NAZIM HIKMET

 

L’ALBERO DAGLI OCCHI BLU

 

 

 

SE FOSSI PAROLA…

 

Cent’anni  fa nasceva Nazim Hikemt. Turco e comunista, sarà riconosciuto come uno dei più grandi poeti del XX secolo. Con la sua opera, che riesce ad esprimere l’universalità dell’amore e l’evidenza della bellezza, Nazim è uno di quei rari personaggi che hanno cercato di conciliare il più possibile il verbo e l’azione.

 

di JOHN BERGER

 

 

 

VENERDI’

 

Nazim,  ho perduto un amico e desidero dividere questo lutto con te che hai diviso con  noi tante speranze e tanti lutti.

Il telegramma è arrivato di notte,

soltanto tre sillabe:

“E’ morto (1).”

Ho perduto il mio amico Juan Munoz, quel meraviglioso artista morto ieri, su una spiaggia spagnola, a quarantotto anni.

C’è un punto che mi preoccupa e sul quale vorrei conoscere la tua opinione. Quando qualcuno muore di morte naturale, a differenza di una morte provocata dalla persecuzione, dall’assassinio e dalla fame, per prima cosa si prova un senso di shock, tranne quando lo scomparso ha sofferto per una lunga malattia; poi si prova un mostruoso sentimento di perdita, soprattutto quando  il morto è ancora giovane.

Spunta l’alba

Ma la mia camera

E’ solo una lunga notte (2).

-         poi viene il dolore, che si dice senza fine. Eppure, con questo dolore, sopraggiunge di soppiatto qualcos’altro, che assomiglia a una facezia senza esserlo (Juan ne faceva di meravigliose), qualcosa che provoca una sorta di allucinazione, un po’ come il gesto che fa con il suo fazzoletto il mago per concludere il suo gioco di prestigio, una sorta di leggerezza in contraddizione totale con ciò che si prova. Capisci che cosa voglio dire? E’ una leggerezza frivola, oppure il segno di un insegnamento nuovo?

 

Cinque minuti dopo averti rivolto questa domanda, ricevo da mio figlio Yves un fax con alcuni versi che aveva appena composto in memoria di Juan:

Comparivi sempre

con uno scoppio di risa

e un nuovo giro.

Scomparivi sempre

lasciando le tue mani

sulla nostra  tavola.

Scomparivi

lasciando le tue carte

nelle nostre mani

Ricomparivi

con un nuovo scoppio di risa

e sarà un’ altra partita.

 

SABATO

 

Non  sono sicuro di aver mai incontrato Nazim Hikmet.

Giurerei di sì, ma non trovo nessun riscontro preciso. Credo sia avvenuto nel Londra, nel 1954. Quattro anni dopo la sua uscita di prigione, nove anni prima della morte. Parlava a un comizio nel Red Lions Square a Londra. Dopo aver pronunciato poche parole, si mise a leggere poesie, alcune in inglese, altre in turco. Aveva una voce calma, possente, fortemente personale e molto musicale. Ma non sembrava scaturire dalla sua gola – almeno non in quel momento. Sembrava che avesse in petto una trasmittente che poteva accendere o spegnere con una delle sue grandi mani, leggermente tremolanti.

La mia descrizione lascia molto a desiderare, perché non rende l’evidenza della sua presenza e della sua sincerità. In una delle sue lunghe poesie presenta sei persone che in Turchia, all’inizio degli anni ‘40 ascoltavano alla radio una sinfonia di Shostakovich. Tre di quelle sei persone sono (come lui) in carcere. La trasmissione è in diretta; in quello stesso momento suonavano la sinfonia a Mosca, a migliaia e migliaia di chilometri di distanza.

Ascoltandolo leggere le sue poesie nel Red Lion Square, ho avuto  anche l’impressione che le parole che pronunciava venissero dall’altro capo del mondo. Non perché fossero di difficile comprensione (non lo erano); non perché fossero stanche o confuse (tutt’altro, erano piene d’energia che consente di resistere),ma piuttosto perché erano declamate come per trionfare sulla distanza e per trascendere infinite separazioni. Il qui di tutte le sue poesie è altrove.

