CARMEN

- Brano del romanzo Lo scommettitore -


Remo Bassini

(…) Ogni tanto ripenso a Carmen, in trattoria. Io parlo, lei mi ascolta, dice niente, è imbarazzata, delusa. Sorride solo quando vede comparire la testolina riccia della cuginetta, che qualche volta si affaccia, ma non osa entrare.
Forse Carmen non vede l'ora di andarsene via. O forse pensa a Lucia.
Ci pensavo anch'io: il mio soldatino come aveva potuto pensare che io e quella donna, candidata a un massacro elettorale, paurosamente sprovveduta, potessimo capirci?

Finì male il primo incontro con Carmen Severi, nella trattoria in collina. Avevano mangiato parlando del più e del meno. Della laurea in Lettere di lei, dei pochi esami sostenuti da lui a Scienze politiche; e di cinema: scoprirono che a entrambi piaceva andarci da soli. Quando lei iniziò a raccontargli della sua esperienza di assessore alla cultura, di spettacoli organizzati nei quartieri, magari d'estate così da offrire qualcosa a chi non poteva permettersi le ferie, nelle fabbrichette e addirittura fra gli zingari, lui sospettò che non fossero fatti per lavorare l'uno per l'altra.
Era pulita, lei, sensibile. Ma era comunque un politico e lui, i politici, li conosceva bene.
Non li stimava. Tutti ridicoli, bugiardi, ambiziosi, assetati di potere e attorniati da servi, tanti servi, inchini, salamelecchi.
Le rare eccezioni, i puri di spirito, li considerava il peggio del peggio.
Se vogliono salvare il mondo facciano i missionari e non fingano di essere vergini, visto che stanno al fianco dei pescecani.
Carmen apparteneva a questa sottospecie; Carmen, quindi, non era il suo cliente ideale.
Era più giovane di lui di una decina d'anni: ne aveva trentotto, come Lucia.

Ed era stata Lucia a insistere con lui, C'è una mia cara amica non può permettersi di pagare le cifre che chiediamo noi, ma ci terrei che la aiutassimo. Si è candidata a sindaco e non ha speranza di riuscire, a meno che lei...
Lucia sapeva bene che a lui piacevano le scommesse, quelle difficili, quelle folli. Quelle improponibili no: era uno scommettitore-calcolatore, lui.
Lucia e Carmen si erano conosciute quindici anni prima, lavorando in una piccola compagnia teatrale. Mentre Lucia recitava e sognava di diventare un'attrice, Carmen si occupava del settore ragazzi. Insegnava ai bambini a recitare tenendo corsi nelle scuole, e allestiva spettacoli con i burattini. Per un paio d'anni avevano condiviso appartamento e gattina, Lulù, poi rimasta con Carmen. E quando le loro strade si erano separate, perché Carmen aveva deciso di tornare nella sua città a insegnare Lettere in una scuola media, avevano continuato a sentirsi, a vedersi. E cinque anni prima, appena nominata assessore alla cultura, Carmen aveva invitato Lucia a festeggiare, ospite per una notte nella sua stanza, come ai vecchi tempi, ma senza gattina però, che nel frattempo era morta. Di Lulù, Lucia conservava una foto, incorniciata e in bella mostra sulla scrivania, nel loro ufficio.
Gli aveva detto: Guardi, era la nostra gattina. Quando facevamo le stupide, io e Carmen cantavamo: Lulù, il più bel gatto sei tu.
Sapeva queste poche cose, lui di lei, durante quell'incontro. E sapeva quel tanto che basta sulla città di Carmen, un paesone di ventiduemila abitanti, e sulla situazione politica: un bel casino per lei. E per lui, se avesse deciso di accettare la scommessa e di lavorare per Carmen. Arrivare al ballottaggio era difficile: perché il centrodestra avrebbe potuto vincere subito, ottenendo il cinquanta per cento dei voti più uno, ed evitare così le insidie del secondo turno, due settimane dopo.
Carmen non aveva tessere di partito, né esperienza; un curriculum scarno, con solo la parentesi di assessore, vissuta in modo strano, appartato. Stop. Eppure i partiti di centrosinistra avevano scelto lei. Per tante ragioni: l'ultima, in ordine di tempo, perché il centrodestra aveva scovato un candidato sindaco con fiocchi e controfiocchi. Un cabarettista, nato in quella città, ma che aveva fatto fortuna altrove, per di più consacrato da qualche apparizione televisiva. L'asso nella manica, insomma. Da presentare come il candidato che rinuncia a soldi, successo e notorietà per risollevare le sorti di una cittadina con tanti problemi, alcuni vecchi e irrisolti, altri nuovi, preoccupanti.
C'erano poi altre ragioni che avevano portato i partiti di centrosinistra a scegliere Carmen; ma lui, durante quell'incontro, non le conosceva ancora; e lei quelle ragioni non gliele spiegò.
In ogni caso la candidata Carmen Severi era tranquilla. Di più: era serena, sorridente, e lui non si capacitava di tanta spensieratezza.
Alla fine della cena, senza tergiversare, le disse che della sua campagna elettorale poteva accettare, al massimo, lo slogan che lei aveva coniato: Con la gente.
C'erano mille altre cose, più importanti di uno slogan, casereccio e trito e ritrito, da valutare e da affrontare, una per una.
Parlando secco, veloce, disse: Punto primo, lei dovrà vestirsi come dico io e i discorsi elettorali non li dovrà improvvisare, nel modo più assoluto. Lei li mette giù, o li fa mettere giù da un addetto stampa, ma poi li rivedo io. E alla fine di ogni discorso lei deve ripetere il suo slogan, Con la gente; deve imparare a dirlo come se fosse un'unica parola, Conlagente, ha fatto teatro no? A volte dovrà quasi sussurrarlo, magari quando c'è silenzio, in certi ambienti intimi, ma il più delle volte dovrà quasi urlarlo, perché deve entrare nella testa di tutti. Specie nei quartieri periferici, dove vivono i disgraziati, quelli che se va bene leggono i titoli di Sorrisi e canzoni: lì, lei dovrà presentarsi come una regina, una Giovanna d'Arco, un'Evita Peron. Slogan e strette di mano; e caramelle ai bambini e bagnoschiuma alle mamme, ma questo sarà di competenza dei suoi collaboratori. Lei deve solo sorridere, muovere le mani quel tanto che basta: il suo saluto dovrà somigliare a una benedizione papale.

