I FUOCHI

 

– Brano tratto dal romanzo La vita agra

 

 

Luciano Bianciardi

 

 

 

(...) Chi abbandona il giardino degli animali, dalla parte dove sono i recinti della capra nana, del llama, delle zebre, o le gabbie dei rapaci, fermi a pollaio con un'aria triste e contrita e umiliata da non far paura a nessuno, uscito da quel poco verde odoroso di bestia, deve subito badare bene a dove mette i piedi, sulla fettuccia di marciapiede minac­ciata dallo straripare del traffico e dalle gomitate di chi passa – contribuenti, per la più parte, perché lì dinanzi sorge il palazzaccio sporco delle tasse.

Raro perciò che si avveda del torracchione irto in cima di parafulmini, antenne, radar. Solo a tratti, quando fa specchio il sole su quel lucido, ti accade di levare gli occhi verso il torracchione di vetro e d'alluminio, di vedere una strada privata ingombra di auto in sosta, stranamente tacita in quel quartiere centrale, di girare attorno all'isolato, scoprendo un'intera cittadella – tre o quattro tor­racchioni simili, di vetro, di alluminio, di pietra lustrata.

Di solito non ci badi anche perché i palazzi attorno gli vogliono assomigliare e giù verso la stazione altri nuovi e maestosi ne sono sorti, sì che ormai in quel punto la città è tutta un blocco milita­resco, coi suoi ponti levatoi, le sue muraglie im­prendibili, i suoi camminamenti coperti, le sue aeree bertesche.

Ma l'esempio, ripeto, l'hanno dato i quattro tor­racchioni della nostra cittadella. Prima doveva essere diversa, forse somigliava di più al palazzo bu­gnato col piano nobile e i balconi lunghi sulla fac­ciata. Credo che stiano ancora lì i cervelli, lo stato maggiore, e non dietro i finestroni dove compaiono a tratti visi pallidi di contabili chini sul fatturato, o stirate ragazzette con le dita sulla tastiera, o tecnici occhialuti, vestiti come farmacisti, al tavolo incli­nato dei disegni.

No, i cervelli devono stare lì – nelle sale alte del palazzo bugnato, le finestre basse a pianterreno coll'inferriata a ghirigori, e allo stipite del portone un triplice occhio di vetro. Uno che entri di qui viene per virtù elettronica segnalato, pesato e per­quisito, e di sopra si accendono tanti lumini colorati, e di te sanno subito tutto: chi sei, cosa hai in tasca, con quali intenzioni arrivi. Me, naturalmente, non mi hanno mai fatto entrare, occhio elettronico a parte. Sapevano già da tempo – né io facevo nulla per nasconderlo – quale fosse la mia missione.

Il segno è lì sulle porte, la piccozza e l'alam­bicco. Anzi c'era, perché una notte di nascosto l'hanno levato, e al suo posto ora c'è uno scaraboc­chio. Ma io lo ricordo. Lo ricordo al bavero della divisa nera delle guardie giurate, quasi tutte ex-ca­rabinieri e secondini di Portolongone allontanati dal corpo per eccesso di rigore, bluastri in faccia e con gli occhi cattivi. E il nome è d'un paesino della val di Cecina, che pochi hanno visto, e infatti molti preferiscono credere che il paese sia l'altro, l'omo­nimo, il famoso, dove da almeno un secolo i benestanti vanno a purgarsi.

Il paesino della val di Cecina aveva nel 1888 una miniera di rame oggi abbandonata, una mi­niera piccola e primitiva, coi picconieri e i bolgiatori forse, senza laveria né processo di arricchi­mento per separazione idrostatica, questo è certo, ferma agli ordinamenti dell'Imperial Regia Ma­gona. Non sul rame però è costruita la cittadella lucida che ha per segno la piccozza e l'alambicco.

No, la piccozza scavò giusto soltanto quando ebbe trovato il bisolfuro di ferro cristallizzante in dodecaedri regolari; e l'alambicco distillò giusto quando Michele Perret ebbe scoperto il processo delle camere di piombo. Il bisolfuro di ferro va frantumato nella misura di due tre millimetri, diventa cioè una sabbia granulosa e verdastra, che arrostisce ed esala gas solforosi, avviati verso le camere di piombo dove, a contatto con l'acqua e con la nitrosa, gocciola giù acido solforico. Più ne goc­ciola e meglio è, anche per la nazione, perché il grado di civiltà di una nazione, dice l'ufficio stampa, si misura dalla sua capacità di produrre e consumare l'acido solforico.

