I CENTO ANNI DI CESARE ZAVATTINI

 

Diego Gabutti

 

 

Ricorre quest'anno il centenario dalla nascita di Cesare Zavattini. Nato a Luzzara (Reggio Emilia) nel 1902, grande umorista e sceneggiatore cinematografico di genio, talento smodato e incontenibile, per Zavattini è finalmente tempo di celebrazioni. Oltre alla mostra Zavattini e la Pittura, a Pieve di Cento, escono contemporaneamente da Guanda, di cui si festeggiano in questi giorni i settant'anni d'attività editoriale, gli scritti giovanili di Zavattini. Dite la vostra, con una introduzione di Valentina Fortichiari, raccoglie "raccontini, recensioni, numeri unici di riviste, polemiche feroci e dibattiti. Oltre 350 testi che documentano dieci anni decisivi nella formazione di Cesare Zavattini".

Cesare Zavattini, che fu l'anima e il cervello del neorealismo cinematografico italiano, non era affatto uno scrittore realista. Fu il campione, piuttosto, d'una sorta d'imprevedibile fantasy italiana, strapaesana e populista. Sceneggiò Sciuscià e Ladri di biciclette, le icone stesse del cinema neorealista nudo e crudo, ma scrisse anche la sceneggiatura d'un classico fumetto italiano degli anni trenta, il fantascientifico Saturno contro la Terra, un apocrifo di Flash Gordon disegnato da Giovanni Scolari. E fu da un suo romanzo per ragazzi, Totò il buono, da cui De Sica trasse un film straordinario e ormai semidimenticato, Miracolo a Milano, una delle favole più inquietanti e tormentose mai stampate su pellicola. Fu presidente dell'associazione Italia-Urss e Premio Lenin, fece il tifo per Fidel Castro e per le miserie estetiche del realismo socialista, ma tra le sue sceneggiature migliori c'è un altro film, a sua volta semidimenticato, Il giudizio universale , sceneggiatura vasta e abissale, tra l'Hollywood perduta di Chaplin e Buster Keaton e l'arte conturbante degli ex voto.

In gioventù fu un cultore del teatro di varietà: le canzoni, i "siparietti comici", le scenografie fastose e surreali. Pensava che Petrolini fosse il massimo talento teatrale italiano (e sa dio che aveva ragione). Amava il cinema (soprattutto il cinema comico) con passione e furore. A Parma, dove fu istitutore al Collegio Maria Luigia alla fine degli anni venti, Zavattini diventò Za ed ebbe tra i suoi allievi Giovannino Guareschi, col quale firmò il suo primo giornale umoristico, un foglio scolastico. Più tardi furono divisi dalle passioni politiche, secondo l'eterno copione della nostra commedia nazionale, ma lui e Guareschi erano fatti per intendersi e parlavano più o meno delle stesse cose, visto che anche Guareschi, come Zavattini, fu uno scrittore che anticipò il realismo fantastico scrivendo favole populiste, facendo parlare i crocifissi di legno, muovendo angeli e fantasmi sulla scena delle sue storie.

A Parma, prima di trasferirsi a Milano nel 1929 per le sue prime avventure editoriali, Zavattini conobbe altre anime affini, cui restò legato per tutta la vita: il poeta Attilio Bartolucci e il critico cinematografico Pietrino Bianchi, cugino di Guareschi. Militare a Firenze, scrisse articoli per numerosi giornali, tra cui La Fiera Letteraria. Fu lui ad accorgersi per primo, con una recensione diventata famosa, che gl'Indifferenti di Moravia era un'opera importante, da segnare nella colonna letteraria dei "buoni". Anche il suo nome entrò nella lista. Pubblicò da Bompiani il suo primo romanzo, Parliamo tanto di me, che diventò un caso letterario e gli aprì le porte dell'editoria, che non abbracciò come una qualsiasi professione ma alla quale si votò, secondo il suo costume, come auna causa da difendere.

