L'ITALIA CATTIVA
Giuseppe D'avanzo
L'Italia appare ad Adriano Sofri incattivita. Il
Paese si guarda in cagnesco; ha sempre la bava alla bocca; è prigioniera di
"una lotta politica recitata come una parodia dell'eterna guerra
civile". Naturalmente Sofri non crede - al quadretto "artefatto,
edulcorato" degli "Italiani, brava gente"; e tuttavia la
violenza dell'oggi lo intimorisce. Ne è come stupefatto.
Lo chiamo al telefono e mi dice che a farglielo pensare non è tanto (o non
solo) quel che vede nel dibattito politico-parlamentare o quel che legge del
discorso pubblico (e già basterebbe), ma soprattutto quel che osserva nel mare
magnum della blogosfera, dove i sentimenti, le opinioni sono meno controllate,
meno mediate, diciamo più nude e autentiche. Odio, vi scorge, un odio cieco e
ottuso. Un'inimicizia assoluta e irreparabile, un'invidia, un rancore che Sofri
avverte come orizzonte nuovo, condizione inedita in Italia per la sua forma,
diffusione, distruttività, urgenza.
Anche se so che la sua è soprattutto una provocazione, sono stupito dello
stupore di Sofri perché egli non appartiene alla famiglia dei
"buonisti" di casa nostra che, si sa, dietro la predicazione
nascondono intolleranza; nichilismo; un amore incondizionato per il calduccio
che assicura loro l'ordine costituito.
L'Italia è stata sempre cattiva, cattivissima, feroce. Non è vero (non mi pare
vero) che "la deformazione del volto umano dell'Italia", come diceva
Aldo Moro, faccia data dal maggio del 1978. Magari. La cattiveria e l'odio
reciproco sono stati e sono la nostra, più vitale e antica linfa. Quasi il
nostro tratto originario, così primigenio da precipitare finanche nel senso
comune.
A Napoli l'invincibilità del risentimento italico ha addirittura una sua
storiellina molto popolare. Uno straccione viene chiamato a Palazzo Reale e si
vede offrire dal Re Borbone qualsiasi cosa desideri a condizione che un altro
straccione, suo acerrimo nemico, ottenga il doppio. Il lazzaro fortunato ci
pensa su, ci ripensa e poi, con un sorriso compiaciuto, sbotta contento:
"Maestà, fatemi cieco a un occhio!".
Se non si vuole credere alle storielle, si può credere alla storia. Scienza
politica e storiografia definiscono cleavages le fratture strutturali di un
Paese. Ogni Paese ha le sue, il guaio è - dicono gli storici - che le nostre
sono fitte come la tela di un ragno molto laborioso. Il Nord contro il Sud;
l'Italia laica contro l'Italia clericale; l'Italia industriale versus quella
agricola e via dicendo.
La divisività - non è una scoperta - è il nostro più autentico paradigma
culturale, il canone interpretativo di lungo periodo e la rappresentazione
mentale di noi stessi, a qualsiasi pagina si voglia aprire il libro della
storia comune. Se si escludono i Balcani, non c'è stato altro spazio europeo
che abbia avuto una sequenza secolare così ininterrotta e feroce di conflitti e
divisioni interne. Qualsiasi potere straniero abbia avuto voglia di mettere
tenda dalle nostre parti ha potuto farlo con l'appoggio di alleati
"interni". Le sole creazioni originali di istituzioni politiche
partorite dal genio italico - il Comune, la Signoria, che poi erano null'altro
che la risposta a quella catastrofe geopolitica - hanno vissuto di guerre,
tradimenti, stragi, saccheggi, incendi, "veneziani contro ravennati, veronesi
e vicentini contro padovani e trevigiani, pisani e fiorentini contro lucchesi e
senesi...". L'unità del Paese è stata vissuta, dai piemontesi, come
colonizzazione ("Questa è Affrica: i beduini a riscontro di questi
caffoni, sono fior di virtù civile") e, dai regnicoli, come ladrocinio. La
Repubblica nasce addirittura da una guerra civile e la democrazia italiana a
lungo nel dopoguerra vive, e anche prospera, sempre incapace di condividere un
sentimento di cittadinanza, un accettato e "interiorizzato" quadro di
valori, sempre scissa nelle "appartenenze separate" dell'ideologia.