 

A Praga passa una vettura

Una carretta attaccata a un solo cavallo,

davanti al vecchio cimitero ebraico.

La carretta è carica

Della nostalgia di un’altra città,

il carrettiere sono io (3).

 

Anche quando aspettava, seduto sul palco, prima di alzarsi per prendere la parola, si intuiva che era un uomo straordinariamente alto e solido. Non per nulla il suo soprannome era “l’albero dagli occhi blu”. Quando si alzava in piedi si aveva anche l’impressione che fosse molto leggero, così leggero da rischiare di volar via. Forse non l’ho mai visto, perché sembrerebbe improbabile che, in un comizio organizzato a Londra dal  movimento internazionale per la pace, sia stato legato al palco da corde come un dirigibile a cui si vuole impedire di decollare. E tuttavia, di una cosa ho un ricordo molto preciso: non appena le aveva pronunziate, le sue parole si alzava al cielo – era un comizio all’aperto – il suo corpo sembrava voler seguire le parole che aveva scritto e che salivano sempre più  in alto, al di sopra della piazza, al di sopra delle scintille dei vecchi tram di Theobald Street, eliminati tre i quattro anni prima.

 

Sei un villaggio di montagna in Anatolia,

sei la mia città,

tu, la più bella e la più infelice.

Sei un grido d’aiuto, sei il mio paese;

i piedi che corrono da te sono i miei (4).

 

LUNEDI’ MATTINA

 

I poeti contemporanei che hanno contato di più per me nell’arco della  mia lunga vita, li ho letti quasi tutti in traduzione, raramente nella loro lingua originale. Credo che nessuno avrebbe potuto dire qualcosa di simile prima dell’inizio del XX secolo. Per secoli  e secoli è stato un grande fragore di lance, pro o contro la possibilità di tradurre la poesia – si trattava di discussioni “da  camera”,  così come si parla di musica  da camera. Ma il Novecento ha ridotto in cenere quasi tutte questa camere. I nuovi mezzi di comunicazione, la politica globale, gli imperialismi, i mercati mondiali hanno gettato insieme su una scala senza precedenti e separato a casaccio milioni e milioni di persone. Come conseguenza, le speranze della poesia sono mutate; sempre più la poesia migliore conta su lettori sempre più lontani.

 

Le nostre poesie

come pietre miliari

devono tracciare la via (5).

 

Durante il XX secolo, sono stati numerosi i versi di semplici poeti che si sono tesi tra continenti diversi, fra villaggi  abbandonati e capitali lontane. Lo sapete bene, tutti voi, Hikmet, Brecht, Vallejio, Atilla Jòsef, Adonis, Juan Gelman…

 

 

LUNEDI’ POMERIGGIO

 

E’ stato alla fine della mia adolescenza che ho letto per la prima volta alcune poesie di Nazim Hikmet. Erano pubblicate in una oscura rivista di letteratura internazionale a Londra, pubblicate sotto gli auspici del Partito comunista britannico, di cui ero assiduo lettore. La linea del partito in materia di poesia era una gran cazzata, ma le poesie e le notizie pubblicate erano spesso esaltanti.

All’epoca, il grande uomo di teatro Vsevolod Meyerhold era già giustiziato a Mosca. Se penso a lui in questo momento è perché Hikmet l’ammirava e Meyerhold esercitò su di lui una grande influenza, la prima volta che si recò a Mosca all’inizio degli anni ’20…

 

Devo molto al teatro di Meyerhold. Nel 1925, rientrando in Turchia, ho organizzato il primo teatro operaio in una quartiere di Istanbul: Lavorando in quel teatro come direttore e scrittore, ho capito che era stato Meyerhold il primo ad aver aperto nuove possibilità di lavorare con il pubblico e per il  pubblico”. Dopo il 1937, Meyerhold aveva pagato questa nuove possibilità con la vita, ma a Londra i lettori della rivista non lo sapevano ancora.

