JAWOHL, IL SÌ DEGLI SCHIAVI
Primo Levi
22 gennaio: Le
nostre patate sono finite. Da giorni circolava per le baracche la voce che un
enorme deposito sotterraneo di patate fosse nascosto
da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo; ora qualche
pioniere ignorato deve averlo rintracciato. (Passi, rumore di pale e di
carriole al vento). Un tratto del recinto di filo spinato è stato abbattuto a
colpi di pala, e una doppia processione di miserabili esce ed entra dalla apertura. (...)
Narratore: Ed anche la fame stava per finire: il deposito di
patate era enorme, ce n’era per tutti… Nessuno
sarebbe più morto di fame (pausa).
25 gennaio: Nessuno sarebbe più morto di fame: ma la morte
continuava a mietere. La
debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece
si ammalavano di polmonite e di dissenteria. Non c’erano medici né medicine: i
malati e gli esauriti, che non erano in grado di muoversi, giacevano torpidi
nelle loro cuccette, paralizzati dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando
morivano. Per la prima volta la morte è entrata nella nostra camera. È stata la
volta di Somogyi: un ungherese di cinquant’anni, alto, magro e taciturno. Era
ammalato insieme di tifo e di scarlattina. Da forse cinque giorni non parlava.
Ha aperto bocca oggi, e ha detto con voce ferma:
Somogyi:Ho una
razione di pane sotto il saccone. Dividete voi tre. Io mangerò mai più.
Narratore: Non
abbiamo trovato nulla da rispondergli, ma non abbiamo toccato il pane. Finché ha avuto coscienza è rimasto chiuso in un silenzio
aspro. Ma la sera e per tutta la notte, e per due
giorni senza interruzione, il suo silenzio è stato sciolto dal delirio.
Somogyi:
Jawohl..., Jawohl..., Jawohl...
Narratore: Jawohl, il Sì degli schiavi, la parola dell’obbedienza
e della remissione. La sua
voce è sommessa, è estenuata, eppure sembra che passi le
pareti del tetto, che gridi al cielo. Seguendo un ultimo interminabile sogno di
schiavitù, Somogyi ha continuato a dire Jawohl finché ha avuto fiato: regolare
e costante come una macchina, Jawohl ad ogni tensione di respiro, ad ogni
abbassamento della povera rastrelliera delle costole. Jawohl,
migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di svegliarlo, di
soffocarlo. Non ho mai capito come allora quanto sia
laboriosa la morte di un uomo. (Silenzio per qualche secondo, si sente soltanto
il Jawohl di Somogyi) Fuori adesso c’è un grande
silenzio. La pianura intorno al campo è deserta e rigida, bianca a perdita
d’occhio, mortalmente triste. Il numero dei corvi è molto aumentato e tutti
sanno perché
26 gennaio:
Siamo soli, abbandonati in un universo di morti e di larve. L’ultima traccia di
civiltà è sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione
intrapresa dai tedeschi trionfanti, è stata portata a compimento dai tedeschi
disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi commette o subisce ingiustizia: non è
uomo chi ha perso ogni ritegno, e divide il suo letto con un cadavere. Chi ha
atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane,
può essere innocente, ma è segnato, è condannato, è maledetto. È più lontano
dal modello dell’uomo pensante, che un sadico atroce e rozzo pigmeo. (Silenzio,
si sente adesso in primo piano il Jawohl di Somogyi. È
morente e la sua voce è un rantolo) Erano questi i nostri pensieri, alla
vigilia della libertà. Soltanto Somogyi si accaniva a confermare alla morte la
sua dedizione. (…) Mi sono svegliato di soprassalto: Somogyi taceva, aveva
finito. Con l’ultimo sussulto di vita si è gettato a terra dalla cuccetta: ho
udito l’urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del corpo.
27 gennaio:
L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra stecchite,
la cosa Somogyi. Non possiamo portarlo via. Ci sono lavori più urgenti,
non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e
mangiato. I vivi sono più esigenti. I morti possono aspettare. Ci siamo messi
al lavoro come tutti i giorni. Abbiamo preparato la zuppa, abbiamo rifatto i
letti dei malati, poi ci siamo accinti a quell’altro triste lavoro. (Rumore di
stoviglie ecc. Poi si sente un mormorio crescente, lontano e poi vicino che si
muta infine in grida di gioia e acclamazioni) I russi sono arrivati mentre
Charles e io portavamo Somogyi poco lontano. Lo
abbiamo caricato su di una barella: era spaventosamente leggero. Abbiamo
rovesciato la barella sulla neve grigia mentre sulla strada passavano le
avanguardie russe a cavallo. (...)
Narratore:
Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. A me dispiacque di
non avere il berretto.
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(Testo inedito di Primo Levi pubblicato su La Repubblica on-line del 10 aprile 2007)