Non può sorprendere dunque la cattiveria dell'Italia di oggi. È - più o meno -
quella di ieri, di avantieri, di cinque secoli fa. Stupisce - deve stupire -
che appaia come un destino o che lo sia. È qui che c'è il meglio della
provocazione di Sofri: indica la responsabilità dell'Italia incattivita
nell'incapacità della politica italiana a "mettere qualcosa in
comune". Perché quel cum appare ancora oggi in Italia come osceno, quasi
uno scandalo? Perché lo avvertiamo come un desiderio frustrato e irrealizzabile
o come un sopruso, un vincolo, un limite intollerabile? "Benché i muri
siano caduti..." dice Sofri, con malinconia.
Temo che Sofri sia prigioniero di un inganno che il tempo avrebbe dovuto
liquidare; di una sottovalutazione della "natura" della politica
italiana; dell'ipervalutazione delle capacità della politica italiana di
"modernizzare" i suoi tratti distintivi. La faccio breve.
Inganno. Era soltanto un'illusione che fossero "i grandi conglomerati
tirannici" a produrre guerra, infelicità, inimicizia, aggressività. Con
molta colpa abbiamo pensato che, una volta dissolti i totalitarismi, avremmo
potuto inaugurare un'epoca di pace e di reciproca comprensione. È sotto gli
occhi di tutti che non è così. Caduti i muri, si è affacciata alla scena
"una specie umana del tutto nuova", l'homo democraticus.
Massimo Cacciari, una decina di anni fa, lo tratteggiò così. Intollerante di
ogni dipendenza, estraneo ad ogni foedus, gelosissimo della propria
individualità, dogmaticamente certo della "naturale bontà" dei propri
appetiti (come la "scienza" economica gli conferma), egli è però
anche incapace di vera solitudine; è fragile; è impaurito; è bisognoso di protezione.
Non appena i suoi "diritti" gli appaiono minacciati, si trasforma in
massa. La sua pretesa assoluta di "libertà" - la volontà di
trasformare il proprio particolare interesse in universale - provoca per
necessità l'organizzazione di quegli interessi in un percorso che è del tutto
indifferente alla forma del regime politico.
L'apparire dell'homo democraticus fa piazza pulita di ogni contrapposizione tra
individuo e società. La società, i suoi valori, la sua stessa necessità, le
forme politiche in cui è organizzata, in cui l'hanno organizzata i partiti e la
organizzano la politica, semplicemente evapora. Non esiste più. Quali valori o
collanti possono tenere insieme quel mondo di singolarità assolute? Il cum, il
"mettere qualcosa in comune" è allora l'autentica questione prioritaria
di ogni progetto politico. Ricostruirlo, ripensare in modo realistico e
disincantato alle forme politiche possibili dinanzi all'energia inarrestabile
(e terrificante) dell'homo democraticus dovrebbe essere la sfida politica più
responsabile e moderna.
Ma la politica italiana? Rimuove semplicemente il problema. Anzi, lo accentua,
lo esaspera, lo enfatizza ritrovando una sua antica tradizione, la sua radice
più profonda. Mai il "vivere politico" in Italia, come auspicava
Machiavelli, è stato la fine della separatezza individuale, l'ingresso degli
individui nella sfera pubblica, la partecipazione responsabile alla vita
collettiva, la definizione di un interesse collettivo. La politica italiana è
stata sempre, esclusivamente, fazione e oligarchia. Quindi, esercizio
d'autorità; governo (e appropriazione) delle risorse pubbliche; palude di
consorterie. L'avvento dell'homo democraticus, la sua aggressività ne legittima
tutti i difetti, ne esalta la negatività e la violenza. Il peggio che può
capitarti in Italia è farti sorprendere non protetto da un sistema di
relazioni, estraneo a una forma organizzata di interessi, isolato e senza
famiglia. Può capitarti come a Piergiorgio Welby, straniero alle grandi chiese
e alle consorterie e accompagnato soltanto dalla pattuglia dei radicali, di non
aver diritto nemmeno a un degno funerale. L'Italia non è incattivita. È come è
sempre stata.
Profondamente naturale, avrebbe detto Ennio Flaiano, e gli animali assalgono il
più debole, i vecchi, gli isolati, quelli che non hanno la forza per difendersi
o non l'hanno mai avuta. Toccherebbe alla politica "civilizzarla", ma
la nostra mediocre politica, inconsapevole anche del male che incarna e
dell'arretratezza che rappresenta, è parte del problema. Non è purtroppo la soluzione.
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(Articolo apparso su La Repubblica,
il 15 aprile 2007)