Un milione di tonnellate ne tirarono fuori, i bolgiatori e i picconieri delle mie parti, l'anno che scoppiò la seconda guerra mondiale. E con la guer­ra, chiusi i mercati del carbone centroeuropeo e americano, veniva buona anche la lignite – ben cin­quemila calorie, la migliore d'Italia – che scavano nella piana sotto Montemassi.

Non so se avete in mente l'affresco che dipinse Simone Martini al palazzo comunale di Siena, quello dove Guidoriccio da Fogliano, col suo cavallo bardato a losanghe nere e gialle, va all'assedio di Montemassi. Ecco, proprio dove nell'affresco sta Guido, ora c'è il villaggio degli operai, un grappolo di casupole e di camerotti sparsi in disordine, senza tracciato vero e proprio di strade, secondo le ondu­lazioni della breve piana interrotta dai cumuli dello sterile, dagli alti tralicci dei pozzi, dagli sterrati in­gombri di materiale, travi di armatura, caviglie, panchini, bozze di cemento.

Sterile e fumo hanno bruciato il verde della campagna, sporcato le costruzioni – non risparmiando nemmeno gli uffici e la direzione – e tutto sembra sudicio e vecchio. Il terreno qua e là ha ceduto e certe case stanno in piedi per forza di cavi, altrimenti si sfascerebbero come se fossero di cartone. Ma ricordo che le famiglie ci resistevano, a forza di cambialette s'erano comprata la cucina economica e la radio, i giovani s'erano fatta la moto e la domenica andavano a Follonica per i bagni.

Subito dopo la guerra ci lavoravano tremilacin­quecento operai, tra quelli del villaggio – gli scapoli ai camerotti, venuti da lontano, anche dalla Sicilia, dalla Sardegna, uno addirittura, Galletti Paolo, dalla Pennsylvania – e gli altri con l'autobus della so­cietà scendevano ogni otto ore, secondo le gite, da Montemassi, da Tatti, da Roccastrada.

Avevano messo su un bel circolo, e alle feste da ballo del sabato venivano giovanotti anche dal ca­poluogo, la sezione del partito era sempre la prima nelle sottoscrizioni per il mese della stampa, e per il sessantesimo (c'era il culto della personalità, allora, ma nessuno ci faceva caso e anzi nemmeno lo chia­mavano così); e la squadra di calcio stava per salire in serie C, perché potevano permettersi di com­prare qualche riserva del Pisa e del Livorno, e di affidare i colori locali a un ragazzo in gamba come Goracci Enzo, mio compagno di scuola in quinta elementare.

Il guaio fu quando riaprirono i mercati dell'Eu­ropa centrale e di America, perché contro l'antracite polacca o statunitense (nemmeno scavata, que­st'ultima: veniva via come niente, in superficie, sotto i denti delle draghe, fino a sette tonnellate uo­mo-giorno) cosa poteva fare la lignite – cinquemila calorie appena – delle parti nostre? E così comin­ciarono a buttarli fuori a centinaia per volta.

Certo, loro non stavano a guardare: uno sciopero di protesta laggiù durava anche cinque mesi e se mandavano la polizia, spesso se la vedevano ritornare a casa malconcia, le gomme delle jeep squarciate e i celerotti pesti e ammaccati. Dalla sede centrale – appunto la cittadella coi torracchioni lucidi – mandarono l'uomo delle accaerre, un tipo grosso e cupo, coi baffi e la moglie schizzi­nosa e scontenta, di vedersi sbattere dalla mattina alla sera in un posto così, senza nemmeno un cine­matografo frequentabile e per compagnia le mogli dei capiservizio.

Promozione, diceva il marito, ma non ci credeva nemmeno lui, perché restando su al torracchione di vetro e alluminio, chissà quanti altri convegni avrebbe fatto, a Bordighera, Stresa, Riccione, e co­nosciuto tanta gente utile, tanti tecnici del suo ramo, persino americani. Quaggiù invece... Chissà chi era stato a fargli le scarpe. Ma lui non si dava per vinto e rispondeva “Vedrai” quando la moglie insisteva che tutto sommato era stato un bel fesso, a lasciarsi bidonare in quel modo.

