– Brano tratto dal romanzo La vita agra –
(...) Chi
abbandona il giardino degli animali, dalla parte dove sono i recinti della
capra nana, del llama, delle zebre, o le gabbie dei rapaci, fermi a pollaio con
un'aria triste e contrita e umiliata da non far paura a nessuno, uscito da quel
poco verde odoroso di bestia, deve subito badare bene a dove mette i piedi,
sulla fettuccia di marciapiede minacciata dallo straripare del traffico e
dalle gomitate di chi passa – contribuenti, per la più parte, perché lì dinanzi
sorge il palazzaccio sporco delle tasse.
Raro perciò
che si avveda del torracchione irto in cima di parafulmini, antenne, radar.
Solo a tratti, quando fa specchio il sole su quel lucido, ti accade di levare
gli occhi verso il torracchione di vetro e d'alluminio, di vedere una strada
privata ingombra di auto in sosta, stranamente tacita in quel quartiere
centrale, di girare attorno all'isolato, scoprendo un'intera cittadella – tre o
quattro torracchioni simili, di vetro, di alluminio, di pietra lustrata.
Di solito
non ci badi anche perché i palazzi attorno gli vogliono assomigliare e giù
verso la stazione altri nuovi e maestosi ne sono sorti, sì che ormai in quel
punto la città è tutta un blocco militaresco, coi suoi ponti levatoi, le sue
muraglie imprendibili, i suoi camminamenti coperti, le sue aeree bertesche.
Ma
l'esempio, ripeto, l'hanno dato i quattro torracchioni della nostra
cittadella. Prima doveva essere diversa, forse somigliava di più al palazzo bugnato
col piano nobile e i balconi lunghi sulla facciata. Credo che stiano ancora lì
i cervelli, lo stato maggiore, e non dietro i finestroni dove compaiono a
tratti visi pallidi di contabili chini sul fatturato, o stirate ragazzette con
le dita sulla tastiera, o tecnici occhialuti, vestiti come farmacisti, al
tavolo inclinato dei disegni.
No, i
cervelli devono stare lì – nelle sale alte del palazzo bugnato, le finestre
basse a pianterreno coll'inferriata a ghirigori, e allo stipite del portone un
triplice occhio di vetro. Uno che entri di qui viene per virtù elettronica
segnalato, pesato e perquisito, e di sopra si accendono tanti lumini colorati,
e di te sanno subito tutto: chi sei, cosa hai in tasca, con quali intenzioni
arrivi. Me, naturalmente, non mi hanno mai fatto entrare, occhio elettronico a
parte. Sapevano già da tempo – né io facevo nulla per nasconderlo – quale fosse
la mia missione.
Il segno è
lì sulle porte, la piccozza e l'alambicco. Anzi c'era, perché una notte di
nascosto l'hanno levato, e al suo posto ora c'è uno scarabocchio. Ma io lo
ricordo. Lo ricordo al bavero della divisa nera delle guardie giurate, quasi
tutte ex-carabinieri e secondini di Portolongone allontanati dal corpo per
eccesso di rigore, bluastri in faccia e con gli occhi cattivi. E il nome è d'un
paesino della val di Cecina, che pochi hanno visto, e infatti molti
preferiscono credere che il paese sia l'altro, l'omonimo, il famoso, dove da
almeno un secolo i benestanti vanno a purgarsi.
Il paesino
della val di Cecina aveva nel 1888 una miniera di rame oggi abbandonata, una miniera
piccola e primitiva, coi picconieri e i bolgiatori forse, senza laveria né
processo di arricchimento per separazione idrostatica, questo è certo, ferma
agli ordinamenti dell'Imperial Regia Magona. Non sul rame però è costruita la
cittadella lucida che ha per segno la piccozza e l'alambicco.
No, la
piccozza scavò giusto soltanto quando ebbe trovato il bisolfuro di ferro
cristallizzante in dodecaedri regolari; e l'alambicco distillò giusto quando
Michele Perret ebbe scoperto il processo delle camere di piombo. Il bisolfuro di
ferro va frantumato nella misura di due tre millimetri, diventa cioè una sabbia
granulosa e verdastra, che arrostisce ed esala gas solforosi, avviati verso le
camere di piombo dove, a contatto con l'acqua e con la nitrosa, gocciola giù
acido solforico. Più ne gocciola e meglio è, anche per la nazione, perché il
grado di civiltà di una nazione, dice l'ufficio stampa, si misura dalla sua
capacità di produrre e consumare l'acido solforico.
