In questi ultimi
decenni l’Europa è diventata tappa e meta di flussi migratori. Questo processo
coinvolge anche il nostro Paese che, dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha
visto crescere in misura sempre più considerevole la presenza di persone
provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina.
Le motivazioni che spingono milioni di persone a spostarsi sono molto varie:
economiche, religiose, politiche, ma c’è sempre un denominatore comune:
migliorare la propria vita.
Veniamo a
conoscenza di rado delle reali condizioni in cui vivono in Italia molti
immigrati, alla ricerca di un lavoro, di un permesso di soggiorno che li tolga
dalla condizione di clandestini, spesso sfruttati e vittime di intolleranza per
la loro diversità culturale. Vu cumprà, lavavetri, operai nelle fabbriche del
Nord, camerieri, spacciatori e prostitute, ma è solamente questo il mondo
dell’immigrazione in Italia? In realtà,
accanto a queste immagini, a volte stereotipate e frutto di pregiudizi, in larga parte propinate dai mass
media, ne convivono molte altre .
Proviamo quindi ad allargare il nostro orizzonte prendendo in considerazione il fatto che il fenomeno sociale
dell’immigrazione in Italia si è delineato anche come fenomeno culturale.
Infatti il segno più evidente della volontà di espressione e di comunicazione
con la società italiana è dato dalla nascita e dallo sviluppo di una nuova
branca della letteratura, la letteratura italiana della migrazione che
testimonia l’incontro tra le varie culture migranti e la cultura italiana. Questa definizione raggruppa tutti i testi
letterari degli scrittori immigrati in
Italia dai cosiddetti “mondi del sud”, che del sud portano le caratteristiche
in termini di oppressione coloniale, povertà, sfruttamento economico e
assimilazione culturale. Si tratta di testi che meritano di essere letti per le
loro qualità letterarie e non solo come semplici documenti di un fenomeno
sociale e antropologico. Costituiscono, infatti, una nuova corrente attraverso
cui la contaminazione e l’interculturalità si presentano come un nuovo
orizzonte storico, letterario e linguistico, un punto d’incontro non solo di
espressività, di immaginari, ma anche di visioni della nostra società
attraverso nuovi occhi. Scrive Ribka Sibhatu nel suo libro “Aulò, canto-poesia
dall’ Eritrea: “Sono Ribka / nacqui in Eritrea nell’antica Abissinia. / Mi
dicono “extra... di colore” / ed io canto in tigrino, / amarico, italiano,
inglese e francese. / Sono Ribka / d’origine Eritrea / e una nuova cittadina
europea. / Non ho diritto di voto, mi
dicono del terzo mondo...! / Sono figlia del Nilo, / adottata dal Tevere e
Rodano / e cittadina del mondo”.
I libri scritti
nei primi anni Novanta da immigrati stranieri, soprattutto arabi e africani,
sembrano più che mai corrispondere alla convinzione che l’opera letteraria sia
essenzialmente uno strumento di comunicazione con la società che li
accoglie. Nel 1990 la casa editrice
Theoria di Roma stampa “Immigrato” di Mario Fortunato e Salah Methnai, un
giovane intellettuale tunisino. Il libro ha un certo successo e altre case
editrici a diffusione nazionale pubblicano libri scritti da immigrati con la
collaborazione di scrittori e giornalisti italiani nella forma del
racconto-testimonianza a “quattro mani”. Quelle testimonianze sono state le prime rappresentazioni di desideri,
progetti, aspirazioni, valori diversi e quindi di esistenze diverse, che
negavano lo sterotipo del comune venditore, del clandestino affamato.
Ricordiamo “Io venditore di elefanti”
scritto dal senegalese Pap Khouma e Oreste Pivetta, “Chiamatemi Ali’” del
marocchino Mohamed Bouchane, C. De Girolamo e D. Miccione, “Dove lo stato non
c’è” del maghrebino-francese Tahar Ben Jelloun e E. Volterrani. Il fenomeno si
allenta nel giro di pochi anni, ma in realtà, la letteratura degli immigrati
continua a circolare attraverso l’impegno di piccole case editrici, di
associazioni no-profit e di riviste
come “Terre di mezzo” e
“Tam Tam”. Sono
testi che esprimono il disagio di chi è costretto a vivere ai margini e vede
minacciata la
propria identità:
“Non chiedetemi il mio nome” scrive il poeta marocchino Bouzidy Aziz “tutti i
nomi sono il mio nome e la mia vita è cosi’ corta, / eterne sono le sofferenze. / Sono un sorriso sulle labbra
di una faccia triste... / sono l’uccello che non ha mai smesso di cantare,
libero e carcerato: ma l’amore della libertà, della vita e della patria è
l’unica cura della nostra ferita profonda”. Attraverso la poesia si conferma la
difficoltà ad integrarsi nella nostra società: “Qui cara madre siamo persi tra
le cose, / aspettiamo un giorno che ci sembra vicino e non si avvicina mai. /
Noi ci sentiamo rottame che cade, fumo che cade e sparisce, / non siamo la
fiamma e neanche la cenere”. Il problema del lavoro nero e spesso
malpagato è un’altra tematica
affrontata: “Dove lavori? Sicuramente nero. / Voglio urlare, ma ho paura! / Mi
zittiranno per sempre. Allora lavoro in nero e basta” scrive Vincent Depaul,
della Costa d’Avorio, vincitore nell’edizione 1994-95 della sezione Poesia
del “Concorso Exs&Tra”, il primo
concorso letterario per immigrati ideato in Italia da Roberta Sangiorgi. Il discorso della diversità, del razzismo è
spesso presente nelle opere: “ Ero li’, ferma, aspettavo il tram e tutt’intorno
c’era una città grigia, in cui nessuno conosceva il mio nome, ma solo il colore
della mia pelle” scrive la scrittrice somala Shirin Ramzanali Fazel nel libro “Lontano da Mogadiscio”. Se quindi la migrazione non sortisce sempre
effetti positivi e il viaggio si fa sinonino di sradicamento, difficoltà e
umiliazione, è pur vero che l’incrocio fra culture è motivo di reciproco
accrescimento attraverso l’espressione letteraria, in quanto la conoscenza
dell’altro si fa occasione per una conoscenza approfondita di sè stessi, della
società, ma anche di usi e costumi diversi da rispettare. Oggi la letteratura
italiana della migrazione è una realtà costantemente in crescita tanto da
essere oggetto di studio all’Università di Roma dove nel 1997 è stata creata la
Banca dati on-line BASILI che racchiude tutte le indicazioni sui libri pubblicati e viene costantemente aggiornata
grazie all’impegno di Armando Gnisci, professore di Letterature comparate
e studioso di questa branca letteraria. Ma il grando salto della letteratura
italiana della migrazione, in realtà,
si è avuta con la lingua utilizzata e le nuove tematiche affrontate.
