Sogni e tic (e poi il fallimento) nella storia di una comunità rurale ispirata dalla controfigura di Nicola Chiaromonte….La stagione dei radicali newyorchesi e della loro “utopia” politico-intellettuale nel libro parodico di una delle protagoniste. Ma perché riesumarlo proprio oggi?
di
Enzo Di Mauro
In
una raccolta di saggi del 1983 – pubblicato in Italia nel 1995 da Mondatori
sotto il titolo I conti tornano – Saul Bellow,
contrappuntando le sue pagine di disincanto e di gratitudine, rende omaggio ai
maestri, in primo luogo a Edmund Wilson. Ricorda il romanziere Ho letto assai presto Il castello di Azl (…) Nel 1936 avevo anche letto Travels in two democracies, Wilson mi
aveva aperto gli occhi sulla grande cultura dell’Europa moderna e pertanto gli
ero debitore”. E poi aggiunge “ però malgrado la mia ammirazione per lui e il
mio debole per le parole ispirate, non sentii alcun trasporto per il suo culto
di Lenin (…) Non credevo in Roosevelt come Wilson evidentemente credeva in
Lenin “. Gli anni quaranta furono cruciali per un’intera generazione di
intellettuali americani, ispirata e
guidata dal magistero di Wilson e di Lionel Trillino (le letteratura e le idee,
appunto). Del primo era apparso nel 1946 Memoirs
of Recate County, del secondo, l’anno successivo, The middle of the jorney .”
Le cose da capire – sono sempre parole di Bellow- erano davvero tante: storia,
filosofia, scienze, guerra fredda, società di massa, pop art, arte nobile,
psicoanalisi, esistenzialismo, questione sovietica, questione ebraica”. Il
cuore pulsante di questa passione conoscitiva era la “ Partisan Review” ossia
il meglio che si potesse respirare in quanto cultura cosmopolita, da Camus a
Orwell, da Silone a Nicola Chiaromonte.
Sul
rapporto tra politica e cultura gli intellettuali radical newyorchesi misero in gioco tutto, affetti e
tensioni private compresi. Ognuno giocava per sé, tuttavia dentro un comune
orizzonte, in quella stagione che somigliava alla giovinezza del mondo, a un nuovo inizio. Fu, a guardarla
oggi, un’epoca di molte eresie, disorganica, avvitata su un ragionare febbrile
e necessario alle “ belle bandiere” che si credeva dovessero sventolare per
sempre di qua e di là dell’oceano. L’ingenuità dello slancio rappresentò – non
è difficile capirlo – anche il limite, un aspro pedaggio. Ma se per Bellow i
conti tornano e tornano anche, per esempio, per Susan Sontag, per Mary McCarthy
(Seattle 1912 – New York 1989) già nel 1949 fu facile parodiare i tic, i vezzi,
le contraddizioni di quella comunità politica-sentimentale, senza peraltro
risparmiare se stessa. Il breve romanzo “L’oasi” (a cura di Maria Rosaria De Bueriis, traduzione di Pierpaolo
Mura, Liberal Libri, pp. 134, euro 12,40) fu composto di getto nel corso del
1948 e immediatamente spedito a Cyril Connolly per un concorso organizzato
dalla rivista inglese “Orizon”, per uscire
in volume l’anno dopo. Secondo la stessa autrice, si tratta di un
racconto filosofico. Nei fatti è piuttosto un romanzo, in quanto tale, fallito,
in cui i personaggi non hanno vita e a stento rappresentano la parodia di una o
di tante tesi. Bisogna esaminarlo dunque per il suo valore di documento, come
un esempio di sarcasmo che trangugia se stesso.