Un milione
di tonnellate ne tirarono fuori, i bolgiatori e i picconieri delle mie parti,
l'anno che scoppiò la seconda guerra mondiale. E con la guerra, chiusi i
mercati del carbone centroeuropeo e americano, veniva buona anche la lignite –
ben cinquemila calorie, la migliore d'Italia – che scavano nella piana sotto
Montemassi.
Non so se
avete in mente l'affresco che dipinse Simone Martini al palazzo comunale di
Siena, quello dove Guidoriccio da Fogliano, col suo cavallo bardato a losanghe
nere e gialle, va all'assedio di Montemassi. Ecco, proprio dove nell'affresco
sta Guido, ora c'è il villaggio degli operai, un grappolo di casupole e di
camerotti sparsi in disordine, senza tracciato vero e proprio di strade,
secondo le ondulazioni della breve piana interrotta dai cumuli dello sterile,
dagli alti tralicci dei pozzi, dagli sterrati ingombri di materiale, travi di
armatura, caviglie, panchini, bozze di cemento.
Sterile e
fumo hanno bruciato il verde della campagna, sporcato le costruzioni – non
risparmiando nemmeno gli uffici e la direzione – e tutto sembra sudicio e vecchio.
Il terreno qua e là ha ceduto e certe case stanno in piedi per forza di cavi,
altrimenti si sfascerebbero come se fossero di cartone. Ma ricordo che le
famiglie ci resistevano, a forza di cambialette s'erano comprata la cucina
economica e la radio, i giovani s'erano fatta la moto e la domenica andavano a
Follonica per i bagni.
Subito dopo
la guerra ci lavoravano tremilacinquecento operai, tra quelli del villaggio –
gli scapoli ai camerotti, venuti da lontano, anche dalla Sicilia, dalla
Sardegna, uno addirittura, Galletti Paolo, dalla Pennsylvania – e gli altri con
l'autobus della società scendevano ogni otto ore, secondo le gite, da
Montemassi, da Tatti, da Roccastrada.
Avevano
messo su un bel circolo, e alle feste da ballo del sabato venivano giovanotti
anche dal capoluogo, la sezione del partito era sempre la prima nelle
sottoscrizioni per il mese della stampa, e per il sessantesimo (c'era il culto
della personalità, allora, ma nessuno ci faceva caso e anzi nemmeno lo chiamavano
così); e la squadra di calcio stava per salire in serie C, perché potevano
permettersi di comprare qualche riserva del Pisa e del Livorno, e di affidare
i colori locali a un ragazzo in gamba come Goracci Enzo, mio compagno di scuola
in quinta elementare.
Il guaio fu
quando riaprirono i mercati dell'Europa centrale e di America, perché contro
l'antracite polacca o statunitense (nemmeno scavata, quest'ultima: veniva via
come niente, in superficie, sotto i denti delle draghe, fino a sette tonnellate
uomo-giorno) cosa poteva fare la lignite – cinquemila calorie appena – delle
parti nostre? E così cominciarono a buttarli fuori a centinaia per volta.
Certo, loro
non stavano a guardare: uno sciopero di protesta laggiù durava anche cinque
mesi e se mandavano la polizia, spesso se la vedevano ritornare a casa
malconcia, le gomme delle jeep squarciate e i celerotti pesti e ammaccati.
Dalla sede centrale – appunto la cittadella coi torracchioni lucidi – mandarono
l'uomo delle accaerre, un tipo grosso e cupo, coi baffi e la moglie schizzinosa
e scontenta, di vedersi sbattere dalla mattina alla sera in un posto così,
senza nemmeno un cinematografo frequentabile e per compagnia le mogli dei
capiservizio.
Promozione,
diceva il marito, ma non ci credeva nemmeno lui, perché restando su al
torracchione di vetro e alluminio, chissà quanti altri convegni avrebbe fatto,
a Bordighera, Stresa, Riccione, e conosciuto tanta gente utile, tanti tecnici
del suo ramo, persino americani. Quaggiù invece... Chissà chi era stato a
fargli le scarpe. Ma lui non si dava per vinto e rispondeva “Vedrai” quando la
moglie insisteva che tutto sommato era stato un bel fesso, a lasciarsi bidonare
in quel modo.
Intanto
organizzò il circolo culturale per gli impiegati e i tecnici, e per dare il
buon esempio fece una conferenza egli stesso, su Garcia Lorca, e proiettò
documentari dell'Usis sulle umane relazioni in Nordamerica. E non stava dietro
la scrivania, lui: batteva la zona in macchina e in motocicletta, giocava a
tennis con gli impiegati, trattava gli operai alla maniera loro.
