Nel Dicembre del 1998 un
comunicato ufficiale è stato pubblicato sul giornale locale della città di
Herat, nell’Afganistan Occidentale. Informava che “un certo numero di materiali
e strumenti illegali” erano stati raccolti e bruciati in piazza. La lista
includeva televisioni, mangianastri, videocassette e migliaia di cassette.
Includeva anche “strumenti musicali e accessori”, menzione quest’ultima
accompagnata da un monito, una collana di frasi e di atti del Profeta Maometto
con cui veniva dichiarato che “a quelli che avessero sentito la musica e le
canzoni in questo mondo, nel Giorno del Giudizio sarebbe stato versato piombo
fuso dentro le loro orecchie”.
Nonostante questo monito non
sia stato riconosciuto come autentico, i Talibani, che hanno guadagnato il
controllo dell’Afganistan nel 1994, lo hanno sfruttato per uno dei più
grotteschi esperimenti sociali della storia.
L’atto di vandalismo culturale
più drammatico da parte dei Talibani è stata l’esplosione delle statue dei
Buddha di Bamiyan. Ma l’impatto è stato catastrofico in tutte le espressioni
della vita artistica e culturale dell’Afganistan. E’ stata bandita in modo
totale e assoluto qualunque rappresentazione visiva delle creature viventi, ciò
che significa la fine della TV, del video e del cinema, così come della maggior
parte delle pitture e delle fotografie. E’ stata bandita anche la musica,
ovvero tutti gli strumenti musicali nonché l’ascolto dei suoni da loro emessi.
Alcuni canti non accompagnati sono ancora permessi, ma soltanto quelli della
poesia tradizionale, i panegirici dei principi e dei martiri Talibani.
Il Dott. John Baily, un
esperto di etno-musicologia al Goldsmith College, a Londra, conduce ricerche di
campo nell’Afganistan e nei paesi vicini da 30 anni. “L’Afganistan ha
un’attività musicale straordinariamente ricca”, dice lui, “che svolge un ruolo
particolarmente importante nei riti di passaggio: durante la nascita, nella circoncisione (dei ragazzi), e
soprattutto nei matrimoni”.
Inoltre, afferma, la musica ha
svolto un ruolo fondamentale per mantenere insieme i diversi gruppi etnici. I
due gruppi etnici principali sono i Pashtun, “veri Afgani”, che dominano il Sud
e condividono la loro cultura con gli oratori Pashto del Nord del Pakistan, e i
Tagik, che parlano Persiano. “Una delle poche aree in cui un’identità
pan-afghana è emersa”, dice Baily, “è nella musica popolare, che è un ibrido
dello stile musicale Pashtun con una buona parte di lingua Tagik. La musica, in
particolare quella che era trasmessa dalle radio, ha unito questi due gruppi”.
La radio non è arrivata
all’Afganistan fino agli anni ‘40 del Novecento e le trasmissioni musicali sono
divenute subito un’importante forza modernizzante. Essere un musicista
professionale era spesso una posizione ereditaria per i membri delle famiglie
delle caste inferiori e ciò portava con sé uno stigma sociale. La radio ha
permesso ai musicisti dei ceti medi di suonare, perché in questo modo non erano
visti. Ahmad Zahir, il figlio dello ex-Primo Ministro, era una star negli anni
‘70.
La radio ha anche permesso
alle donne di diventare musiciste professionali. La repressione delle donne da
parte dei Talibani ha avuto un serio impatto negativo sull’arte musicale. Le
performances delle donne costituivano la base della vita musicale
dell’Afganistan. Nonostante suonassero strumenti diversi da quelli degli uomini
in differenti avvenimenti e occasioni, “era quella la musica che i bambini
sentivano mentre crescevano”, dice Baily. “Non era mai eseguita in pubblico o
nelle radio, ma suonava in continuazione nelle case del paese”.
Le radici della musica possono
essere trovate nei campi dei rifugiati nel Pakistan, che ha ricevuto più di 3
milioni di afgani dopo l’invasione della Russia nel 1978 e la guerra successiva
contro il regime comunista portata avanti dai mujaheddin. L’unico rito di
passaggio afgano significativo non accompagnato dalla musica era il funerale.
