Chiedersi quanto le
immagini siano parole e le parole siano immagini vuol dire sicuramente farsi
una domanda retorica, ma che forse, proprio per questo, nella sua retoricità,
può restituire la complessità e la profondità dei rapporti fra questi due
codici, una storia ricca, complessa, di cui si conoscono momenti di
avvicinamento e di sovrapposizione accanto ad altri di maggiore lontananza.
Se in un passato lontano ogni alfabeto è nato come immagine, la riflessione
su questi aspetti ha indubbiamente contrassegnato le arti visive e la poesia
stessa, in special modo nel corso di tutto il novecento, anche perché questo
che si sta chiudendo è stato un secolo, da un punto di vista della cultura,
che possiamo chiamare europea, che ha posto il linguaggio al centro delle sue
riflessioni, come punto di vista (il bisticcio qui è voluto) privilegiato per
analizzare fenomeni anche assai diversi e distanti fra loro, e naturalmente
anche le arti visive.
D'altra parte, dalla parte del linguaggio o, se vogliamo esser più precisi,
della poesia, abbiamo assistito a una progressiva messa in discussione del
suo ruolo, e della sua importanza in favore di altre modalità espressive,
fino alla constatazione di una sua costitutiva, generale debolezza, che l'ha
relegata alla stregua di linguaggio elitario e marginale, tanto che ciò ha
finito per favorire ricerche di poetiche che uscissero dalla tradizionale
scrittura del testo poetico per andare a incontrare altri codici nel
tentativo, tra l'altro, di ritrovare una qualche centralità, mentre su un
altro versante, se ne rivendicava la presunta purezza, dovuta all'alterità di
un linguaggio divenuto rarità, come specie avifaunistica da salvaguardare,
nella cittadella minacciata dal consumismo. Le citazioni da produrre a questo
proposito sarebbero quasi infinite, tanto che la riflessione sulla
marginalità della poesia può essere tanto scontata da risultare quasi
sospetta1.
Delle considerazioni che in qualche modo possono confermare quanto affermato,
sono presenti in un autore che possiamo ormai considerare pienamente nel
canone del secondo novecento, come Andrea Zanzotto, che, nel rispondere a una
domanda di Gian Mario Villalta afferma: "Si può osservare, però, che mai
come ora, soprattutto per le grandi mutazioni linguistiche in atto, la
fragilità della poesia, collegata alla sua stessa forza di radicamento nella
particolarità idiomatica, abbia reso trasparente anche la fragilità
dell'umano. Fragilità che tuttavia ritrova, sia pure in una marginalità, il
suo essere irriducibile, forse soprattutto attraverso la poesia... Devo
sottolineare che per me il problema non si pone, perché - praticamente da
sempre - ho scritto ipotizzando l'assenza di qualsiasi interlocutore"2.
E d'altronde anche Zanzotto - di cui esce in questi giorni un bellissimo
Meridiano che riassume il suo percorso poetico dagli esordi di Dietro il
paesaggio(1951) al recente Méteo - ha spesso contrassegnato la sua
produzione, con disegni, segni grafici, col fine di restituire alla pagine
scritta la totalità dell'esperienza che sta dietro alla scrittura,
un'esplorazione che potremmo definire sia orizzontale tra codice linguistico
e altri codici espressivi sia verticale, tra linguaggio e linguaggio.
Lasciando da parte la splendida poesia zanzottiana, ciò che più si vuole
sottolineare è che l'incontro fra parola e arti visive è stato spinto da
entrambi i termini, per ragioni proprie e generali, proprie dell'evoluzione -
con tutto il carico di complessità insito nel termine - dell'arte nel
novecento.
L'incontro fra poesia e immagine nel novecento deriva anche da una tradizione
antica di cui, senza voler ricostruire tutti i passaggi di un cammino
secolare, possiamo porre un inizio, seppur convenzionale, già con la civiltà
greca classica: non è infrequente, infatti, trovare nei componimenti lirici
di quel periodo una disposizione grafica del testo poetico; il poemetto la
Siringa di Teocrito (III sec. a. C.) è forse il primo esempio di poesia
visiva che si conosca, un esempio che non avrebbe nulla da invidiare a più
ardite sperimentazioni novecentesche.
Ma l'esplosione dei confini fra gli alfabeti è, come abbiamo detto, affare
propriamente novecentesco. Futurismo e Surrealismo, nella loro ansia
sperimentale, faranno dell'abbattimento di queste barriere uno dei loro
tratti più caratteristici.