Quel che mi ha colpito nelle poesie di Nazim Hikmet la prima volta che le ho scoperte, è il loro spazio; contengono più spazio di tutta la poesia che avevo letto fino ad allora. Non descrivono lo spazio, lo attraversano, valicano le montagne. Parlano anche di azione. Parlano di dubbi, di solitudine, di lutto, di tristezza, ma tutti questi sentimenti seguono l’azione invece di sostituirsi ad essa. Spazio e azione  procedono di pari passo. La loro antitesi è la prigione ed è nelle carceri turche che Hikmet, prigioniero politico, ha scritto metà delle sue opere.

 

MERCOLEDI’

 

Nazim,voglio descriverti il tavolo su cui sto scrivendo. Si tratta di un tavolo da giardino bianco, di metallo, di quelli che si possono trovare nei giardini di un yali sul  Bosforo. Si trova nella veranda coperta di una casetta alla periferia sud-est di Parigi. La casa è stata costruita nel 1938, come tante altre case costruite qui nella stessa epoca per gli artigiani, i commercianti e gli operai qualificati. Nel 1938 tu eri in carcere. Un orologio era appeso a un chiodo al di sopra del tuo letto. Nella cella al di sopra della tua, tre banditi in catene aspettavano la loro condanna a morte.

Su questo tavolo ci sono sempre troppe carte. Ogni mattina, per prima cosa, sorseggiando il caffè, tento di rimetterle in ordine. Alla mia destra, c’è una pianta in un vaso: sono sicuro che ti piacerebbe. Ha delle foglie molto scure. Di sotto ha il colore delle prugne: sopra, la luce ha lasciato una macchia di un bruno cupo. Le foglie sono raggruppate a tre a tre, come se fossero farfalle notturne – sono delle stesse dimensioni – che succhiano il nettare dallo stesso fiore. I fiori di questa pianta sono più minuti, tutti rosa, innocenti come la voce dei bambini delle elementari che imparano una canzone. E’ una specie di trifoglio gigante. Viene dalla Polonia, dove la chiamano Koniczyna. Mi  è stata data dalla madre di un amico, che l’ha fatta crescere in un giardino nei pressi della frontiera con l’Ucraina. Quella donna ha due occhi di un azzurro straordinario  e non può fare a

meno di toccare le sue piante mentre attraversa il giardino  o si sposta attorno alla casa, così come certe nonne non possono smettere di accarezzare la testina dei loro nipotini in tenera età.

 

Mia amata, mio bocciolo di rosa,

 il mio viaggio nella pianura di Polonia

 è iniziato.

Sono un bambino piccolo, pieno di gioia, pieno di stupore.

Un bambino piccolo

Che guarda il suo libro di figure

Scoprendo

Gli uomini, gli animali,

gli oggetti, le piante (6).

 

Quando si racconta una storia, dipende tutto dalla concatenazione degli elementi. L’ordine più vero raramente salta agli occhi. Si scopre per approssimazioni successive, spesso ripetute. Proprio per questo motivo sulla tavola ci sono anche un paio di forbici e un rotolo si scotch. Non  è una di quelle rotelline che permettono di tagliarlo facilmente nelle dimensioni desiderata. Lo taglio con le forbici. Il difficile è trovare l’estremità del rotolo e srotolarlo. La cerco con le unghie, pieno di irritazione, e non appena l’ho trovata l’incollo sul bordo della tavola e lascio che lo scotch si srotoli tutto fino al pavimento, dove lo lascio penzolare.

A volte esco dalla veranda e entro nella stanza attigua, dove chiacchiero, mangio e leggo un giornale. Qualche giorno fa ero seduto in questa stanza quando qualcosa che si muoveva ha attirato il mio sguardo. Una minuscola cascata di acqua scintillante cadeva ondulando verso il pavimento della veranda, vicino al piede della mia sedia vuota davanti al tavolo. I torrenti delle Alpi hanno come origine un rivolo d’acqua come quello.

Un rotolo di scotch cha fa vibrare una corrente d’aria dalla finestra aperta a volte ha forza sufficiente per spostare  montagne.

 

GIOVEDI SERA

 

Dieci anni fa mi trovavo a Istanbul, vicino alla stazione di HaydarPacha, davanti a un edificio in cui la polizia interrogava le persone sospette. All’ultimo piano di quel edificio erano detenuti i prigionieri politici, sottoposti a controinterrogatori che duravano settimane inter. Nel 1938 toccò a Hikmet.

