Geografo spiega come lo sport legato alla pedagogia delle fabbriche si diffuse per il mondo e fece del Brasile una culla di campioni
Senza
dubbio, un gioco è diventato niente meno che il più duraturo, disseminato e
riuscito prodotto di esportazione della grande potenza mondiale dell’Ottocento.
Nella potentissima Inghilterra di allora, il “bambino” ha scelto luogo e
momento preciso per nascere, diffondendosi per i parchi vittoriani e fecondando
tutta la nascente cultura operaia, alla quale è servito come efficace
“pedagogia della fabbrica”: lavoro di squadra, obbedienza alle regole,
specializzazione nei compiti, sottomissione al cronometro, ecc. Oltre alle
Isole Britanniche e al loro servizio, migliaia di uomini attraversano gli
oceani, disputando partitelle improvvisate nei porti del mondo. Mentre
nutrivano con sudore e sofferenza i circuiti imperialistici, seminavano con
piacere e sudore il vigoroso seme del calcio.
In
questo gioco incontriamo il potere magico del caso (il tanto citato “mare
dell’imponderabilità!) derivato soprattutto dalla peculiare proibizione di
controllare la palla con le mani; la semplicità delle regole (l’unica di
complicata esecuzione, il fuorigioco, è sommariamente abolita nel calcio
informale) e il facile apprendimento e improvvisazione: piedi scalzi, palle di
calze, sassi che delimitano le porte (ricordiamo che le altre modalità di sport
collettivo dipendono da equipaggiamenti speciali: pallacanestro e pallavolo
richiedono oggetti che rimbalzino, oltre a canestri o corde sospese nell’aria;
baseball e crickett richiedono bastoni, ecc.). Tuttavia, se è vero che
l’Association Football possiede molti ingredienti seduttori, la sua diffusione
– incontestabile successo planetario – si deve anche a fattori esterni al gioco
in sé: il calcio ha trovato impulso e accoglienza nei diversi movimenti
nazionalisti allora in auge, nella costante espansione del mondo industriale e
nella stessa urbanizzazione, che ha privato grandi masse di persone del vasto
ventaglio di opzioni ludiche della campagna. Povera gente che riempie il
proprio tempo e le proprie carenze divertendosi nell’anonimato dei terreni non
edificati con un gioco semplice e totalmente gratuito nella sua facile improvvisazione.
In
sintesi, il successo del processo di diffusione, dipende più dalla provenienza
territoriale dell’innovazione, che dai suoi presunti vantaggi intrinseci. Si
tratta di un flusso planetario in direzione centro-periferia, ciò che ci porta
alla Geografia. Essa stessa ci invita a riflettere sulla curiosa distribuzione
spaziale degli sport per il mondo. E forse ad abbattere certe vecchie certezze,
come vedremo di seguito. Scoprire che il Flamengo, di Rio, potrebbe non essere
la squadra favorita dei brasiliani, o ancora che la loro condizione di potenza
mondiale sembra aver oggi i suoi giorni contati.
Contando
sull’immenso volume di investimenti britannici gli Stati Uniti figurano tra i
primi paesi del mondo a prendere contatto con lo sport che gli inglesi hanno
codificato nel 1863 (nel 1967 sorge il Harrow School Team, probabilmente la più
antica squadra di calcio creata fuori del Regno Unito). Tuttavia in quello
stesso periodo il baseball si diffondeva velocemente negli Stati Uniti, e non
per caso: essendo un’invenzione americana (anche se erede del crickett inglese
per diversi aspetti) è diventato il simbolo sportivo nella cruciale campagna
per l’affermazione della cultura nazionale. Per questa ragione erano gravemente
accusati di antiamericanismo gli immigranti (italiani, in maggioranza) che
insistevano di praticare il soccer.
Una volta consolidato come sport nazionale ed appoggiato nell’espansione
imperialista americana, il baseball ha conquistato i caraibi e parte
dell’America centrale. Ha raggiunto anche il Venezuela, che ancora oggi rimane
come un’eccezione nel calcistico continente Sudamericano, che persiste con
stadi vuoti e totale disinteresse per il mondiale, a dispetto dei sussidi
milionari che la FIFA gli eroga.