“Se a
qualcuno non gli va bene, esca, e facciamo a cazzotti” diceva togliendosi la
giacca. “C'è nessuno che se la sente, di farsi una bella scazzottata?”
Intanto
però il direttore urgeva: umane relazioni o no, dalla sede centrale mandavano
a dire ogni mese che la miniera costava troppo, facevano i conti lassù, e
trecentocinquanta tonnellate uomo-giorno rappresentavano una perdita pura.
Raddoppiasse la produzione, subito, almeno settecento tonnellate per
quest'anno, oppure cominciasse a cercarsi un altro posto.
Così quel
baffone delle umane relazioni doveva ficcarselo bene in testa, che qui non era
storia di rapporti fra uomo e uomo, fra operaio e dirigente e ditta, ma fra
uomo, giorno e tonnellata. Lasciasse perdere Garcia Lorca e i documentari
dell'Usis e il prete di fabbrica (che oltre tutto era una spesa, perché si
beccava, don Coso, il suo bravo premio di produzione, senza produrre una
madonna) e cercasse semmai di far capire a questa gente che la direzione non
ce l'aveva con loro personalmente – a parte il fatto dell'iscrizione al
partito, motivo di per sé sufficiente a sbatterli fuori tutti – ma d'altra
parte non poteva tollerare che lì, sotto Montemassi, si continuasse a tirar
fuori, con tremilacinquecento operai, appena duecentoquarantamila tonnellate
all'anno, e di lignite, poi.
Fin troppo
comoda la vita di tutti quanti, sinora, con gli avanzamenti a giro d'aria
completo, e la coltivazione per fette orizzontali, prese in ordine discendente,
con ripiena completa. Diceva proprio così, l'ingegner Garbella, con quella
circolare del trentanove. Ma cosa doveva diventare, secondo lui, la miniera di
lignite, un salotto?
La ripiena,
continuava l'ingegnere, sarà esclusivamente costituita da materia proveniente
dall'esterno, o da lavori nello sterile, esente per quanto èpossibile da
sostanze carboniose, e dovrà essere messa in sito a strati successivi ben
annaffiati e ben calzati sino al cielo dei cantieri. Sì, bravo l'ingegner
Garbella. Ma che cosa si era messo in testa? Stava parlando di una miniera o di
un vaso da fiori?
Per fortuna
adesso al distretto minerario non c'era più lui a dettar legge, e con
l'ispettore nuovo ci si poteva mettere d'accordo. Era tempo, di finirla, con
tutti quei lavativi a scarriolare terriccio fino alla bocca dei pozzi. Quando
l'avanzamento ha esaurito un filone, che bisogno c'è di fare la ripiena? E
tutto tempo perso, tutta gente che mangia a ufo. Si disarma, si recupera il
legname, e poi il tetto frani pure. E non c'è nemmeno bisogno di tracciare gli
avanzamenti a giro d'aria. Si può anche scavare a fondo cieco, basta un
ventilatore che ci forzi l'aria dentro, no? Certo, la temperatura così aumenta,
a volte supera i quaranta gradi, ma si può rimediare, con una tubatura che
goccioli acqua davanti alla ventola.
Sì,
obbiettava il medico di fabbrica, la temperatura in questo modo scema, ma
aumenta l'umidità, e aumentano i casi di malattia a sfondo reumatico. Ma il
medico dopo tutto era un ragazzo – mio compagno di scuola al liceo,
figuriamoci – e si faceva presto a chetarlo. Caro il mio dottor Nardulli, cosa
si credeva lei? Che questa fosse una villeggiatura in Riviera? Che qui la gente
venga per curarsi i dolori? I travasi di bile che si prendeva il direttore, a
ogni circolare della sede centrale, se li curava forse, lui? Marcava visita? Si
metteva in mutua? No, qui bisognava far meno storie e aumentare il
tonnellaggio. E per favore, con le radiografie ci andasse piano, il dottorino.
Non erano tempi, non era aria da mettere in mutua per una sospetta silicosi o
per una diminuita capacità respiratoria del diciotto per cento. Cos'era questa
smania delle statistiche,
anche per i
polmoni della gente? Respiravano, no? E allora?