Lui parlava veloce, muovendo le dita, l'indice destro in particolare, e Carmen ascoltava in silenzio. Sembrava stordita. Poco attenta. E lui a un tratto fu sfiorato dall'idea che forse lei non stesse afferrando tutto ciò che le stava spiegando.
Eppure quel primo punto era davvero importante. Voleva che lei si convincesse, altrimenti era tempo perso.
Le disse, Lei sa, vero? che la scelta è caduta su di lei perché i suoi alleati sono certi che prenderete una bella batosta, Io sa vero?
Carmen annuì.
Bene, qualcosa capisce, pensò lui.
E sa, vero? che mentre il suo avversario è molto ma molto presentabile, perché sa parlare in pubblico ed è un bell'uomo che esercita fascino nell'elettorato femminile, lei è, mi scusi la franchezza, piuttosto anonima?

Dica pure che non incontrerò il gradimento dell'elettorato maschile, gli rispose Carmen - ma con mitezza, quasi con rassegnazione.
Quella prima interruzione lo spiazzò. Certo, la riteneva troppo poco autorevole, ma non brutta; anzi, a parte il bacino un po' largo, la giudicava carina. Dolce, specie quando sorrideva alla cuginetta, che ogni tanto faceva capolino. Però non glielo disse.
Andò avanti, come un treno in ritardo. Che gli fregava se da ragazza aveva fatto la boy scout, se era una volontaria della Croce Rossa e se andava a messa tutte le domeniche. Se voleva vincere doveva capire, e bene.
Passò al punto secondo.