Forse vale la pena richiamare alcune delle tappe fondamentali che Marinetti
fra il 1909-10 e il '40, andò percorrendo nella fondazione di quella che
doveva essere la nuova poetica futuristica. Già nel "Manifesto tecnico
della letteratura futurista", del 1912, si proclamava che le immagini
"costituiscono il sangue stesso della poesia"3, e in un manifesto
intitolato "Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili -
Parole in Libertà" (1913) Marinetti sostenne di "iniziare una
rivoluzione tipografica contro la bestiale e nauseante concezione del libro
di versi passatista e dannunziano. [...] Noi useremo perciò in una medesima
pagina, tre o quattro colori diversi d'inchiostro, e anche 20 caratteri
tipografici diversi, se occorra. Per esempio: corsivo per una serie di
sensazioni simili o veloci, grassetto tondo per le onomatopee violente,
ecc.", rivoluzione contro l'estetica decorativa e preziosa della parola
rara di Mallarmé4. Ancora Marinetti nello stesso manifesto reclama l'urgenza
e la "necessità storica dell'ortografia libera espressiva",
deformando liberamente le parole, aumentandone il centro o la fine,
aggiungendo vocali e consonanti alla bisogna. Il tentativo Marinettiano di
teorizzare compiutamente la nuova arte non si fermò alla stagione 1909-1914,
ma si protrasse almeno fino a tutti gli anni trenta, se è vero che in un
testo del 1937, intitolato La tecnica della nuova poesia, il poeta tornava a
definire cosa si intendeva per paroliberismo designandone tre tipi: tavole
parolibere, parole in libertà, parole in libertà di aereopoesia. Non meno
interessante il terzo manifesto che affronta la teoria delle parole in
libertà, Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, del
1914, forse quello che offre alcuni punti d'arrivo delle riflessioni
marinettiana. Scrive, infatti, in esso Marinetti: "Le parole in libertà,
in questo sforzo continuo di esprimere con la massima forza e la massima
profondità, si trasformano naturalmente in auto-illustrazioni, mediante
l'ortografia e tipografia libere espressive, le tavole sinottiche di valori
lirici e le analogie disegnate... L'ortografia e la tipografia libere
espressive servono inoltre ad esprimere la mimica facciale e la
gesticolazione del narratore"5.
Se le Calligrammes di Apollinaire sono il testo più noto e celebrato di
quegli anni e di un certo tipo di tendenza, il tentativo più riuscito di
equilibrare spinte innovative e tradizione, dal punto di vista della ricerca
parolibera bisognerebbe fare i nomi di Depero, Folgore, Buzzi, oltre che
dello stesso Marinetti. E viene, tra l'altro in mente anche la prima prova
poetica del triestino Carolus Cergoly che, nel seguito della sua carriera,
muterà decisamente modo di scrivere e in parte anche tematiche, ma che per il
suo esordio sceglie un paroliberismo graficamente composto.
Nelle elaborazioni che il Surrealismo andava compiendo quasi negli stessi
anni, compaiano una serie di spunti che saranno pieni di conseguenze
sull'evoluzione futura delle arti visive e non. In una conferenza tenutasi a
Praga nel marzo del 1935, André Breton fece alcune riflessioni sul rapporti
fra le arti e in particolare fra le arti figurative e la poesia : "...la
poesia non ha cessato nell'epoca moderna , di affermare la sua egemonia sulle
altre arti [...]. Per la verità è nella pittura che essa sembra essersi
scoperto il più campo d'influenza"6. Per Breton l'essenza della poesia
sulla scorta dell'estetica hegeliana, è quello di rivelare alla coscienza i
poteri della vita spirituale e la visione degli oggetti che i surrealisti
elaborarono, com'è noto, è una conseguenza, in qualche modo, di tale
asserzione. Una sua illustrazione si ritrova nella stessa conferenza
praghese, è una definizione di oggetto surrealistico che Breton mutua da
Salvador Dalì: "Oggetto che si presta a un minimo di funzionamento
meccanico e che è fondato sui fantasmi e le rappresentazioni che possono
essere provocati dalla realizzazione d'atti inconsci"7, oggetti che
possono essere trasformati in oggetti d'arte dalla semplice scelta
dell'artista, come Marcel Duchamp aveva dimostrato ampiamente, fosse
possibile fare.