Proprio perché tanta gente lì era in lutto per qualcuno della famiglia che era
stato ucciso durante la guerra, era improprio suonare musica in quei campi. Il
veto informale era già una precoce indicazione del potere sull’opinione e sul
comportamento degli afgani esercitata da certi mullah.
L’armata sovietica ha lasciato
l’Afganistan nel 1989 e nel 1992 i mujaheddin hanno preso il potere sotto la
leadership del Presidente Rabbani. Il suo governo ha portato una serie di
misure repressive. I musicisti dovevano avere una licenza, che proibiva canzoni
d’amore, musica da ballo e amplificazioni, e permetteva solo canzoni religiose
o di lode ai mujaheddin. Mentre, in
teoria, la musica era permessa nei matrimoni, nella pratica l’Ufficio di
Propagazione della Virtù e di Prevenzione del Vizio, la nuova polizia di Stato,
confiscava gli strumenti, che venivano distrutti o restituiti qualche giorno
dopo il pagamento di una multa.
Mentre gli spettacoli pubblici
erano praticamente finiti, i padroni potevano contrattare musicisti per suonare
nelle loro case, e la radio – operativa soltanto per due ore al giorno –
trasmetteva occasionalmente musica, così come lo sporadico servizio televisivo,
ma senza alcuna immagine di musicisti.
Tuttavia, nel 1994, a seguito
della presa di Kabul da parte dei Talibani, persino queste scarse presentazioni
musicali sono state vietate. L’immagine di pali coperti di nastri di video e di
cassette ha preso allora uno status da icona. I musicisti sono stati mandati in
prigione per non meno di 40 giorni per aver suonato musica. Due degli antichi
professori di John Baily sono stati trattenuti ad una festa di matrimonio dalla
polizia religiosa e sono stati picchiati con i loro stessi strumenti. Sono
stati imprigionati fino al momento in cui i loro amici hanno pagato per la loro
liberazione.
Baily afferma che è probabile
che molte delle idee sulla censura siano arrivate dal vicino Iran a metà degli
anni ’80, nonostante la censura non c’entri necessariamente con l’Islam.
“Alcune delle più grandi forme di arte vengono da società musulmane – persiana,
araba, turca,” spiega lui. “Ma è anche vero che c’è sempre stato un certo
disagio riguardo alla musica”.
A suo parere i Talibani devono
molto della loro ideologia ai sauditi Wahhabisti. Ma se l’Arabia Saudita non è
conosciuta per la sua musica, lì c’è musica nella TV e ci sono concerti e donne
cantanti. “Secondo me i Talibani sono estremamente puritani e contro qualsiasi
forma di intrattenimento al di fuori della sfera religiosa. La musica è
universalmente riconosciuta come qualcosa che può portare all’esperienza
trascendentale. A persone che vogliono controllare altre persone da un punto di
vista spirituale, non piace la musica”.
Tuttavia, la musica ha trovato
la maniera di esistere in Afganistan in modo sotterraneo. Letteralmente. Molte
case hanno cantine dove la musica può essere suonata. Performances musicali si
svolgono in aree rurali dove i Talibani non sono molto presenti. Ci sono anche
videocassette illegali. Un paio di anni fa c’è stato un forte entusiasmo per il
film Titanic, il cui tema musicale,
“Unrequited love”, era molto cantato dagli afgani.
La preoccupazione di medio
termine è su quale sarà il ruolo dell’Alleanza del Nord dopo l’era dei
Talibani. Quel gruppo riunisce molte delle persone che hanno contribuito a
introdurre la licenza per i musicisti in passato. Ma Baily è fiducioso che a
lungo termine la musica Afgana fiorirà nuovamente.
“Senza musica viene sottratto
un importante canale di comunicazione, indispensabile tanto in termini di
espressione emozionale quanto per unire la gente facendola sentire parte di una
comunità. Qualunque cosa venga fuori da questo conflitto, la musica avrà un
ruolo interessante. È un indicatore molto sensibile di altri aspetti sociali e
culturali”.
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Tra gli esseri più spregevoli
sulla faccia della Terra sono quei tipi schifosi che si approfittano della
miseria altrui per fare un po’ di quattrini: la canaglia che ruba il
portafoglio dalla tasca di uno che è appena morto nel mezzo della strada, per
esempio, o il mascalzone che saccheggia l’appartamento delle vittime di un
terremoto. Oppura la RIAA, la famigerata Recording Industry Association of
America che, senza alcun scrupolo, ha provato ad approfittarsi della
legislazione antiterrorismo in corso nel Congresso americano per garantirsi,
per legge, il diritto di hackeare i
nostri computer e cancellare i nostri archivi.