Al suo fianco, mi hanno riferito che c'è sempre il professor Matteo Rolandi. So chi è e cosa ha fatto: il parlamentare negli anni ottanta, ha insegnato Storia all'università e pubblicato libri sulla Resistenza, e so che lei, signorina Severi, lo considera il suo padrino politico. Ma è una vecchia gloria, dia retta a me. Annoia la gente con le sue prediche. Il fatto che sia stato un buon parlamentare ora non serve. Quel che serve è fargli capire che deve mettersi da parte, almeno un po'. E poi: mica vuol far vedere a tutti che ha bisogno della balia? Le dirò io chi sono le persone con cui deve apparire in pubblico, quelle con cui farsi fotografare. Lei non s'immagina quanto si possa ottenere da una foto, nel bene o nel male.
Sembrava una profezia, quella. Una maledizione.
Carmen continuava ad ascoltarlo, ma era nervosa; lui lo capì da come si mordicchiava le labbra. Torturandole, quasi.
Pensò, Non le piaccio, è chiaro, ed è strana. Non mi domanda quanto costa la mia consulenza, né controbatte su Rolandi, eppure dovrebbe arrabbiarsi, dovrebbe almeno chiedermi se è
stata Lucia a parlarmi di lui, o altri.
(Era stato il suo più antico e prezioso collaboratore, l'ex questore Rosario De Rita, ora in pensione, a fornirgli una relazione dettagliata sull'influenza che aveva su Carmen l'ex parlamentare democristiano professor Matteo Rolandi.)
Era fiato sprecato, ma già che c'era passò al punto terzo.
E poi, signorina Severi, dal momento che lei è amica di Lucia voglio dirle qualcosa che solitamente non dico ai miei clienti.
Dica.
Quando c'è di mezzo un ballottaggio occorre essere cauti.
Occorre prendere tutte le precauzioni. Insomma, sappia che io, coi mezzi che ho a disposizione, entrerò nelle case dei suoi nemici e, mi ascolti bene ora, anche dei suoi amici, perché per vincere, e lei vuole vincere vero? occorre evitare sorprese.
Che mezzi usa per prendere queste informazioni? domandò Carmen. Ora le labbra erano strette, sottili.
Era la seconda interruzione: l'ultima.
Mi spiace, ma nemmeno lei deve sapere. Lei avrà da me solo un rapporto dettagliato, a voce, su tutto.
Io credo che stiamo perdendo tempo, non crede? disse Carmen, irrigidendosi.
Ne convengo, rispose lui sorridendole.
Allora arrivederci.
Arrivederci e buona fortuna signorina.

Carmen gli porse la mano, sorridente come quando era arrivata: era convinta che non lo avrebbe più rivisto. Lo credeva anche lui.

La campagna elettorale venne inaugurata da un faccia a faccia tra i due candidati, organizzato dall'associazione commercianti: Carmen da un lato e il cabarettista dall'altro, tal Gianfranco Carli.
E Carmen fu triturata.
Parlando di anziani e di case di riposo lui aveva fatto una battuta sul sesso fra i nonnetti, neanche di pessimo gusto, Cosa credete, questi a novant'anni ci danno ancora dentro.
Avevano riso tutti, compresi i pochi sostenitori di Carmen che, urtata e scocciata, gli aveva risposto, Se vuole dare spettacolo le ricordo che qui stiamo parlando di gente, di gente vera.
Senta, io sono buono, ma certe cose non le accetto, cocca bella.
Si era alzato in piedi, fissandola serio e adirato, il candidato di centrodestra. Carmen c'era cascata: aveva abboccato a una provocazione probabilmente studiata a tavolino.
Arrivò la stoccata.
Mi scuso per il cocca bella, sono stato inelegante, me lei deve sapere, signora o signorina Severi, che io, ridendo di tutto e su tutto, ho superato un cancro, continuando a essere me stesso, non so se mi sono spiegato. Certe prediche le faccia ad altri ma non a me.
Serio, ma non più adirato, poteva godersi il lungo applauso dei suoi fan e l'imbarazzo di Carmen, che avrebbe voluto sprofondare: rossa in viso, sconfitta, cercò conforto tra i suoi. Li vide imbarazzati, vogliosi di tornare a casa. L'unico dispiaciuto era il professor Matteo Rolandi, triste, in seconda fila. Tutti gli altri, sebbene mancassero due mesi abbondanti alle elezioni, erano già rassegnati a perdere. Subito, al primo turno.