L’edificio non era stato concepito come carcere, ma come imponente fortezza amministrativa. Appare indistruttibile, costruito com’è di mattoni e di silenzio. Le prigioni progettate per essere tali hanno spesso un’aria nervosa. La prigione di Bursa, per esempio, in cui Hikmet rimase dieci anni, era soprannominata “L’aeroplano di pietra” per il suo disegno così irregolare. La fortezza solida, che guardavo vicino alla stazione di Istanbul, aveva invece tutta la fiducia in se stessa e la calma di un monumento al silenzio.

Tutta la gente che è qui, all’interno ,tutto quello che succede qui – questo che annuncia l’edificio con aria tranquilla – sarà dimenticato, cancellato dai registri, sepolto in un crepaccio fra l’Europa e l’Asia.

E’ stato allora che ho colto un qualcosa di unico e inevitabile nella strategia poetica di Nazim Hikmet: deve continuamente superare i limiti della sua ristrettezza! I prigionieri hanno sempre sognato la Grande Fuga, non così la poesia di Nazim. Ancor prima di cominciare, la sua poesia ha posto la prigione come un piccolo punto sulla mappa del mondo.

Il mare più bello

non è stato ancora traversato.

Il bambino più bello

non è ancora cresciuto.

I nostri giorni più belli

non li abbiamo ancora vissuti.

E le parole più belle che volevo dirti

non le ho ancora dette(7).

Ci hanno fatto prigionieri,

ci hanno rinchiuso:

io fra quattro mura,

tu fuori.

Ma non fa nulla.

Il peggio è quando la gente – consapevole o ignara –

Porta la prigione dentro di sé…

Troppa gente è stata costretta a far ciò,

brava gente, onesta, laboriosa,

che meritava di essere amata come io amo te. (8)


La sua poesia, come un compasso, disegnava dei cerchi, a volta intimi, a volte ampi, immensi, con solo la punta affilata infissa nella sua piccola cella.

 

 

VENERDI’ MATTINA

 

Stavo aspettando Juan Munoz all’Hotel Ritz a Madrid, e Juan era in ritardo perché, come ho detto, quando lavorava  di buona lena la notte era come un meccanico sotto a una macchina e perdeva la cognizione del tempo. Dopo l’episodio del Ritz, mi mandò un fax, che ora vi cito: Non so bene perché lo faccio. Forse non è affar mio. Sono soltanto un postino fra due uomini che non ci sono più.

Vorrei presentarmi – sono un meccanico spagnolo (solo di auto, non di motociclette), che passa quasi tutto il suo tempo, disteso sulla schiena sotto al motore per guardarlo! Ma – ed è questo l’importante – mi può capitare di fare  un lavoretto artistico. Non che io sia un artista. No. Ma vorrei smetterla con questa sciocchezza di infilarsi sotto macchine unte di grasso, e diventare il Keith Richard del mondo dell’arte. O, se ciò non è possibile, lavorare come i preti, mezz’ora al giorno, col vino assicurato.

Ti scrivo perché due amici (uno  a Oporto e l’altro a Rotterdam) ci vogliono invitare tutti e due nel seminterrato del Boyman’s Car Museum e in altre cantina (spero più alcoliche ) nella città vecchia di Oporto.

Hanno anche detto qualcosa sul paesaggio che non ho ben capito. Il paesaggio! Forse, parlavano di fare un viaggio e di guardasrsi attorno,o di guardari attorno mentre saremo in viaggio…

Mi scusi, ma è appena arrivato un cliente.perbacco! Una Triumph Spitfire!”

Sento la sua risata, che riecheggia nello studio dove è solo con le sue figure silenziose.

 

 

VENERDI’ SERA

 

A volte ho l’impressione che molte delle più grandi poesie del XX secolo – chiunque le abbia scritte, uomini o donne – siano le opere più fraterne della storia. Se così è, ciò non ha nulla a che vedere con gli slogan politici. Vale per Rike che era apolitico, per Borges che era un reazionario, e per Hikmet, che è stato comunista tutta la vita. Il nostro è stato un secolo di massacri senza precedenti, eppure il futuro che immaginava (e per cui a volte ha combattuto) aspirava alla fratellanza. Sono stati ben rari i secoli precedenti mossi da tali aspirazioni.

