Ormai
sappiamo che c´è un´altra data importante quanto l´11 settembre: il 14
settembre. Quel giorno, infatti, mentre da un capo all´altro dell´Occidente si
osservavano tre minuti di silenzio per onorare la memoria delle vittime degli
attentati negli Stati Uniti, nel resto del mondo prevalevano invece una stupita
ammirazione per l´exploit e la soddisfazione per la lezione inferta alla
superpotenza americana. La concomitanza delle due date autorizza a chiedersi
che cosa sia una civiltà e se esista, come presuppone teoricamente l´Onu, una
vera comunità internazionale.
Si sono riscoperte le teorie di Samuel Huntington, citate dappertutto, sullo
scontro delle civiltà, sul carattere ineluttabile delle loro differenze e del
loro affrontarsi. Di fatto, però, i primi ad aver formulato le domande
fondamentali sono stati Oswald Spengler e Arnold J. Toynbee, due storici, uno
tedesco e l´altro britannico, che si sono prodigati nella ricerca di una
spiegazione dell´avventura degli uomini. Bisogna fare una cronaca degli eventi
che si sono succeduti senza trovarvi necessariamente un legame? Si può far
derivare dallo studio della storia una visione fondamentale sul destino comune
dell´umanità? Per Spengler, le civiltà sono esseri viventi che nascono,
invecchiano e muoiono in assoluta indipendenza le une dalle altre. Il progresso
e il declino si producono esclusivamente all´interno di una società. Fu questa
visione a ispirare a Paul Valéry il famoso pensiero: "Noi civiltà ormai lo
sappiamo, di essere mortali".
In compenso, Arnold J. Toynbee sostiene la tesi che le civiltà abbiano tra loro
legami costanti e numerosi e che la loro evoluzione sia promossa da individui o
piccoli gruppi che chiama "minoranze creatrici". Il progresso dipende
dalla capacità di queste minoranze di trascinare le masse attraverso uno
spirito di emulazione che egli chiama mimesis. Quando le élite perdono il loro
potere creativo e la minoranza dominatrice cessa di rappresentare un modello
per l´insieme della popolazione, allora s´innesca un processo di
decomposizione.
La questione comune ai tre pensatori tanto spesso evocati negli attuali
dibattiti di questo inizio di terzo millennio consiste, in sostanza e come
sempre, nel sapere se la storia ha un senso o se non è che "un racconto
pieno di rumore e di furore narrato da un idiota e che non significa
niente" (Shakespeare e Faulkner). Ma l´altra questione consiste nel sapere
se ogni civiltà abbia il proprio significato o se possano esserci valori universali
verso i quali debbano – e possano – tendere tutti i popoli dell´umanità.
Nell´epoca eroica della decolonizzazione, ho avuto occasione di andare con il
professor Jacques Berque, il grande arabista, dal presidente tunisino Habib
Bourguiba. Era il loro primo incontro, e io ne ero stato l´artefice, benché il
professore non avesse nessun bisogno di me per essere presentato al presidente.
Al termine delle tradizionali formule di cortesia orientali, Jacques Berque
decise di continuare la conversazione in arabo. Habib Bourguiba, invece, decise
altrimenti. Forse non trovava l´arabo del professore abbastanza limpido, o
forse voleva dare un significato "modernista" all´uso del francese.
Con parole piene di erudizione al tempo stesso poetica ed enfatica, Jacques
Berque cominciò a evocare la civiltà araba all´interno della singolarità
maghrebina. Dopo tutto, chi l´aveva descritta meglio di Ibn Khaldoun, quel
tunisino del XIV secolo al quale si deve nientemeno che la fondazione della
sociologia moderna? Ma Berque si mise a parlare dell´importanza delle
tradizioni arabo-islamiche e al culto che tanti francesi come lui gli avevano
dedicato nel pieno della tragedia coloniale. Bourguiba interruppe il suo
interlocutore per dirgli che gli premeva assai di più concentrare le sue attenzioni
sull´avvenire della Tunisia che sul prestigio del suo passato arabo. Quello che
lui, Bourguiba, si aspettava dalla Francia era un contributo per un migliore
accesso alla modernità, piuttosto che il ricordo di tradizioni di cui egli
stesso conosceva meglio di chiunque altro la ricchezza, ma anche la dimensione
regressiva. Bourguiba temeva che il sogno della grandezza passata potesse
portare a guerre e divisioni, privando i popoli del gusto del progresso e del
desiderio di acquisire nuove conoscenze. "Lei, signor Berque, ha il merito
di approfondire meglio il passato. Io, Bourguiba, ho il dovere di far uscire il
mio popolo dalle pigrizie della tradizione e dall´oscurantismo della
religione."