È
il caso di sollevare qui un’ipotesi clamorosa: nel Brasile la transizione
dell’egemonia inglese verso quella americana si materializza nello scenario
successivo alla 1° Guerra Mondiale, quando il calcio, per fortuna, era già
praticamente consolidato dai brasiliani. Nel caso in cui gli Stati Uniti
avessero anticipato di due o tre decenni quell’avanzamento implacabile verso il
loro futuro “cortile”, probabilmente i brasiliani starebbero dedicando ora
ricerche e passioni, cuori e menti, a quel gioco che (Arrrgh!) affascina i loro
vicini caraibici, al punto di includere Cuba nonostante tutta la sua avversione
agli yankees. In sintesi, la dinamica
delle forze imperialistiche sul territorio sicuramente ci aiuta a capire la
ragione per la quale, nella mente della stragrande maggioranza dei brasiliani,
la prima immagine suscitata nell’udire l’Inno Nazionale è quella della Seleção, la Nazionale di calcio (di
calcio, non di baseball), solennemente impettita sul campo, prima di un altro
confronto internazionale, a mettere in gioco il valore della razza e l’onore
della nazione.
Pensiamo
ora alla squadra del Flamengo e al suo incontestabile primato tra i tifosi di
tutto il Brasile. Appoggiato nella campagna pubblicitaria molto ben promossa di
Mário Filho, possiamo capire come questa squadra di origine elitaria si è
rivestita di “carnevalesca brasilità” per superare nella preferenza dei cariocas il popolare e suburbano (anche
se portoghese, un “peccato” nel contesto dell’affermazione della nazionalità
meticcia degli anni 30) Vasco da Gama. Senz’altro una prodezza eccezionale, ma
come spiegare la supremazia a livello nazionale, conquistata anch’essa in
quello stesso periodo? Questa, credo, ci rimanda a un altro ordine di fatti,
soprattutto alla dinamica del territorio brasiliano, che allora iniziava la sua
effettiva integrazione.
Essendo
Rio de Janeiro la capitale economica, politica e culturale, sede delle
emittenti radiofoniche di ampia diffusione territoriale, sarebbe senza dubbio
di una squadra di Rio il privilegio del primato nazionale. Nel caso il processo
di integrazione del territorio brasiliano si fosse svolto due decenni prima,
tale privilegio sarebbe disputato tra il Botafogo (il tanto lodato “glorioso”
del 1910) e il tradizionale Fluminense, che dominavano da soli lo scenario
calcistico locale fin dal 1912, quando sorgeva il Flamengo. Nel caso tale
processo si fosse svolto due decenni più tardi, probabilmente avrebbe
incontrato il Vasco da Gama, base della talentuosa nazionale di calcio del
1950, il candidato più forte del Mondiale di quell’anno. E se dopottutto
l’integrazione fosse iniziata nel 1960 quando la metropoli di São Paulo
primeggiava, probabilmente sarebbe stata una squadra paulista a conquistare la preferenza nazionale.
Anche
la riconosciuta performance del calcio brasiliano si appoggia in elementi della
nostra geografia. Un gigante dedicato alla monocultura del calcio ha l’obbligo
di primeggiare nello scenario internazionale, allo stesso modo in cui gli
americani dominano il pallacanestro. Quale altro paese mobilita quotidianamente
decine di milioni di bambini e giovani allucinati dal pallone? Per questo
abbiamo dal 1940 la maggior base di reclutamento di talento calcistico del
mondo (attenzione: si tratta di una piramide di età la cui base soffre di un
irreversibile processo di riduzione, e la Cina sta arrivando...) Per tanto non
è vero che il brasiliano sia bravo col pallone naturalmente, le loro qualità
discendono dalla quantità soprattutto. Immaginate se l’Argentina avesse le
dimensioni demografico-territoriale del Brasile? L’argomento è delicato, ma con
una popolazione cinque volte maggiore, il Brasile produce campioni nella stessa
proporzione dei suoi rivali tradizionali? E che dire del calcio africano, nel
caso non fosse il continente da due decenni immerso nell’abbandono e nel caos
senza precedenti?
Imperialismo,
città, migrazione, nazionalismo, calcio e politiche territoriali. Pensare è
bello, ma a volte è meglio solo fare il tifo. In tempi di Mondiale di calcio:
faccio il tifo, quindi esisto.
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Gilmar Mascarenhas è Dottore in Geografia
all’Università di São Paulo (USP), professore dell’Università Federale di Rio
de Janeiro (UFRJ), e fa parte del gruppo di ricerca Sport e Cultura del CNPq. È l’autore del libro Belle époque tropical)
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(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai
suoi studenti dell’Università di Pisa: Mauro Bartolozzi, Gianpaolo Porcu e
Monica Petri)