Per chi accompagna
l’attuazione di questa abbietta associazione, ciò non è affatto una sorpresa.
In tutte le tappe del caso Napster essa ha sempre giocato sporco, sempre
alzando la bandiera dei diritti d’autore per passare da onesta paladina della
classe artistica.
Ma per quelli che credevano
che gli utenti di MP3 fossero – come la RIAA ha sempre tenuto a precisare – una
banda di pirati senza alcuna nozione del bene o del male, l’ultima manovra di
Hilary Rosen e compagnia è stata un shock. Persino David Coursey, l’AnchorDesk
della ZDNet (che non mi è mai stato simpatico) è rimasto colpito. Nonostante
sia pro-establishment, pro-Microsoft, anti-Napster e anti-PGP: “Nel momento in
cui la nostra nazione ha dovuto prendere serie decisioni riguardo alla
reastrizione di libertà civili nel combattimento contro il male, la RIAA
avrebbe dovuto avere il buon senso di stare zitta”, ha scritto lui Giovedì
scorso. “Il Napster e simili, anche se fuorilegge, non sono nella lista delle
priorità. Usare questo drammatico cambiamento come un’occasione per inserire
paragrafi egoisti sulla legge antiterrorismo è proprio incredibile”.
Sorry, baby, ma è incredibile
solo per te, che hai sempre creduto nelle buone intenzioni non solo della RIAA,
ma di tutta la matassa legale che si arma, negli USA, contro gli utenti e
contro Internet, in nome delle “cause giuste” (come la lotta contro la
pedofilia o la difesa dei diritti d’autore) ma che servono, in verità, per
interessi totalmente nascosti.
Questo è ciò che accade quando
non si usa la testa per ragionare e si crede che tutto ciò che è legale sia OK.
Mi spiace, ma non è così. Le leggi di eccezione nelle dittature erano “legali”,
l’apartheid era legge negli USA e nel
Sudafrica fino a poco tempo fa; e lo stesso Olocausto era solidamente difeso
dalla legislazione nazista.
È ovvio che a rivelare le
cattive intenzioni della RIAA non è stato David Coursey, bensì Declan
McCullagh, della rivista Wired. Lui
ha pubblicato la notizia esplosiva nel Lunedì, sulla base di un ammendamento
che la RIAA voleva inserire in modo subdolo nell’USA Act. Secondo questo
ammendamento, i detentori di diritti d’autore (compresi film e e-book) non
potevano nemmeno essere considerati imputabili per i danni eventualmente
causati nei computer quando li avessero hackeati,
o invasi in qualsiasi altro modo, con lo scopo di “impedire ragionevolmente o
prevenire la pirateria elettronica”.
Ditemi se questo non è il
massimo della mascalzoneria? Possibilmente ispirati a 007, che aveva un
permesso per uccidere (anche se avesse sbagliato il bersaglio e colpito la
persona sbagliata) la RIAA, la MPAA ed altre istituzioni deviate avrebbero un
permesso legale per invadere le nostre macchine, per cancellare all’interno di
esse tutti gli archivi di MP3 e/o altri archivi che per caso non gli
piacessero. Se con questo annientassero una tesi di laurea o il bilancio di una
ditta, ebbene, cavolo, sarebbe stato soltanto – per usare il gergo del momento
– collateral damage. Sai, non si fa
un omelette senza rompere le uova...
