MARY McCARTHY

 

MIA UTOPIA TI DIVORO

 

 

Tradotto “L’oasi” di Mary McCarthy (1949), romanzo fallito e sadico

 

 

Sogni e tic (e poi il fallimento) nella storia di una comunità rurale ispirata dalla controfigura di Nicola Chiaromonte….La stagione dei radicali newyorchesi e della loro “utopia” politico-intellettuale nel libro parodico di una  delle protagoniste. Ma perché riesumarlo proprio oggi?

 

di Enzo  Di Mauro

 

In una raccolta di saggi del 1983 – pubblicato in Italia nel 1995 da Mondatori sotto il titolo  I conti tornano – Saul Bellow, contrappuntando le sue pagine di disincanto e di gratitudine, rende omaggio ai maestri, in primo luogo a Edmund Wilson. Ricorda il romanziere  Ho letto assai presto Il castello di Azl (…) Nel 1936 avevo anche letto Travels in two democracies, Wilson mi aveva aperto gli occhi sulla grande cultura dell’Europa moderna e pertanto gli ero debitore”. E poi aggiunge “ però malgrado la mia ammirazione per lui e il mio debole per le parole ispirate, non sentii alcun trasporto per il suo culto di Lenin (…) Non credevo in Roosevelt come Wilson evidentemente credeva in Lenin “. Gli anni quaranta furono cruciali per un’intera generazione di intellettuali americani, ispirata  e guidata dal magistero di Wilson e di Lionel Trillino (le letteratura e le idee, appunto). Del primo era apparso nel 1946 Memoirs of Recate County, del secondo, l’anno successivo,  The middle of the jorney .” Le cose da capire – sono sempre parole di Bellow- erano davvero tante: storia, filosofia, scienze, guerra fredda, società di massa, pop art, arte nobile, psicoanalisi, esistenzialismo, questione sovietica, questione ebraica”. Il cuore pulsante di questa passione conoscitiva era la “ Partisan Review” ossia il meglio che si potesse respirare in quanto cultura cosmopolita, da Camus a Orwell, da Silone a Nicola Chiaromonte.

Sul rapporto tra politica e cultura gli intellettuali  radical  newyorchesi misero in gioco tutto, affetti e tensioni private compresi. Ognuno giocava per sé, tuttavia dentro un comune orizzonte, in quella stagione che somigliava alla giovinezza del  mondo, a un nuovo inizio. Fu, a guardarla oggi, un’epoca di molte eresie, disorganica, avvitata su un ragionare febbrile e necessario alle “ belle bandiere” che si credeva dovessero sventolare per sempre di qua e di là dell’oceano. L’ingenuità dello slancio rappresentò – non è difficile capirlo – anche il limite, un aspro pedaggio. Ma se per Bellow i conti tornano e tornano anche, per esempio, per Susan Sontag, per Mary McCarthy (Seattle 1912 – New York 1989) già nel 1949 fu facile parodiare i tic, i vezzi, le contraddizioni di quella comunità politica-sentimentale, senza peraltro risparmiare se stessa. Il breve romanzo “L’oasi”  (a cura di Maria Rosaria De Bueriis, traduzione di Pierpaolo Mura, Liberal Libri, pp. 134, euro 12,40) fu composto di getto nel corso del 1948 e immediatamente spedito a Cyril Connolly per un concorso organizzato dalla rivista inglese “Orizon”, per uscire  in volume l’anno dopo. Secondo la stessa autrice, si tratta di un racconto filosofico. Nei fatti è piuttosto un romanzo, in quanto tale, fallito, in cui i personaggi non hanno vita e a stento rappresentano la parodia di una o di tante tesi. Bisogna esaminarlo dunque per il suo valore di documento, come un esempio di sarcasmo che trangugia se stesso.