Dopo l'incontro con Carmen, cliente "ai confini della realtà" - così lui la definì a Lucia, che non parve gradire quella battuta - arrivarono alcune proposte. Aspettò, prese tempo, tentennò. Sperava in un lavoro "adrenalinico". Dal lontano 1993, anno in cui era entrata in vigore l'elezione diretta del sindaco a doppio turno per le città con più di quindicimila abitanti, in un capoluogo di regione lui non aveva mai lavorato. Mancava alla sua collezione.
Sperare che arrivasse una proposta così, però, significava perdere tempo, clienti e soldi. Il politico che ti contatta vuole una risposta immediata. Un sì, per definire subito le strategie. Un no per affidarsi ad altre mani esperte.
A Lucia, era lei che aveva la mali con l'indirizzo noto a pochi e il numero del telefonino riservato ai clienti, arrivarono delle proposte. Da tre aspiranti sindaci che lui, va a sapere perché, bocciò. Li liquidò dicendo che due ce l'avrebbero fatta anche senza di lui: Cosa vogliono, trionfare con il settanta per cento? e che il terzo invece avrebbe fatto bene a ritirarsi.
Ma che gli sta succedendo? si domandò Lucia. In passato sembrava quasi in preda all'orgasmo quando puntava e s'impuntava su un candidato debole. Uno che magari i sondaggi davano lontano da una possibile vittoria.
Certo, prima lui valutava. E scartava gli improponibili che, del resto, solo raramente bussavano alla sua porta.
Comunque, pensava Lucia, non sei infallibile perché una volta, una, hai sbagliato. Rifiutando di lavorare per un candidato sindaco gay, che poi era stato eletto lo stesso, forse con l'apporto di un altro consulente. E Lucia, che aveva cercato di convincerlo ad accettare, si era sentita rispondere, con un tono quasi infastidito, Non ce la può fare, lo voteranno solo le checche.
Questa volta era peggio: lui non parlava nemmeno, se ne stava lì, immobile, con le mani in tasca, gli occhi fissi a guardarsi i piedi, stranamente e insolitamente appoggiati sulla scrivania. Lucia ebbe paura, Che si stia stancando di questo lavoro? pensò.
Inoltre avrebbe voluto riaffrontare il problema di Carmen, ma non era il momento. In pane Lucia si rassicurò quando lui, d'improvviso, uscì dallo stato comatoso e disse: Sai che penso? che ci cercheranno dopo il primo turno, ci faranno lavorare come pazzi per due settimane prima del ballottaggio, è già successo del resto, ricordi?
Era successo: grazie a lui un candidato che al primo turno aveva ottenuto solo il trentanove per cento dei voti, al ballottaggio era stato eletto con un miracoloso cinquantadue virgola qualcosa. A lui e alla sua squadra erano bastati dieci giorni di lavoro intenso.

Lucia, sono un artista del ballottaggio, dovresti saperlo. Se un giorno dovessimo tornare al vecchio sistema, o si passa al voto secco in un turno solo, io chiudo la baracca e tu fai domanda di cassa integrazione.
Anche a lui era tornato in mente il candidato gay.
Lucia non sapeva, e non doveva sapere, il perché di quel rifiuto: un'attenzione usata nei confronti del suo primo, fidato collaboratore, l'ex questore Rosario De Rita, il cui orgoglio di galantuomo siciliano era ferito da un segreto, tenuto sotto controllo, così da evitare che desse scandalo: un figlio, unico per di più, perdutamente omosessuale.
Il ballottaggio, lo scontro fra due candidati, era un po' la sua droga.

Due candidati. Uno contro l'altro, come due pugili sul ring. Vince il più scaltro, sono ammessi colpi proibiti. Vince il più intelligente.
In mezzo ai due candidati c'è il caos: galoppini, portaborse, servi.

E poi consulenti-esperti di tutto, di come farsi fotografare, di cosa dire, di che colore la cravatta, dello slogan da coniare; e di sondaggi, di previsioni. Oppure ci sono investigatori, o spioni. A volte, più spesso di quanto si immagini, ci sono anche delinquenti, organizzazioni criminali; tutti questi personaggi lavorano nell'ombra, i politici e gli esperti invece, tra un sondaggio e una previsione, una previsione e un altro sondaggio, cercano di capire come vive e cosa pensa la gente: poi, finito il can can, dopo il voto, arrivederci e grazie.
Dietro ogni candidato c'è una strategia e uno stratega.
Se accanto allo stratega ce ne sono altri è un suicidio: perché fanno confusione, si annullano, litigano. E poi c'è il popolo elettore.
Che sceglierà uno dei due.
Per uno dei due lavora lui, lo scommettitore.
E lo stratega, la mente del suo candidato.
Il resto è contorno.
Solo lui, con la sua intelligenza, si spaccherà la testa per prevedere, contrastare, annientare le mosse dell'altro, giorno e notte, sempre, fino a quando la gente non andrà a votare e mentre sta ancora votando: nell'ultimo giorno e nelle ultime ore c'è ancora tempo per un colpo basso, e soprattutto per parare quelli altrui. E poi si aspetta, si aspetta lo spoglio dei voti.
Al momento della proclamazione del vincitore il suo candidato è al centro del ring. Pronto per alzare le braccia al cielo,
Ho vinto, ho vinto.
Lui a quel punto di solito è in albergo a fare le valigie.
Poi la stessa notte, mentre guida da solo in autostrada, guarda di tanto in tanto il cielo, sentendosi ancora una volta il più bravo...
Ma forse a quella droga lui si era un po' assuefatto.

(Brano tratto dal romanzo Lo scommettitore, Fernandel editrice, Ravenna, 2006.)

Remo Bassini è nato nel 1956 a Cortona (AR). È direttore del periodico "La Sesia" di Vercelli. Ha pubblicato i romanzi Il quaderno delle voci rubate (La Sesia, 2002) e Dicono di Clelia (Mursiam 2006)