Intanto organizzò il circolo culturale per gli im­piegati e i tecnici, e per dare il buon esempio fece una conferenza egli stesso, su Garcia Lorca, e proiettò documentari dell'Usis sulle umane relazioni in Nordamerica. E non stava dietro la scrivania, lui: batteva la zona in macchina e in motocicletta, gio­cava a tennis con gli impiegati, trattava gli operai alla maniera loro.

“Se a qualcuno non gli va bene, esca, e facciamo a cazzotti” diceva togliendosi la giacca. “C'è nes­suno che se la sente, di farsi una bella scazzottata?”

Intanto però il direttore urgeva: umane relazio­ni o no, dalla sede centrale mandavano a dire ogni mese che la miniera costava troppo, facevano i conti lassù, e trecentocinquanta tonnellate uomo-gior­no rappresentavano una perdita pura. Raddoppias­se la produzione, subito, almeno settecento tonnel­late per quest'anno, oppure cominciasse a cercarsi un altro posto.

Così quel baffone delle umane relazioni doveva ficcarselo bene in testa, che qui non era storia di rapporti fra uomo e uomo, fra operaio e dirigente e ditta, ma fra uomo, giorno e tonnellata. Lasciasse perdere Garcia Lorca e i documentari dell'Usis e il prete di fabbrica (che oltre tutto era una spesa, perché si beccava, don Coso, il suo bravo premio di produzione, senza produrre una madonna) e cer­casse semmai di far capire a questa gente che la direzione non ce l'aveva con loro personalmente – a parte il fatto dell'iscrizione al partito, motivo di per sé sufficiente a sbatterli fuori tutti – ma d'altra parte non poteva tollerare che lì, sotto Montemassi, si continuasse a tirar fuori, con tremilacinquecento operai, appena duecentoquarantamila tonnellate all'anno, e di lignite, poi.

Fin troppo comoda la vita di tutti quanti, sinora, con gli avanzamenti a giro d'aria completo, e la coltivazione per fette orizzontali, prese in ordine discendente, con ripiena completa. Diceva proprio così, l'ingegner Garbella, con quella circolare del trentanove. Ma cosa doveva diventare, secondo lui, la miniera di lignite, un salotto?

La ripiena, continuava l'ingegnere, sarà esclusi­vamente costituita da materia proveniente dall'esterno, o da lavori nello sterile, esente per quanto èpossibile da sostanze carboniose, e dovrà essere messa in sito a strati successivi ben annaffiati e ben calzati sino al cielo dei cantieri. Sì, bravo l'ingegner Garbella. Ma che cosa si era messo in testa? Stava parlando di una miniera o di un vaso da fiori?

Per fortuna adesso al distretto minerario non c'era più lui a dettar legge, e con l'ispettore nuovo ci si poteva mettere d'accordo. Era tempo, di fi­nirla, con tutti quei lavativi a scarriolare terriccio fino alla bocca dei pozzi. Quando l'avanzamento ha esaurito un filone, che bisogno c'è di fare la ripiena? E tutto tempo perso, tutta gente che mangia a ufo. Si disarma, si recupera il legname, e poi il tetto frani pure. E non c'è nemmeno bisogno di tracciare gli avanzamenti a giro d'aria. Si può anche scavare a fondo cieco, basta un ventilatore che ci forzi l'aria dentro, no? Certo, la temperatura così aumenta, a volte supera i quaranta gradi, ma si può rimediare, con una tubatura che goccioli acqua davanti alla ventola.

Sì, obbiettava il medico di fabbrica, la temperatura in questo modo scema, ma aumenta l'umidità, e aumentano i casi di malattia a sfondo reumatico. Ma il medico dopo tutto era un ragazzo – mio com­pagno di scuola al liceo, figuriamoci – e si faceva presto a chetarlo. Caro il mio dottor Nardulli, cosa si credeva lei? Che questa fosse una villeggiatura in Riviera? Che qui la gente venga per curarsi i dolori? I travasi di bile che si prendeva il direttore, a ogni circolare della sede centrale, se li curava forse, lui? Marcava visita? Si metteva in mutua? No, qui biso­gnava far meno storie e aumentare il tonnellaggio. E per favore, con le radiografie ci andasse piano, il dottorino. Non erano tempi, non era aria da met­tere in mutua per una sospetta silicosi o per una diminuita capacità respiratoria del diciotto per cento. Cos'era questa smania delle statistiche,

anche per i polmoni della gente? Respiravano, no? E allora?