La comunità di Utopia (una cinquantina di persone in tutto) vive in cima a una montagna ed è la suprema opportunità per un gruppo di intellettuali che ragiona senza tregua sullo stato delle cose. La colonia non può non accogliere, ancorché contro voglia, persino un uomo d’affari, un piccolo industriale che si presenta armato di pistola. Si dividono in puristi, centristi e realisti, e ognuno di loro, precisa la McCarthy, contava sulle virtù altrui per redimersi dalle proprie macchie spirituali, in primo luogo dal filisteismo. Utopia non appare sull’elenco telefonico, com’è giusto per un’ “oasi nel deserto contemporaneo”. Gli ospiti – splendidi e macerati quarantenni – finiscono per vivere la vita  comunitaria come una moltiplicazione del matrimonio, un matrimonio allargato. “ Mi disgusti”, dice uno di loro alla moglie, benché l’istinto politico gli consigliasse prudenza. Finiscono ben presto sull’orlo di una crisi di nervi, specie quando capiscono di trovarsi lì con la segreta speranza di convincersi a vicenda delle rispettive ragioni. L’altro, intuiscono, è poco meno di un avversario. D’altra parte, se veramente trionfasse l’armonia, ciò equivarrebbe a dare per scontato il fallimento come destino. Utopia, per la Mary McCarthy, è come starsene fuori dalla battaglia, dal tempo di cui si fa parte. Un Aventino americano, dunque un errore, un abbaglio. Troppa autocritica, e allora se si piange troppo sulle proprie imperfezioni si finisce male. Quando  Utopia appare sui giornali, il va e vieni dei visitatori diventa inarrestabile. Si decide di fare una rivista, si organizzano conferenze e letture di poeti. Ci si dedica ai picnic con le signore che preparano ricche merende. Quando un gruppo di contadini entrano nel recinto di Utopia per raccogliere le fragole, vengono duramente cacciati  come invasori e anche la criticatissima arma di Lockman, l’uomo d’affari, a questo punto diventa indispensabile. Le loro esigenze maxiane si rivelano di colpo carta straccia e il materialismo degenera in spietato cinismo. Del loro passato leninista, annota la scrittrice, rimane soltanto la più assoluta libertà sul piano della condotta personale.

“Insoddisfatti e infelici, diffamati e fraintesi”, gli ospiti della colonia si avviano verso la dissoluzione. E’ la vittoria della visione estetica su quella etica. Nel romanzo Mary McCarthy si ritaglia la parte di  Caty, una “pedagoga disperata”  . Mentre l’ispiratore dell’esperienza comunitaria (che appare solo mediante le lettere spedite da lontano) si chiama Monteverdi, profeta e santo della “sinistra utopica” Monteverdi altri non è che Nicola Chiaromonte, il quale rappresentò per la scrittrice, a suo dire , l’incontro decisivo della sua vita. L’intellettuale, nel romanzo, viene descritto come “ un anarchico italiano (…), un veterano della guerra di Spagna e delle prigioni di Vichy, un amante di Platone  e Tolstoj, un piccolo uomo rosa e nero con una testa calva che ricordava la tonsura di un monaco e un petto a forma di barile che parimenti ricordava quello di un monaco”. Come si concilia allora il sarcasmo di Mary McCarthy con la venerazione per colui che sognò l’Europe-America Groups? E se quel “piccolo circolo di letterati e di pensatori politici” altro non è che un manipolo di “dittatori assolti e viziati”, com’è possibile sottrarre l’autore di Credere e non credere al peso di questa grave responsabilità? La McCarthy non lo spiega. E non spiega neppure come la pedagogia si concili con il  sarcasmo e l’ingenerosità, ossia con due sentimenti costitutivi della coscienza borghese.

Alla sua uscita L’oasi non piacque a nessuno e si rivelò un autentico fallimento. Piacque soltanto a Hannah Arendt che lo definì un “piccolo capolavoro”. Che questo testo venga riesumato proprio adesso, dopo i tentativi di riabilitare la vergogna maccartista, è segno dei tempi. Mary McCarthy, che sposò in seconde nozze Edmund Wilson (e fu un matrimonio tempestoso e violento), viene ricordata cos’ da Saul Bellow: “ Mary era senza dubbio una scrittrice spiritosa, ma aveva un debole per il sadismo. Malmenava brutalmente persone che non era davvero necessario attaccare”. “Attraente come poche” – continua lo scrittore di Chicago – e, così si diceva, “depositaria di grandi doti sessuali”, tuttavia – conclude – “ non ha mai fantasticato di gustarle”.

 

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(Tratto dalla rivista Alias n. 8)