Infatti il dato singolare è che ormai questi scrittori non scrivono più nella
lingua dei colonizzatori dei loro Paesi d’origine, non hanno bisogno più di un
traduttore perchè adottano direttamente l’italiano e ciò rivela l’intenzione di
voler comunicare senza mediatori con il pubblico di accoglienza, e cioè con noi
italiani. Da “Elegia dell’esilio compiuto” di Amara Lakhous, scrittore
algerino: “La notte Julio Cesar Monteiro Martins mi ha informato della sua
nuova avventura: ha cominciato da poco a scrivere nella lingua di Italo Calvino
e fra qualche mese sarà pubblicato un libro di racconti in italiano, gli ho chiesto
con esitazione cosa sia successo al suo portoghese e mi ha risposto: non lo so.
Abbiamo consumato la notte a discutere sul ruolo del linguaggio nella scrittura
creativa, sulla responsabilità della lingua nell’elaborazione del pensiero.
Alla fine gli ho detto: Adesso ho capito, il tuo esilio, caro Julio, è
compiuto. La differenza fra me e te è che tu vivi un esilio concluso (la
separazione dal Brasile e dal portoghese) mentre io vivo un esilio incompiuto,
sto combattendo la tentazione della lingua italiana, scrivo in arabo perchè è
la lingua/ponte/sale che salvaguarda il prolungamento della ferita. Nel
salutarmi Julio mi ha detto: godi del tuo esilio incompiuto, amico mio, però
cosa ti accadrà se le corde del tuo ponte si spezzeranno?”
Ogni scrittore porta nella lingua della narrativa e
della poesia i suoni, i colori, le immagini, le poetiche della propria
tradizione, e non di rado, assistiamo anche ad ibridazioni linguistiche che
svelano il desiderio di fondere la cultura d’origine con la cultura adottiva.
E’ il caso della scrittrice brasiliana Christiana De Caldas Brito, vincitrice
di vari premi letterari, che, nel monologo “Ana de Jesus” utilizza il
“portuliano”, una sorta di sintesi fra la lingua italiana e la lingua
portoghese: “...Se i piedi sono senza escarpe e i diti sono felici di pestare
la terra, mi dici, signora, perchè mia bambina deve usare scarpe? Lo so, tu
parli di malattia, ma l’anima è più libera se piede sente libertà. Italia,
grande estivale stretto”. Inoltre, mentre nella prima fase gli argomenti trattati erano prevalentemente
l’immigrazione e la nostalgia del proprio Paese, assistiamo ora ad un
allargamento e arricchimento delle tematiche. Infatti molti scrittori rifiutano
di continuare ad essere vincolati al tema della emigrazione o meglio della
immigrazione nel nostro Paese, e rifiutano anche di essere etichettati come
“scrittori immigrati”, narranti cioè solo ed esclusivamente storie legate al
mondo dell’immigrazione. Chi scrive vive si’ l’esperienza della migrazione, ma
vuole essere riconosciuto come intellettuale e scrittore nel senso pieno, non
più solo come fenomeno da libreria esotico e compassionevole. Cosi’, ad
esempio, la nostalgia per il Paese d’origine si allarga e abbraccia il concetto
universale della nostalgia come sentimento che tocca ogni essere umano. Bene lo
esprime Christiana De Caldas Brito riflettendo sulla “saudade”, che in
portoghese significa nostalgia. “Non
esisterebbe cultura e tradizione senza la saudade. Non guarda il futuro, ma non
è neanche il semplice passato, la saudade: è qui, ora, dentro di me. E’ la
forza che mi porterà a tradurre il mio passato. Senza saudade, come tornare ai
giorni dell’infanzia, come mantenere vive le persone il cui respiro non posso
più sentire? E’ il modo – forse l’unico
– di vincere la morte” (da “Saudade” in
“Kumà” n. 3).
Io credo che sentimenti del genere non abbiano
colore o appartenenza culturale, nè si possano rinchiudere in un ghetto creato
per un gruppo di esseri umani che
vivono nel nostro Paese e ne fanno ormai parte integrante. Sono valori
universali che ci risvegliano dal torpore della società tecnologica e rimettono
l’uomo e le sue emozioni al centro dell’universo, sono valori universali quelli
espressi dalla nuova “Poetica del sentire”, cosi’ bene interpretata da questi
scrittori che hanno portato una ventata di rinnovamento nel mondo letterario
italiano.
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Nota:
L'articolo e' stato tratto dalla Rivista mensile "Patria" ( Anno 51, N. 2, p. 48-50)
dell'ANPI ( Associazione Nazionale Partigiani
italiani).