L'idea di una "poesia da vedere", che arrivi a una sua fruizione
più totale, che metta in gioco più sensi dell'uomo, è quella che ha ispirato
la ricerca degli autori della così detta "poesia visiva", tra anni
cinquanta e sessanta, ricerca che non può dirsi totalmente esaurita, (nel senso
che di poesia visiva si parla e qualcuno ancora ne produce), il cui legame
con le premesse futuriste appare evidente. Come scrisse Lamberto Pignotti
"con questo genere di esperienza artistica non solo si è proposto con
evidenza una 'poesia da vedere', ma si è fatto intendere che il rapporto tra
messaggio verbale e messaggio visivo si stava aprendo in direzione di una
fruizione più totale intesa fattualmente o virtualmente a coinvolgere tutti i
sensi"8.
La possibilità di aprire, nelle visioni verbovisive, la scrittura ad altre
dimensioni, sottolineandone contemporaneamente il suo carattere innovatore è
quasi implicito nell'operare degli artisti della poesia visiva. Come
evidenzia Sproccati9 una delle caratteristiche del verbovisivo è quella di
frantumare la scansione temporale della scrittura, il prima e il dopo
dell'ordine delle parole sul foglio, aprendo la possibilità a dimensioni
"altre". È ancora Marinetti ad aver scritto che gli spazi bianchi
fra una parola e l'altra dovevano rappresentare i momenti di sonnolenza
dell'intuizione dell'autore, come se, appunto ogni parola dovesse nascere da
un luogo speciale, non comune e artisticamente alto dell'espressione, senza
continuità; di più nelle opere dei poeti visivi c'è spesso una carica di
contestazione, tipica degli anni sessanta-settanta, e d'altronde il rapporto
parola-immagine conosce un momento di grandissimo utilizzo proprio nel
linguaggio pubblicitario che sta alla base dell'evoluzione di una società
basata sul consumo.
La poesia visiva prese le sue mosse da quella che venne chiamata poesia
concreta, che ha in Italia, una sua data di nascita precisa, il 1943 e un
padre, Carlo Belloli.
Una definizione utile a delineare i confini dell'esperienza della poesia
concreta è quella data da uno studioso americano, Emmer Williams,
nell'antologia "Anthology of Concrete Poetry", pubblicata nel 1967
a New York. Scrive Williams: "È una poesia ben lontana dalla parafrasi,
una poesia che spesso richiede di essere completata o attivata dal lettore;
una poesia di rappresentazione immediata - la parola, non parole o
squigglings espressionistici" - usando gli elementi semantici, visuali e
fonetici della lingua come materiali grezzi, in modo raramente usato dai
poeti del passato"10. La poesia concreta pose al centro delle sue composizioni
la parola singola, emblematico il caso del Silenzio(Schweigen) di Eugen
Gomringer, che ripete la parola per quattordici volte su due colonne
lasciando uno spazio solo in quella centrale, in questo modo tutta la
composizione diviene una specie d'ideogramma di "silenzio".
Collegata e, in qualche modo discendente dalla poesia concreta dunque la
poesia visiva, che tra anni '60 e anni '70, conobbe la sua stagione più
feconda di movimento ricco e composito, fortemente intrecciato con la neoavanguardia
e con le problematiche che stanno sconvolgendo il dibattito culturale, ma
anche quello politico sociale.
Fra i promotori di questo movimento possiamo ricordare Lamberto Pignotti,
Corrado Piancastelli, Ugo Carrega, Aldo Braibanti, Cesare Ruffato, tra gli
altri. Che cosa sia e in cosa si differenzi la poesia visiva da altri
atteggiamenti contermini ce lo dice uno dei suoi esponenti, Luciano Ori:
"1) Perché ha realizzato un legame osmotico con i prodotti dei mass
media come punto di partenza (e come percorso) della sua creazione 2) Perché
ha fin dall'inizio privilegiato l'aspetto iconico -l'immagine nelle sue
diverse possibilità espressive - su quello grafico-tipografico caratteristico
invece di molta Poesia Visuale 3) Perché ha sempre teso a raggiungere un risultato
visivo omologo a quello perseguito dalle arti figurative"11.
La poesia visiva che ha raggiunto i suoi massimi risultati fra anni sessanta
e settanta, non può comunque ritenersi una esperienza del tutto conclusa,
seppure ha sicuramente esaurito la sua carica innovativa e critica - che ne
era una delle sue componenti costitutive - e altre esperienze siano
intervenute nel rapporto fra parola e immagine12.