Diresse innumerevoli riviste per il vecchio Andrea Rizzoli e fu proprio per Rizzoli che nel 1933 studiò il progetto del Bertoldo, il primo grande giornale umoristico dell'Italia fascista, dalle cui colonne emersero talenti straripanti, da Guareschi a Manzoni, da Simili a Mosca e Mondaini. Ogni avventura editoriale di Zavattini somigliava a Zavattini come una goccia d'acqua o un "doppio" letterario. Litigò con Rizzoli e il Bertoldo uscì alla fine senza di lui, ma intanto Zavattini detto Za era passato a Mondadori, dove diresse altri giornali e lasciò altri segni inconfondibili. Ereditò Le grandi firme , una testata storica, anzi un vero e proprio fenomeno culturale, da Pitigrilli (estromesso dalla direzione della rivista per via d'un piccolo "incidente mussoliniano di percorso", come talvolta si dice ancora: le leggi razziali). Era pronto a tutto: un artista completo e incontenibile. Un giorno gli regalarono una scatola d'acquarelli: divenne pittore.

Ma era per il cinema che Za anelava di lavorare. Vendette a De Sica, conosciuto per caso, il soggetto d'un film, intitolato Diamo a tutti un cavallo a dondolo. Del film non si fece poi niente, ma intanto era scoccata la scintilla tra lui e De Sica, anzi era nata la doppia firma De Sica-Zavattini, da cui si sarebbero generati negli anni successivi alcuni capolavori assoluti del cinema, da Ladri di biciclette al Tetto a Umberto D. Ma Za non fu soltanto l'alter ego di Vittorio De Sica. Collaborò con soggetti e sceneggiature anche all'opera d'innumerevoli altri registi, italiani e stranieri: Michelangelo Antonioni, Jacques Becker, Alessandro Blasetti, Mauro Bolognini, Mario Camerini, Renè Clement, Damiano Damiani, Giuseppe De Santis, Luciano Emmer, J.G. Espinosa, Federico Fellini, Pietro Germi, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Citto Maselli, Mario Monicelli, George Wilhelm Pabst, Elio Petri, Gianni Puccini, Dino Risi, Nelo Risi, Roberto Rossellini, Franco Rossi, Mario Soldati, Luchino Visconti, Luigi Zampa.

All'inizio del suo Diario cinematografico , pubblicato da Bompiani nel 1979, leggiamo questo soggetto da impaginare in un "cinegiornale umoristico" (Ahahttualità) da lui vagheggiato nel dopoguerra: "Chicago, notte di Natale. Città coperta di neve. È la notte di Natale. Il vecchio Natale col sacco sulle spalle cammina sui tetti ed entra nella cappa d'un camino. Il vecchio Natale, sceso dalla cappa in una camera, s'avvicina a un lettino dove dorme un fanciullo. Il vecchio Natale gli mette sul letto alcuni giocattoli. Ma il bambino si rizza di scatto: ha la cuffietta dei bambini, ma è un uomo in agguato, con la rivoltella in pugno. Dall'ombra spuntano altri due o tre tipacci che tolgono il sacco al vecchio Natale. Il vecchio Natale, con le mani alzate, retrocede, infila la cappa del camino e scompare. I gangster aprono il sacco, dal quale escono giocattoli d'ogni sorta: i gangster con trombette, cavalli a dondolo eccetera si danno alla pazza gioia. Fine".

Questo per dire che quando lasciò il mondo dell'editoria per quello del cinema, passando in via definitiva da Milano a Roma, dalla carta stampata alla celluloide, Zavattini non voleva semplicemente scrivere per il cinema. Voleva in realtà trasfigurarlo, farne lo specchio crepato della vita quotidiana, imbottirlo come una teglia di lasagne di ciò che lui avrebbe più tardi chiamato La veritàaaa (è il titolo del solo film di cui curò anche la regia, nel 1982). Per "veritàaaa" Za intendeva una particolare forma d'immaginazione febbrile. Sognò un cinegiornale umoristico, come abbiamo visto, e voleva mettere a tutti una macchina da presa in mano per fare del cinema una vita seconda e non meno vera della prima. Per lui il cinema era l'occhio che catturava, insieme alla realtà, anche il suo riflesso magico e fantastico, i mostri e le sirene dell'inconscio, le meraviglie e gli orrori della vita interiore. Scrisse altri libri, prese partito per il socialismo reale, si spese senza risparmio e, come scrisse un critico, fu soprattutto "l'uomo che non disse mai di no" a nessuna esperienza, a nessun volo della fantasia. Morì a Roma il 13 ottobre del 1989. È sepolto a Luzzara.