Questi uomini, Dino,

che hanno in mano brandelli di luce,

dove stanno andando

nelle tenebre, Dino?

Tu, e anch’io:

siamo con loro, Dino.

Anche noi, Dino,

abbiamo visto una squarcio di cielo azzurro (9).

 

 

SABATO

 

Forse, Nazim, non ti vedo neanche adesso. Eppure, giurerei che sei qui. Sei seduto di fronte a me dall’altra parte del tavolo, sulla veranda. Hai mai notato come la forma di una testa spesso suggerisca il tipo di pensieri che solitamente passano di là? Vi sono teste che indicano implacabilmente la velocità del calcolo, altre che rivelano la risolutezza nel seguire vecchie idee. Coi tempi che corrono, molte tradiscono l’incomprensione di fronte a una perdita continua. Guardando la tua testa – grande com’è, con la ragnatela di rughe attorno agli occhi azzurri – penso che racchiude molti mondi con cieli diversi che coesistono uno dentro l’altro; calma, senza alcuna intimidazione, ma abituata ad affrontare una gran folla.

Voglio chiederti cosa pensi dei tempi in cui viviamo. Gran parte di quel che credevi che stesse avvenendo nella storia, o che dovesse avvenire, si è rivelato una mera illusione. Il socialismo come lo immaginavi tu non lo costruiscono da nessuna parte. Il capitalismo della multinazionali avanza imperterrito – nonostante le contestazioni sempre più accese e la distruzione delle Torri Gemelle. Il mondo sovrappopolato diventa più povero ogni anno che passa. Dimmi, dov’è oggi il cielo azzurro che avevi visto con Dino?

Certo, mi risponderai, quelle speranze sono ridotte in brandelli, ma che cosa cambia in realtà? La giustizia continua ad essere una preghiera condensata  in una parola, come canta Ziggy Marley nel tempo che è ora il vostro. Tutta la storia è un intreccio di speranze, accese, rinnovate, spente. E con le nuove speranze nascono teorie nuove. Ma per le vittime della sovrappopolazione, per quelli che hanno poco o nulla, se non a volte il coraggio e l’amore, la speranza agisce in modo diverso. La speranza è per loro qualcosa da mordere, da mettere fra i denti. Non dimenticarlo. Sii realista. Con la speranza fra i denti si ha la forza di tirare avanti anche quando la fatica non dà tregua, si ha la forza, se necessario, di trattenersi dal gridare al momento sbagliato, la forza soprattutto di non urlare. Una persona con la speranza fra i denti è un fratello  o una sorella che incute rispetto. Coloro che sono senza speranza nel mondo reale sono condannati alla solitudine. Il massimo che possono offrire è la pietà. E poco importa che questa speranza fra i denti sia intatta o ridotta in brandelli, quando si tratta di sopravvivere alla notte e di immaginare un nuovo giorno. Avresti del caffè?

-         Lo vado a preparare.

 

Lascio la veranda. Quando ritorno dalla cucina con due tazze in mano  – di caffè turco – sei andato via. Sul tavolo, vicino al rotolo di scotch, c’è un libro aperto alla pagina di una poesia che hai scritto nel 1962.

 

Se fossi platano, mi riposerei alla sua ombra.

Se fossi libro,

leggerei, senza annoiarmi, nelle notti insonni

matita non vorrei esserlo, neppure fra le mie dita

se fossi porta

mi aprirei ai buoni e mi chiuderei ai malvagi

se fossi finestra, una finestra spalancata, senza cortine

farei entrare la città nella mia stanza

 se fossi parola

 invocherei il bello, il giusto, il vero

se fossi parola

direi il mio amore in un sospiro (10).

 

 

(1) Nazim Hikmet, The Moscow Symphony,  tradotto da Tener Baybars, Rapp and Whitong Ltd Londra, 1970.

(2) Ibidem.

(3) Nazim Hikmet, “ Les heures de Prague », in Il neige dans la nuuit et autres poèmes, scelte e tradotte in francese da Munevver Andaç e Guzine Dino, Poésie/Gallimard, Parigi, 1999, p.120.