Allora, con
l'ispettore consenziente, misero ventiquattro cantieri su venticinque coltivati
ad avanzamento cieco e a franamento del tetto, realizzando in tal modo, diceva
la relazione, una normale concentrazione del personale. Rispetto al quarantasei,
produzione pressoché identica con un terzo degli operai di allora. Certo,
restava il grosso guaio della ventilazione imperfetta. Non occorreva che glielo
dicesse la commissione interna – questi altri lavativi – lo sapeva da sé il
direttore che il flusso d'aria non aveva andamento ascendente continuo, che due
rimonte, la venti e la ventidue, facevano scalino, erano almeno venti metri più
alte della galleria di livello, e lì l'aria stagnava.
Sapeva
anche (ma la commissione interna questo, per fortuna, lo ignorava) che a un
certo punto della 265 l'aria di afflusso si mescolava con quella di riflusso, e
il regolamento di polizia diceva, chiaro chiaro, che le vie destinate
all'entrata e all'uscita dell'aria debbono essere divise da sufficiente
spessezza di roccia tale da resistere all'esplosione. Altro che spessezza di
roccia! Lì non c'era nemmeno un foglio di carta. Fortuna che quelli non
l'avevano capito. Certo, si poteva rimediare: da anni erano sospesi i lavori
per l'apertura di una galleria nuova che garantisse la ventilazione di tutto il
settore. Ma con quelli che dalla sede centrale premevano, circolari su
circolari, a chiedere che non si sprecasse un uomo, una tonnellata, un giorno
lavorativo, cos'altro poteva fare, lui direttore, che mettere tutti alla
frusta, a tirar su lignite?
Non si
prendeva un giorno di vacanza: l'aspiratore nuovo, da sessanta cavalli, non
l'aveva forse fatto piazzare la mattina del primo maggio, che era unsabato,
profittando delle due giornate di festa consecutive, per dare tempo al cemento
di far presa? Gli operai facevano festa, ecco; era la festa dei lavoratori, e
lui – lavoratore come gli altri, o forse no? – l'aveva passata alla bocca del
pozzo nove bis, con l'ingegnere e i muratori. Non era mica andato a spassarsela
a Follonica o a sentire il comizio. Due giorni di festa per loro, due giorni di
bile per lui.
Ma la
mattina del tre la festa era finita, e allora sotto a levare lignite. Si erano
riposati abbastanza o no, questi pelandroni? Eppure il caposquadra aveva fatto
storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era
pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattr'ore, far tirare
l'aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di
non lavorare qualunque pretesto era buono.
L'aspiratore
nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla discenderia 32 – come se i fuochi non
ci fossero sempre, in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie,
disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere
i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo,
alle sette, la miniera esplose.
Rimasi
quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e
li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare.
Li portavano all'autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore
della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione,
poi, da parte della sede centrale. Alla sala del cinema, ora per ora, cresceva
la fila delle bare sotto il palcoscenico, ciascuna con sopra l'elmetto di
materia plastica, e in fondo le bandiere rosse. Venivano a vederli da tutte le
parti d'Italia, giornalisti con la camicia a scacchi, il berrettino e la
pipetta, critici d'arte, sindacalisti, monsignor vescovo, un paio di ministri
che però furono buttati fuori in malo modo.
Venne il
povero Di Vittorio a raccomandare la calma e la moderazione. Non venne la
celere e anche i carabinieri del servizio d'ordine si tennero accosto al
cancello della direzione. Ai funerali ci saranno state cinquantamila persone,
tutte in fila con le bandiere, le corone dei fiori, il vescovo con la mitra e
il pastorale. E quando le bare furono sotto terra, alla spicciolata se ne
andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante macchine sugli sterrati.
Io mi
ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò
impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.
Nella
bacheca al cancello stava scritto che alle famiglie delle vittime il ministero
offriva contribuzioni straordinarie e immediate varianti dalle 60 alle 100
mila lire, oltre il normale trattamento previdenziale previsto dall'Inail. La
direzione offriva assegni assistenziali di 500 mila lire e di un milione,
secondo i relativi carichi familiari. A conti fatti ci scapitava una ventina di
milioni. Ma in compenso poteva chiudere subito la miniera.
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(Brano tratto dal romanzo La vita agra, Rizzoli editori, Milano,
1962.)
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Luciano Bianciardi (1922-1971) ha lavorato nel campo editoriale e
giornalistico e tradotto importanti scrittori come Faulkner, Steinbeck, Miller
e Bellow. Di Bianciardi si ricordano il suo esordio letterario, l’inchiesta, in
collaborazione con Cassola, I minatori della Maremma (1955), Il
lavoro culturale (1957), Aprire il fuoco (1969), e i saggi Da
Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille (1960), e Daghela
avanti un passo (1964), oltre a Lìintegrazione, La battaglia soda
e La solita zuppa e altre storie.