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DI NUOVO I BARBARI
ALL'ASSALTO DELL'IMPERO
Quando è avvenuto l'attacco terroristico avevo da
poco finito di leggere il libro di Gore Vidal L'età dell'oro. L'autore è uno che di fatti americani se ne intende
più di ogni altro e dimostra come gli Stati Uniti siano diventati man mano un
Impero. Proprio come l'Impero romano ai tempi di Traiano. Il prezzo dell'Impero
è la rivolta dei barbari, degli esclusi. Che, prima o poi, finiscono sempre per
sovvertire i rapporti di forza con lo Stato centrale. I fatti di New York sono
il primo, vero atto di ribellione all'Impero americano da parte dei barbari. Si
tratta di un attentato non contro "la" civiltà (come ha scritto
etnocentricamente il "Corriere della Sera") ma contro "una"
civiltà. Le civiltà (come le religioni) sono molte e nessuna ha il diritto di
ritenersi l'unica. Cosa avverrà da qui in avanti? Avverrà che l'Impero
americano, finora gestito secondo regole soft, adotterà una condotta più
rigida, più imperialistica, distinguendo in modo manicheo i gregari (buoni) dai
ribelli (canaglie). Si riterrà autorizzato a farlo. Noi paesi satelliti lo autorizzeremo
a farlo. Poi gli attacchi dei barbari diventeranno più frequenti, più incisivi
e, alla fine, prevarranno. Allora l'America diventerà un popolo
"antico" come noi oggi siamo rispetto agli Stati Uniti, e altri
occuperanno il centro dell'Impero. Questa, da sempre, è la storia dell'umanità
e noi non facciamo che ripeterla, sia pure in forme e in luoghi sempre diversi.
Domenico
De Masi è Professore di Sociologia del lavoro all'Università di Roma "La
Sapienza"
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LA FANTASCIENZA NON
ESISTE, QUELL'ASCIUGAMANO ERA VERO
«Giovanni, cinque anni, ha in mano il telecomando e
freneticamente cambia canale. Lo indispone la medesima immagine che gli si
ripropone dinanzi, sullo schermo, con minime varianti, ossessivamente
commentata da frasi a lui oscure, interrotte da altre, in una lingua
sconosciuta. Lo skyline dei
grattacieli gli è fin troppo familiare e quasi pensa che sia iniziata una nuova
serie di cartoni: troppo noiosa». «Ann impreca contro la società dei telefoni
che ancora una volta non riesce a mantenere la linea attiva sul suo cellulare.
Eppure ha appena acquistato l'ultimo modello, che sua cugina è riuscita a
ottenere con uno sconto favoloso. Un mondo piccolo piccolo, ruota ora
freneticamente sullo schermo grigioverdastro. - Per favore attendi - Chiamata
trattenuta». «Rudolph ascolta l'ennesimo richiamo di un collega, che gli
rimbalza la notizia di un disguido incomprensibile, di un aereo scomparso dal
sentiero di volo. Ormai anche ai dirottamenti si può fare l'abitudine. La
sicurezza del volo ha una risposta a tutto: il personale è stato addestrato per
intervenire nel modo più opportuno in qualsiasi evenienza». «Jodie non riesce
più a controllare la console. Il regista deve essere impazzito. La Cnn e tutti
gli altri non sanno che cosa dire; per alcuni minuti lo spettacolo ipnotizza
anche i tecnici più cinici, come un rattlesnake».
«Carmelo sente un chimes, attiva l'exe, apre il browser, legge il mail.
Il mouse scorre sul pad, l'arrow punta il link e una
nuova window si apre sullo schermo. A
seimila chilometri di distanza in real
time (in realtà con uno sfasamento di qualche decimo di secondo) arrivano
le immagini di un Boeing 767 che si interseca con il parallelepipedo di vetro e
cristallo Wtc. Press left button, Record,
Rewind, Play. E di nuovo, sempre, in continuazione». «Valerie non ha mai
posseduto un cellulare, il suo cercapersone serve solo quando il titolare
dell'impresa vuole sfogarsi dei propri dispiaceri con qualcuno. - Qui dentro si
soffoca. Io so aprire questi vetri ermetici - pensa a voce alta. - Un
asciugamano bianco che sventola lo vedono tutti, anche da lontano. E non
servono le batterie». I bit sono "come i granelli della sabbia del
mare": una volta appartenevano alla diversità delle montagne, ma ora si
confondono nell'indistinta uniformità del deserto. Le spiegazioni razionali,
scientifiche, politicamente corrette, che l'intelligenza degli uomini vorrebbe
poste sul primo gradino dei valori sociali, non servono a dare ragione alcuna a
chi usa la barbarie per far prevalere sul prossimo la propria arroganza. Di ciò
che è accaduto si deve avere perenne memoria perché le migliaia di Giovanni,
Ann, Rudolph, Jodie, Carmelo e Valerie hanno diritto di continuare a vivere
anche se l'undici di settembre del duemilaeuno due gigantesche torri poste
sulla dura crosta di un'isola tra l'Hudson e l'East River sono state abbattute
da una folle Apocalisse.
