possono essere molteplici, ma nel momento in cui li si crede tali non c'è
dinamica ostile che li sventi.
Cominciamo
dai pavoni. Perché Flannery O'Connor allevò pavoni? Non seppe rispondere lei
stessa: «Non lo so», ha scritto. Allevava polli fin da bambina. Aveva cinque
anni e un suo pollo, «un Bantam marroncino della Cocincina, aveva la
particolarità di riuscire a camminare sia in avanti sia all'indietro». Andò a
filmarlo un fotografo della Pathé News. Il povero pollo «poco dopo morì, non
c'è da stupirsene».
Flannery
O'Connor era dotata di una forte vis comica. Ma davanti ai pavoni confessò di
non poter far altro che tenersi «in una reverente soggezione». In una lettera a
un'amica, l'anonima A. dell'epistolario, il 25 novembre del '55 scriveva: «Dove
c'è un pavone c'è anche una mappa dell'universo».
E
passiamo alle lettere. I romanzi della O'Connor con Wise Blood (spero che ricordiate il bel film che ne ricavò John
Huston) sono due. Il resto della sua opera sono racconti, sempre magnifici
(Attilio Bertolucci raccomandava di leggerli e rileggerli: sono anche tradotti
tutti in italiano). Poi ci restano di lei alcune conferenze, alcuni saggi,
anch'essi ben tradotti in italiano da Ottavio Fatica, Nel territorio del
diavolo. Oggi, sempre Fatica ha curato per Einaudi un'antologia dalle lettere (Sola a presidiare la fortezza, pagg.
XX170, lire 18.000), ricavandola da una scelta assai più ampia compiuta in
archivio da Sally Fitzgerald, moglie del critico Robert, amicissimi entrambi di
Flannery, The Habit of Being, e stampata
nel 1979 per Farrar Straus & Giroux.
Le
lettere di Flannery O'Connor sono fra i più singolari, stupefacenti testi della
letteratura americana del secolo.
Quando
la Fitzgerald le ebbe fra le mani lei, che era stata sua corrispondente scrisse
a Robert Giroux, l'editore, che quanto la colpiva e la sorprendeva sfogliando
quelle carte era il modo diretto, incisivo con il quale «la vita irrefrenabile»
di Flannery vi si disegnava: vi si disegnava con vivezza il suo scandagliare
dentro l'animo degli altri, così come scandagliava il proprio, il suo male, il
suo destino, il suo difficile stare al mondo, spietatamente ma non
impietosamente.
Non c'era verso che Flannery si staccasse dal suo chiodo: cercava ovunque la
mappa dell'universo, come nelle pasticche di colore che si dissolvono lungo il
piumaggio della coda di un pavone maschio.
Il fortissimo realismo nella narrativa della O'Connor affonda le radici proprio
in quel sud che ha avuto in Faulkner il suo Eschilo. In lei la tragedia si
scambia di continuo in comicità.
Sempre
alla sua carissima A. il 24 settembre del '55 scriveva a proposito di Simone
Weil: «La sua vita è una miscela quasi perfetta di Comico e Terribile, che poi
se vogliamo sono due facce della stessa medaglia. In base alla mia esperienza,
ogni cosa divertente che ho scritto è più terribile che divertente, o
divertente solo perché terribile, o terribile solo perché divertente. Ebbene,
la vita di Simone Weil è la più comica che abbia mai letto nonché la più
genuinamente tragica e terribile. Se vivrò abbastanza da sviluppare appieno le
mie doti di artista, mi piacerebbe scrivere un romanzo comico su una donna; e
cosa c'è di più comico e terribile di un'intellettuale fiera e spigolosa che si
accosta a Dio un passettino alla volta coi denti digrignanti? Devo andarmene
sulle mie due gambe di alluminio».
La
citazione è lunga, lo so: ma in essa c'è un lampante autoritratto, messo a nudo
alla conclusione, nella rabbia, nel sorriso e nello sprezzo verso quelle «due
gambe d'alluminio».
Se
Faulkner, con i suoi romanzi, è stato l'Eschilo (e anche un po' il Sofocle) del
sud degli States, la O'Connor ne è stata l'Euripide. Crede nelle leggende e
nella vita drammatica che in quelle terre viene vissuta: ma ci crede sul filo
di uno spirito caustico, eversivo che tutto sgranerebbe, se poi non vi fosse,
un precipizio dentro il cuore, la presenza di Dio (il deus ex machina) che
salva ogni cosa e non la salva beatificamente, consolatoriamente, ma la salva
come in una tragedia la si può salvare, attraverso il delitto e la morte.
A John Hawkes il 13 settembre del '59 scrive: «Il mio tema è sempre il
conflitto fra l'attrazione per il sacro e una miscredenza nei suoi confronti
che si respira con l'aria dei tempi. Credere è sempre difficile, ma tanto più
lo è al giorno d'oggi».
Il
veggente protagonista di Wise Blood
gira di paese in paese predicando mentre attorno a lui non c'è che male, e lui
stesso è male. Ma quel che conta per la sua autrice è la credibilità, nel
paradosso, della fede che quell'uomo professa. «Il problema non è tanto se una
cosa è positiva o negativa, quanto se è credibile» (ad A., 8 settembre del
'56).
Concludiamo
con la fede di Flannery O'Connor. Sono un po' giansenista, diceva. Credo che
per qualche cattolico italiano la chiarezza di queste sue parole suoni
sorprendente e forse fastidiosa («A vivere oggi si respira nichilismo. Dentro e
fuori la Chiesa è il gas che si respira», ad A. 28 in una lettera dell'agosto
del '55). Sosteneva anche d'essere «una cattolica singolarmente dotata di
coscienza moderna, della specie che Jung definisce astorica, solitaria e
colpevole». Aggiungeva che questo era il fardello che le era toccato portare, a
lei e a ogni cattolico consapevole d'esserlo: «Sentire la contemporaneità in
misura estrema». E ancora: «Questa è una generazione di polli senza ali, e
credo che Nietzsche alludesse alla stessa cosa dicendo che Dio è morto» (sempre
ad A. in una lettera del 20 luglio del '55).
Tutto ciò come poteva incidere sull'arte, sulla letteratura? Flannery O'Connor
scrive a Eileen Hall, 10 marzo del '56: «L'arte non è cosa da verificare
"fra" la gente, e comunque non l'arte del romanzo. E' cosa che si
vive da soli e allo scopo di cogliere in modo nuovo, attraverso i sensi, il
mistero dell'esistenza. Il mistero dell'esistenza è in gran parte il peccato».
La
scienza del peccato Flannery O'Connor sosteneva le fosse nota fino al minimo
dettaglio. Per questo Euripide subì la stessa sorte poté raccontare e
rappresentare l'esplosione «comica e terribile» delle molteplici volontà a
conflitto nell'animo di uno stesso individuo.
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(Tratto
da La Repubblica, 25 Maggio 2001 )