Si può dire che la filosofia implicita di Berque lo portasse a esaltare le
differenze culturali, mentre quella di Bourguiba si basava sulla fiducia in un
progresso unico e lineare, in nome di valori comuni. L´arabismo e l´Islam non
dovevano a nessun costo, agli occhi di Bourguiba, impedire alle nazioni un
tempo colonizzate di entrare in competizione con le civiltà degli ex
colonizzatori non solo sul piano della tecnologia ma anche su quello della
morale.
Pensavo a quella conversazione mentre leggevo gli atti di un convegno
dell´Unesco sul tema "Dove vanno i valori?" Si trattava ancora e
sempre dello scontro delle civiltà e dell´impatto tra le culture. Ma questa
volta si assisteva a un festival di autocritiche masochiste da parte di
intellettuali europei sulla scomparsa o sull´inesistenza di valori universali,
dove ciascuno si profondeva in una descrizione disincantata del nulla o
incitava a rivolgere lo sguardo verso quell´Oriente dal quale potevano ancora
una volta arrivarci Lumi.
Citando Mohammed Arkoun, il sociologo Michel Maffesoli ha decretato che
"l´universalismo (era) un´eccezione occidentale, poiché valori elaborati
in un angolino del pianeta (erano) stati esportati ed estrapolati in tutto il
mondo".
Quanto a Jean Baudrillard, felice di potersi di nuovo avventare sul tema del
crepuscolo dei valori, dell´invecchiamento culturale dell´Occidente e
dell´esaurimento di una civiltà del declino, ha considerato che i valori
universali erano "evidentemente" in via di sparizione.
Proprio in quel momento nella tribuna dell´Unesco c´è stato un colpo di scena:
gli "orientali" hanno cominciato a difendere il retaggio
universalista, l´umanesimo della ragione occidentale, e a denunciare la
sofisticata indulgenza con cui si procedeva ad analisi affascinate del terrore
religioso. La saggista tunisina Hélé Béji ha ricordato con foga e talento che
l´integralismo musulmano aveva già causato 150.000 morti in Algeria e che non
si trattava propriamente di un segnale che annunciava il subentrare di una
civiltà a un´altra in una prospettiva spengleriana. Andandando dritta al
nocciolo, ha espresso il dubbio che una certa forma di anticolonialismo – il
rispetto devoto della differenza – stia diventanto "fascista quanto il
colonialismo".
Ma è ancora più importante che gli "orientali" abbiano dichiarato
che, se l´autocritica occidentale avesse dovuto impedire ai popoli africani e
arabo-musulmani di procedere a una modernizzazione della loro cultura, allora
l´Occidente sarebbe stato doppiamente colpevole. La seconda volta per averli
dissuasi dal decolonizzarsi con un rigetto del loro conservatorismo.
Tutti questi dibattiti non sono affatto astratti, anzi sono un contrappunto
indispensabile per compensare gli umori intellettuali che portano tanti begli
spiriti a seguire, per stanchezza estetica e disincanto spirituale, apologi
della morte come Jean Baudrillard, che evoca "la superiorità assoluta del
terrorismo nel suo rapporto con la morte".
La verità è che alcuni si credono autorizzati a osservare differenze di civiltà
laddove non ci sono che divergenze nel guardare agli Stati Uniti dopo che
questi ultimi si sono arrogati la missione esclusiva di salvare il mondo e
condurre le guerre. Le opinioni pubbliche musulmane, per esempio, e comunque
spesso almeno le loro élite, che contestano la politica estera degli Stati
Uniti e vedono una lezione positiva negli eccessi di uno come Bin Laden nel
radicalismo religioso. E anche ciò che impedisce di giudicare allo stesso modo
i terroristi denunciati dall´India in Kashmir e i terroristi denunciati da
Israele nei territori palestinesi non deriva da una differenza delle civiltà.
In altre parole, a dispetto di Spengler, che condannava l´Occidente a un
declino; di Darwin, che pensava fosse morale che una selezione naturale facesse
scomparire i deboli e i vinti; di Nietzsche, che pensava che la compassione non
fosse altro che l´alibi dei mediocri; e oggi di Huntington, che teme che le
civiltà siano condannate a scontrarsi, ci sono centinaia di milioni di persone
in tutto il mondo che sembrano pensare che gli uomini facciano sforzi disperati
ma ininterrotti per vivere insieme. E non sono lontani dal pensare che nel
Codice di Hammurabi, nei "Dialoghi" di Socrate, nel Decalogo e nel
Sermone sulla Montagna ci siano una serie di consigli, di precetti e di
principi che alimentano quanto meno una speranza.
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(La
Repubblica, 9 Febbraio 2002, traduzione di Elda Volterrani)