Un filone di queste esperienze, è quello che si collega agli artisti che
diedero vita e aderirono al gruppo Fluxus. Nato negli anni sessanta in
America, Fluxus è un gruppo aperto che vede collaborare artisti di diversi
paesi in Europa, America e Asia, propugnando esperienze caratterizzate da una
grandissima libertà espressiva, di carattere interdisciplinare e
multimediale, al di là di ogni aspetto tradizionale, particolarmente
importanti sono i suoi rapporti con l'espressione musicale, che
coinvolgeranno in Italia un musicista come Sylvano Bussotti. Il movimento che
si esaurisce con la morte del suo fondatore, George Maciunas nel '78,
contava, oltre allo stesso Maciunas, fra i suoi principali aderenti nomi come
quelli di Joseph Beuys e Nam June Paik. Le radici di Fluxus, fra l'altro
affondano ancora una volta nell'avanguardia storica e soprattutto, direi, in
ciò che Duchamp e i Surrealisti avevano già sottolineato: elevare il gesto e
l'oggetto quotidiano a livello di gesto artistico13.
Ma ciò non voleva significare la consacrazione del kitsch, quanto piuttosto
la ricerca del magico della catarsi nella quotidianeità, di un "approdo
del soggetto creativo, dell'artista a una dimensione separata della propria
biografia, proprio perché con grande umiltà egli individua nell'arte la
propria possibilità espressiva"14. Fluxus non si pone l'antica contraddizione
fra arte e vita quanto piuttosto comunicare una forma di entusiasmo che vuole
salvare sia l'arte che la vita come due facce di una stessa realtà che a
volte si sovrappongono.
Uno degli artisti maggiormente rappresentativi di Fluxus che vi aderì pur da
posizioni originali e personalissime, Joseph Beuys, spiegando, nel 1984, un
suo progetto che prevedeva di piantare settemila alberi diversi nel
territorio comunale di Bolognano, in Abruzzo, sostenne il parallelismo fra
uomo e albero. Tre, a suo avviso erano gli stadi della creatività umana che
trovavano il loro corrispettivo nell'albero con la sua chioma, fogliame
tronco e radici e affermando - a una domanda rivoltagli da uno spettare a
proposito del senso di questo suo progetto - che l'azione di piantare gli alberi
era biunivoca. Come lui avrebbe piantato i fusti essi, a loro volta,
avrebbero piantato i piantatori15.
Alle operazioni di Beuys, alle sue intenzioni, al suo ritenere il pensiero
come forma ( fra l'altro una selezione di disegni di questo artista era esposta
alla Royal Academy di Londra quest'estate), è ricollegabile l'operare di Meri
Gorni un'artista milanese, che pone al centro dei suoi lavori la parola, il
libro e la scrittura facendone motivi di un originale percorso artistico.
Mi sembra importante il lavoro di Meri Gorni, non solo per il suo valore in
sé, ma anche per le strade nuove che sembra suggerire e che hanno trovato
nell'associazione Oreste un punto di contatto per una lavoro comune verso
queste prospettive, del che s'è avuto un primo assaggio negli incontri
organizzati da Oreste, presso il padiglione italiano della Biennale di
Venezia.
Attraverso video, installazioni, performance e una collana di libri di poesia
stampati manualmente su carta da disegno, Gorni vuole restituire, in qualche modo,
l'emozione della parola, scritta o pronunciata, dare una mappa del
cortocircuito fra emittente e ricevente per ciò che trasforma in chi la
riceve, ma anche in chi la pronuncia.
Il rapporto che quest'artista istituisce fra l'immagine e la parola non chiede
a nessuno dei due codici alcunché, non chiede loro di trasformarsi in nulla
di più o di diverso da quanto essi siano già in realtà. Piuttosto chiede loro
un'assoluta fedeltà a sé stessi, il suo è un incontro fra due realtà che
hanno la stessa dignità. In una serie di video, di durata variabile, entro i
venti minuti, Gorni sta costruendo un vocabolario personale, dove a ogni
lemma corrisponde un raccontarsi dell'artista che va a costruire una
autobiografia che è fatta di parole ma anche di immagini, di voci. Il video
che s'intitola alla parola Voce, per esempio, riporta la lettura del medesimo
frammento di una poesia di Andrea Zanzotto da parte di persone diverse che
vanno così a formare un macro racconto che è quello del lettore di poesie, ma
anche quello di ogni singolo lettore, che rappresenta un'emozione ogni volta
diversa della lettura degli stessi versi che è poi l'avvicinarsi dell'artista
stesso alla scrittura poetica. La scrittura in questa visione non si
trasforma, anzi è restituita in tutta la completezza di un
"classico" del novecento e l'immagine le si accosta a farne un
veicolo, ma anche un occhio attento e individuale che può testimoniare quanto
nella scrittura ci si possa riconoscere.