La
comunità di Utopia (una cinquantina di persone in tutto) vive in cima a una
montagna ed è la suprema opportunità per un gruppo di intellettuali che ragiona
senza tregua sullo stato delle cose. La colonia non può non accogliere,
ancorché contro voglia, persino un uomo d’affari, un piccolo industriale che si
presenta armato di pistola. Si dividono in puristi, centristi e realisti, e
ognuno di loro, precisa la McCarthy, contava sulle virtù altrui per redimersi
dalle proprie macchie spirituali, in primo luogo dal filisteismo. Utopia non appare sull’elenco
telefonico, com’è giusto per un’ “oasi nel deserto contemporaneo”. Gli ospiti –
splendidi e macerati quarantenni – finiscono per vivere la vita comunitaria come una moltiplicazione del
matrimonio, un matrimonio allargato. “ Mi disgusti”, dice uno di loro alla
moglie, benché l’istinto politico gli consigliasse prudenza. Finiscono ben
presto sull’orlo di una crisi di nervi, specie quando capiscono di trovarsi lì
con la segreta speranza di convincersi a vicenda delle rispettive ragioni.
L’altro, intuiscono, è poco meno di un avversario. D’altra parte, se veramente
trionfasse l’armonia, ciò equivarrebbe a dare per scontato il fallimento come
destino. Utopia, per la Mary McCarthy, è come starsene fuori dalla battaglia,
dal tempo di cui si fa parte. Un Aventino americano, dunque un errore, un
abbaglio. Troppa autocritica, e allora se si piange troppo sulle proprie
imperfezioni si finisce male. Quando Utopia appare sui giornali, il va e vieni
dei visitatori diventa inarrestabile. Si decide di fare una rivista, si
organizzano conferenze e letture di poeti. Ci si dedica ai picnic con le
signore che preparano ricche merende. Quando un gruppo di contadini entrano nel
recinto di Utopia per raccogliere le
fragole, vengono duramente cacciati
come invasori e anche la criticatissima arma di Lockman, l’uomo
d’affari, a questo punto diventa indispensabile. Le loro esigenze maxiane si
rivelano di colpo carta straccia e il materialismo degenera in spietato
cinismo. Del loro passato leninista, annota la scrittrice, rimane soltanto la
più assoluta libertà sul piano della condotta personale.
“Insoddisfatti
e infelici, diffamati e fraintesi”, gli ospiti della colonia si avviano verso
la dissoluzione. E’ la vittoria della visione estetica su quella etica. Nel
romanzo Mary McCarthy si ritaglia la parte di
Caty, una “pedagoga disperata” .
Mentre l’ispiratore dell’esperienza comunitaria (che appare solo mediante le
lettere spedite da lontano) si chiama Monteverdi, profeta e santo della
“sinistra utopica” Monteverdi altri non è che Nicola Chiaromonte, il quale
rappresentò per la scrittrice, a suo dire , l’incontro decisivo della sua vita.
L’intellettuale, nel romanzo, viene descritto come “ un anarchico italiano (…),
un veterano della guerra di Spagna e delle prigioni di Vichy, un amante di
Platone e Tolstoj, un piccolo uomo rosa
e nero con una testa calva che ricordava la tonsura di un monaco e un petto a
forma di barile che parimenti ricordava quello di un monaco”. Come si concilia
allora il sarcasmo di Mary McCarthy con la venerazione per colui che sognò
l’Europe-America Groups? E se quel “piccolo circolo di letterati e di pensatori
politici” altro non è che un manipolo di “dittatori assolti e viziati”, com’è
possibile sottrarre l’autore di Credere e
non credere al peso di questa grave responsabilità? La McCarthy non lo
spiega. E non spiega neppure come la pedagogia si concili con il sarcasmo e l’ingenerosità, ossia con due
sentimenti costitutivi della coscienza borghese.
Alla
sua uscita L’oasi non piacque a
nessuno e si rivelò un autentico fallimento. Piacque soltanto a Hannah Arendt
che lo definì un “piccolo capolavoro”. Che questo testo venga riesumato proprio
adesso, dopo i tentativi di riabilitare la vergogna maccartista, è segno dei
tempi. Mary McCarthy, che sposò in seconde nozze Edmund Wilson (e fu un
matrimonio tempestoso e violento), viene ricordata cos’ da Saul Bellow: “ Mary
era senza dubbio una scrittrice spiritosa, ma aveva un debole per il sadismo.
Malmenava brutalmente persone che non era davvero necessario attaccare”.
“Attraente come poche” – continua lo scrittore di Chicago – e, così si diceva,
“depositaria di grandi doti sessuali”, tuttavia – conclude – “ non ha mai
fantasticato di gustarle”.
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(Tratto
dalla rivista Alias n. 8)