(4) « You », tradotto da Mutlu Konuk Blasing. Prague Dawn, Persea Books, New York, 1994.

(5) Traduzione inglese di John Berger.

(6) “Lettres de Pologne”, in Il neige dans la nuit et autres poèmes, op.cit., p.108.

(7) Nazim Hikmet, «  24 septembre 1945 », ibidem, p.58.

(8) «26 septembre 1945 », ibidem, p.67.

(9) « Sur una toile d’Abidine : «La Longue Marche », ibidem, p. 165.

(10) Ibidem, p. 232.

 

 

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IL POETA DEL VENTO E DELLA LOTTA

 

Di Charlotte Kan

 

 

“Sono nato nel 1902

Non sono mai tornato sul luogo della mia nascita

Non amo voltarmi”

 

 

E il “gigante dagli occhi blu” non è tornato a Salonicco…

 

Ambiente vellutato a Istanbul: Nazim, bambino, è cullato dalla poesia di suo nonno Pacha, alto funzionario ottomano, e da sua madre Djèlilè, artista appassionata di cultura francese.

Disgustato dall’occupazione di Istanbul da parte delle potenze alleate dopo la prima guerra mondiale, esaltato dalla lotta per l’indipendenza dei contadini turchi ed entusiasmato dalla Rivoluzione d’Ottobre, ha appena vent’anni quando parte per Mosca, nel 1922.

Ritorna in Turchia nel 1924, dopo la guerra di indipendenza, ma, vittima delle persecuzioni (perché ormai è considerato un “rosso”), riparte per Mosca nel 1926 e continuerà poi ad andare incessantemente avanti e indietro.

Mosca è allora in piena fibrillazione.Qui incontra Majakovski e alcuni futuristi russi, la cui influenza stravolge la sua poesia, e lavora con Meyerhold.

Comunista perché ama tutto con passione (la libertà, il suo paese, il suo popolo e le sua donne), diventa il genio in esilio dell’avanguardia turca.

Di ritorno in Turchia, è condannato nel 1938 a ventotto anni di carcere perché, nel 1936, aveva pubblicato un elogio della rivolta, L’epopea di Sheik Bedrettin, storia della lotta di un contadino contro le forze dell’impero ottomano.Viene liberato nel 1949 grazie all’azione di un comitato di sostegno internazionale, costituito a Parigi dai suoi amici Jean-Paul Sartre, Pablo Picasso e Paul Robeson.

E’ con quest’ultimo e con Pablo Neruda che condividerà nel 1950 il Premio mondiale della pace. In absentia, perché Hikmet, indebolito da un lungo sciopero della fame oltre che da gravi problemi cardiaci, non può recarsi a Varsavia, dove ha luogo la cerimonia.

“Un’assai triste libertà”

Hikmet è costantemente sorvegliato. Sfugge miracolosamente a due tentativi di omicidio, ma non riesce a farsi esonerare dal servizio militare, che gli si richiede di effettuare a cinquant’anni. E’ l’epoca della guerra fredda, Hikmet milita contro la proliferazione degli armamenti nucleari. Che può fare se non fuggire, rifugiarsi in Unione sovietica, lasciando moglie e bambini?

Diventato un membro molto attivo del consiglio mondiale per la pace, il poeta canta l’Internazionale, ma non nasconde il suo rifiuto dello stalinismo. Il  “comunista romantico”  esalta la lotta, sinonimo di vita  e di libertà che, secondo lui, corrode l’autorità.

Diventato  cittadino polacco dopo la perdita, irreparabile, della nazionalità turca, viaggia ovunque, per sconvolgere la sensazione di essere un esule. Ma solo in Europa, in Africa e in Sudamerica, perché gli Stati uniti non gli concedono il visto.

“Nonostante il peso della mia pancia il mio cuore batte sempre con le stelle lontane”

Nazim Hikmet muore a Mosca nel 1963. Il suo cuore ha smesso di battere la misura della perdita, ma il vento soffia sempre tra gli alberi dell’Anatolia, sui volti delle sue donne, che ha amato tanto quanto il mondo.

 

 

(Tratto dal quotidiano Le Monde Diplomatique )