Alcune altre opere dell'artista milanese mi paiono particolarmente rilevanti:
innanzitutto un video, significativamente intitolato In my beginning (anche
se verrebbe da chiedersi perché proprio l'inglese, quando il soggetto delle
immagini si proiettano in una sfera del tutto privata e alogica del
linguaggio), in cui l'artista è ripresa mentre manipola delle lettere
intagliate, di grandi dimensioni e il sonoro rimanda della specie di
tentativi di formulare dei fonemi riconoscibili, come vi fosse l'atto
inaugurale del possesso del linguaggio, qualcosa di legato al corpo ancor
prima che alla costruzione logica e quindi espressione autentica della
propria psiche. Anche la tecnica di ripresa qui è accurata con effetti di
rallentamento e di dissolvenza che danno l'idea del frammentario, di qualcosa
che faticosamente si fa strada. Sarebbe possibile istituire un rapporto fra
questo balbettio e alcune considerazioni dello stesso Zanzotto sul linguaggio
infantile, il petel di alcune sue liriche. Altro capitolo dell'indagine di
Meri Gorni è Topos, quaderno costruito a mano con fogli da disegno ove una
ventina di poeti sono stati chiamati a trascrivere la poesia, di altro
autore, che considerano particolarmente significativa per la loro formazione.
Accanto a ogni lirica un disegno riproduce la fotografia, scattata spesso dalla
stessa Gorni, del luogo, sedia o divano, ove i poeti in questione
preferibilmente leggono.
Sicuramente un simile progetto che conta più di venti nomi, ha una sua
rilevanza filologica, permette infatti di ricostruire le influenze e gli
autori di riferimento per generazioni diverse di poeti contemporanei,
restituendoci anche le piccole manie di scrivanie affollate di carte o severe
geometrie di libri allineati come soldatini di piombo, ma certamente non era
una preoccupazione filologica quella di Gorni: Topos è l'illustrazione di un
cortocircuito, quello fra il lettore e lo scrittore, fra la voce di chi
scrive e di chi ha scritto, il segno grafico, tutti i poeti coinvolti sono
stati rigorosamente obbligati a usare un pennarello grigio per scrivere su
carta grigia, quasi a dare così è trasparente testimonianza di tale circuito.
E alla fine, prima di dare parola alla stessa artista che, gentilmente, ha
accondisceso a spiegarci il suo lavoro, soffermiamoci sui libri che lei
stessa confeziona nel suo atelier. Anche qui i materiali sono importanti:
carta da disegno grigio-azzurro senza sbavature, quasi a testimoniare che la
scrittura è comunque segno e quindi di-segno; la collanina che si è
denominata En Plein Officina conta ormai una sessantina di titoli fra i quali
troviamo autori come Merini, Sanguineti, Anedda, Giappi, Cucchi, Gardini,
Buffoni e altri ancora compresi alcuni autori stranieri (un Seamus Heaney
inedito in Italia che credo sia una delle gemme della En Plein). I libretti,
di piccole dimensioni contengono oltre a una o due liriche del poeta anche
l'immagine o una riproduzione di un artista visivo, che si presta a fornire
una riproduzione di una delle sue opere e qui è il compito che Gorni si è
data come artista-mediatore che lei ritiene indispensabile. Tornano in mente
le parole di Breton, la preminenza della poesia come categoria hegeliana,
rivisitata in termini del tutto diversi e nuovi. Il mondo di quest'artista
come abbiamo cercato di sostenere è fatto di emozioni profonde, che ci sono
restituite in modo lieve, quasi impercettibile come se l'io giocasse a
nascondersi dietro i pensieri e gli oggetti altrui. Riportiamo, in chiusura,
una breve testimonianza di Meri Gorni, incontrata alla Biennale di Venezia
dove insieme all'associazione Oreste stava organizzando degli incontri sul
tema Come ci si incontra con i poeti?