Vittorio Marchis è docente di Meccanica applicata e Storia della tecnica
al Politecnico di Torino
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Al di là dell'orrore e dello sgomento dinanzi
all'atto di barbarie compiuto nei confronti degli Usa, sono molte le emozioni
che tutti noi proviamo ma, senza dubbio, uno stato di confusione generalizzata
governa ora sovrano nei nostri animi e nelle nostre menti. Ci si interroga,
certo, per cercare di dipanare l'intricata matassa, ma fare valutazioni
obiettive dinanzi a simili atrocità è sempre molto difficile. Che la paura e il
panico siano emozioni destabilizzanti, pessime consigliere, lo sappiamo tutti,
giacché ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta nella vita
l'impossibilità di compiere un'analisi corretta e prendere una decisione
difficile in un momento "critico". La crisi che oggi tormenta e
dilania le coscienze di tutti i popoli degni di essere definiti
"umani" e "civili" è una delle più gravi e laceranti che la
nostra memoria storica sia in grado di rammentare. Il simbolo della forza e
della potenza, l'archetipo dell'invincibilità, è stato colpito al cuore, e né
il trascorrere del tempo, né i tentativi di ottenere vendetta e giustizia,
potranno mai risanare le profonde ferite che sono state inflitte nel nostro
animo. In simili momenti la psiche umana viene esposta a rischi gravissimi, fra
cui si insinua serpeggiante quello della paranoia. Dinanzi a un nemico di cui
non si conosce l'identità, dinanzi a un pericolo a cui non è possibile
attribuire né un nome né un volto, ma di cui si avverte distintamente la
minaccia incombente, è possibile scivolare nel baratro della caccia alle
streghe e giungere alla convinzione di "essere in guerra" quando, in
realtà, non lo siamo affatto. Il rischio di un simile slittamento di piani, di
un macroscopico perché affrettato errore di valutazione, sarebbe quello di
colpire degli innocenti, lasciando che le nostre gesta vengano guidate da un
delirio paranoide piuttosto che da una auspicabile e lucida capacità di
analisi.
Aldo
Carotenuto è Psicanalista, docente di Psicologia della personalità
all'Università di Roma "La Sapienza"
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La prima impressione indimenticabile è stata la
voglia di parlare: l'11 settembre, dopo le quattro quattro e mezza italiane,
quasi tutti quelli che si incontravano erano pronti ad attaccare discorso, a
soffermarsi con gli sconosciuti sui fatti e sulle spiegazioni, a entrare senza
chiedere permesso in capannelli e dire la loro. La stessa cosa l'avevamo
sperimentata poche altre volte. Alla morte di Diana Spencer per esempio
(camminavo in un quartiere alto-borghese di Torino, con il giornale in mano e i
titoli sull'incidente, e una signora di quelle che mai si lascerebbero
rivolgere la parola mi disse affannata: «E' morta, sa, è morta», e via a
commentare); e stando alla testimonianza di Siegfried Kracauer, alla morte di
Kennedy. Diceva lo studioso tedesco, nel suo ultimo libro, che l'attentato al
presidente aveva prodotto due fatti nuovi: i capannelli a New York, come non li
aveva mai visti prima; e la voglia diffusa di raccontare, di collegare in
qualche modo la propria storia a quella del morto. I capannelli si sono formati
di nuovo, questa volta, credo in tutto il mondo occidentale; ma questa volta
non si sentivano tanto racconti quanto descrizioni («Ha visto, come è entrato
nella torre? e il crollo, sembrava un castello di sabbia»), quasi che tutti
volessero prima di ogni altra cosa dichiararsi
testimoni dell'evento. Il giorno dopo sono cominciate le chiacchiere
professionali, i commenti sui giornali, dilatati a dismisura dalla tendenza
attuale ad allungare con interminabili disquisizioni il brodo - di per sé
ristretto, in questo caso - delle notizie. E molto si è sentito e letto
sull'informazione audiovisiva come videogame, sulla difficoltà di distinguere
realtà da spettacolo, e via ripetendo discorsi antichi almeno quanto il mezzo
fotografico. Il fatto è che - come dimostrano le reazioni di cui dicevo prima,
segni di un senso comune instant che
diceva "oggi la storia ha subìto un'accelerata" - nessuno aveva