Allora, con l'ispettore consenziente, misero ventiquattro cantieri su venticinque coltivati ad avanzamento cieco e a franamento del tetto, realiz­zando in tal modo, diceva la relazione, una normale concentrazione del personale. Rispetto al quaran­tasei, produzione pressoché identica con un terzo degli operai di allora. Certo, restava il grosso guaio della ventilazione imperfetta. Non occorreva che glielo dicesse la commissione interna – questi altri lavativi – lo sapeva da sé il direttore che il flusso d'aria non aveva andamento ascendente continuo, che due rimonte, la venti e la ventidue, facevano scalino, erano almeno venti metri più alte della galleria di livello, e lì l'aria stagnava.

Sapeva anche (ma la commissione interna questo, per fortuna, lo ignorava) che a un certo punto della 265 l'aria di afflusso si mescolava con quella di riflusso, e il regolamento di polizia diceva, chiaro chiaro, che le vie destinate all'entrata e all'u­scita dell'aria debbono essere divise da sufficiente spessezza di roccia tale da resistere all'esplosione. Altro che spessezza di roccia! Lì non c'era nemmeno un foglio di carta. Fortuna che quelli non l'avevano capito. Certo, si poteva rimediare: da anni erano sospesi i lavori per l'apertura di una galleria nuova che garantisse la ventilazione di tutto il settore. Ma con quelli che dalla sede centrale pre­mevano, circolari su circolari, a chiedere che non si sprecasse un uomo, una tonnellata, un giorno lavo­rativo, cos'altro poteva fare, lui direttore, che met­tere tutti alla frusta, a tirar su lignite?

 

Non si prendeva un giorno di vacanza: l'aspiratore nuovo, da sessanta cavalli, non l'aveva forse fatto piazzare la mattina del primo maggio, che era unsabato, profittando delle due giornate di festa con­secutive, per dare tempo al cemento di far presa? Gli operai facevano festa, ecco; era la festa dei lavo­ratori, e lui – lavoratore come gli altri, o forse no? – l'aveva passata alla bocca del pozzo nove bis, con l'ingegnere e i muratori. Non era mica andato a spassarsela a Follonica o a sentire il comizio. Due giorni di festa per loro, due giorni di bile per lui.

Ma la mattina del tre la festa era finita, e allora sotto a levare lignite. Si erano riposati abbastanza o no, questi pelandroni? Eppure il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bi­sognava aspettare altre ventiquattr'ore, far tirare l'aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di non lavorare qua­lunque pretesto era buono.

L'aspiratore nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla discenderia 32 – come se i fuochi non ci fossero sempre, in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.

Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all'autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede cen­trale. Alla sala del cinema, ora per ora, cresceva la fila delle bare sotto il palcoscenico, ciascuna con sopra l'elmetto di materia plastica, e in fondo le bandiere rosse. Venivano a vederli da tutte le parti d'Italia, giornalisti con la camicia a scacchi, il berrettino e la pipetta, critici d'arte, sindacalisti, mon­signor vescovo, un paio di ministri che però furono buttati fuori in malo modo.

Venne il povero Di Vittorio a raccomandare la calma e la moderazione. Non venne la celere e anche i carabinieri del servizio d'ordine si tennero accosto al cancello della direzione. Ai funerali ci saranno state cinquantamila persone, tutte in fila con le bandiere, le corone dei fiori, il vescovo con la mitra e il pastorale. E quando le bare furono sotto terra, alla spicciolata se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante macchine sugli sterrati.

Io mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.

Nella bacheca al cancello stava scritto che alle famiglie delle vittime il ministero offriva contribu­zioni straordinarie e immediate varianti dalle 60 alle 100 mila lire, oltre il normale trattamento pre­videnziale previsto dall'Inail. La direzione offriva assegni assistenziali di 500 mila lire e di un milione, secondo i relativi carichi familiari. A conti fatti ci scapitava una ventina di milioni. Ma in compenso poteva chiudere subito la miniera.

 

 

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(Brano tratto dal romanzo La vita agra, Rizzoli editori, Milano, 1962.)

 

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Luciano Bianciardi (1922-1971) ha lavorato nel campo editoriale e giornalistico e tradotto importanti scrittori come Faulkner, Steinbeck, Miller e Bellow. Di Bianciardi si ricordano il suo esordio letterario, l’inchiesta, in collaborazione con Cassola, I minatori della Maremma (1955), Il lavoro culturale (1957), Aprire il fuoco (1969), e i saggi Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille (1960), e Daghela avanti un passo (1964), oltre a Lìintegrazione, La battaglia soda e La solita zuppa e altre storie.