"Mi chiedo spesso a cosa serve l'arte, cosa c'entra con la realtà e con
la nostra vita. L'arte non è solo dare forma a figure invisibili, è mettere
in atto tutti i nostri sensi, da quello assopito al sesto e oltre. Penso che
nell'arte si vada oscuramente a cercare la misura di quanto umano gli uomini
abbiano perduto e nella maggior parte dei casi, il rapporto è consolatorio e
sostitutivo, e l'opera lenisce anziché inasprire il nostro senso di ciò che
vuol dire essere vivi, nell'esperienza. Perciò io penso a un tessuto con fili
che legano tanti gomitoli e vedo l'arte come medium, come strumento della
comunicazione, per questo durante le mie mostre c'è sempre un momento
performativo e il tentativo d'identificare il sentire al pensare".
NOTE
1. L'antologia Poesia '98. Annuario, a cura di Giorgio Manacorda,
Castelvecchi Editore, maggio 1999, che può essere considerato uno strumento
utile proprio per il suo carattere sommatorio, di bilancio provvisorio,
contiene, ad esempio, un questionario curato da Elio Pecora composto da sei
domande sulla poesia rivolte a personaggi famosi della cultura e della
politica italiana , inerenti il loro rapporto con la poesia. Lo stesso Pecora
nell'introduzione scrive: "La poesia, è noto viene poco frequentata e
pochissimo letta.", op. cit., pag. 235. Che sarebbe poi una delle tesi
sostenute da Berdinelli e Cordelli in un libro simbolo degli anni settanta:
Il pubblico della poesia, Lerici, 1975.
2. Cinque domande ad Andrea Zanzotto, a cura di Gian Mario Villalta, in
Poesia e Nichilismo, a cura di Giovanni Moretto, Il Melangolo, Genova, 1998.
3. Questo e gli altri passi dei manifesti del futurismo sono tratti da
Filippo Tommaso Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Maria,
Mondadori Editore, Milano, 1973, poi raccolti in volume assieme ad altri
lavori sui manifesti delle avanguardie storiche in: I manifesti delle
Avanguardie. Futurismo-Dadaismo-Surrealismo, Euroclub Italia, 1998.
4. A proposito della contrapposizione di Marinetti alla poetica di Mallarmé
esiste una preziosa osservazione di Gianfranco Contini, nel saggio
Innovazioni metriche italiane fra Otto e Novecento, ora in Varianti e altra
linguistica, Einaudi, Torino, 1970. Scrive Contini: "...Marinetti
dichiara di combattere 'l'ideale statico di Mallarmé'. L'allusione va al
platonismo di Mallarmé, ma non potrebbe essere scelta peggio. Evidentemente
Marinetti ignorava (cosa lecita fino al 1914) l'edizione originale, in
rivista di Un cup de dès, in cui la costruzione sintattica della prosa più
dissolta e ricucita di Mallarmé (Igitur) appare ricomposta tipograficamente.
5. Marinetti, op. cit., pag 167.
6. A. Breton, op. cit, pag. 473.
7. Ivi, pag. 491.
8. L. Pignotti, in Immaginazione, Lecce, 1991.
9. S.Sproccati, in A. Faietti, Efisia, poesie frattali, Verona, Anterem,
1991.
10. L.Ballerini, La piramide rovesciata, Venezia, 1975, pag. 7.
11. L.Ori, La poesia visiva, in L'immaginazione, supplemento a Salento
Domani, ottobre 1980, n.10, citazione che trovo nella tesi di laurea di
Luciano Paronetto Indagine sulla poesia visiva in Italia, Universitò di
Venezia (Anno Accademico 1986/87) a cui sono debitore di molte altre
informazioni utili.
12. Nella parte conclusiva del lavoro di Paronetto, è riportata anche una
interessantissima conversazione con Andrea Zanzotto, il quale sollecitato a
esprimersi sulla poesia visivo sostiene la mancanza di logos della stessa.
13. Su Fluxus, fra l'altro, si può consultare Ubi Fluxus ibi Motus, a cura di
A.Bonito Oliva, catalogo, Biennale di Venezia, 1991.
14. Ivi, pag. 89.
15. Difesa della natura. Joseph Beuys. A cura di Lucrezia De Domizio, Il
quadrante edizioni,1985.
Roberto Dedenaro
(Tratto
da Juliet , n° 95, dicembre 1999)
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