davvero difficoltà a distinguere il reale dall'immaginario, almeno l'11
settembre. C'era semmai un problema più intimo, più delicato, evitato con cura
nelle conversazioni. Il problema è che le immagini del massacro non erano solo
spaventosamente "asettiche" rispetto al peso di sangue del massacro
stesso: questo era già successo tante altre volte, soprattutto naturalmente nella
guerra del Golfo, e se ne era parlato tanto. E' che erano belle. Sfido chiunque a negare che tra gli elementi che lo
incollavano al televisore c'era anche la pura potenza visiva, simmetrica e
imprevista, dell'aereo che penetra la torre, della torre stessa che crolla. Una
bellezza che avrà certo radici profonde, del resto abbastanza intuitive (più
fallici di così) ma che sembrava rinnovare il suo fascino a ogni ripetizione
dell'inquadratura, sfidando non soltanto la miseria dei commenti ma anche il kitsch dei giorni dopo, i videoclip con
le torri e Imagine, il crollo e Imagine. Qui sta uno dei più misteriosi
meccanismi psichici collettivi di quel giorno: un'impressione di bellezza che
accresceva il fascino di un nemico di per sé invisibile, e il senso di colpa di
chi se ne era fatto prendere. Contribuendo così allo smarrimento di tutti. E il
paradosso è che probabilmente, in un'operazione così pianificata, questo
aspetto era poi il più casuale.
Peppino
Ortoleva è docente di Media all'Università di Siena
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ANCHE IN OCCIDENTE C'È
UN FONDAMENTALISMO
Perché è successo? Quali sono le cause profonde
dell'attacco terroristico a New York e a Washington? Se non sapremo trovare le
risposte vere a queste domande, difficilmente potremo evitare che quello che è
successo si ripeta. Le risposte che chiamano in causa Bin Laden e la sua rete
terroristica, o più in generale il fondamentalismo islamico e il suo odio nei
riguardi degli Stati Uniti e dell'Occidente, non sono risposte sufficienti e
che vadano al fondo delle cose. Per questo, togliere di mezzo Bin Laden e
cercare di isolare o abbattere i governi che lo proteggono, sono cose che vanno
fatte ma non sono una soluzione al problema. Il terrorismo con tutta
probabilità ricomparirà. Quale è allora la causa profonda del terrorismo
islamico? La causa profonda è la globalizzazione intesa come progressiva
erosione di tutte le culture diverse da quella occidentale. La globalizzazione
non è solo l'emergere di una comunità umana unica su tutta la Terra, rispetto
alle tante comunità distinte che ci sono state fino a oggi, ma è
occidentalizzazione del mondo, cioè progressiva sostituzione di tutte le
culture a opera della cultura occidentale, con i suoi comportamenti, i suoi
valori, i suoi tipi di organizzazione economica, sociale e politica, la sua
tecnologia. Le altre culture, se appartengono a piccole comunità senza forza,
semplicemente scompaiono. Le culture che appartengono a grandi comunità umane
prima di scomparire reagiscono in modi diversi che dipendono dalla loro storia.
Una cultura di centinaia di milioni di persone come quella islamica, con la sua
storia di espansione e conquista, e la sua tradizione di stretta e così poco
occidentale integrazione tra religione e Stato, si sente messa in un angolo,
del tutto impotente a conservarsi, e reagisce in modo rabbioso e cieco, con il
terrorismo. Se questa è la ragione di fondo di quello che è successo, è a
questo livello che bisogna agire. Forse non c'è molto da fare, e allora è
probabile che il terrorismo e altre reazioni irrazionali e violente
continueranno per anni e decenni. Forse invece qualcosa possiamo fare, a
cominciare dall'abbandonare quello che di fatto, nonostante l'apparenza di
tolleranza e di pluralismo, è una sorta di fondamentalismo occidentale che
considera superiore a tutte le altre e priva di difetti la cultura occidentale,
senza riconoscere, ad esempio, che l'Occidente ha sostituito l'oppressione
politica con l'oppressione economica.
Domenico
Parisi è dirigente di ricerca dell'Istituto di psicologia del Cnr
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Gli
ultimi cinque commenti sono stati pubblicati recentemente dalla rivista Teléma.