L'IMMAGINE E GLI ALFABETI

Roberto Dedenaro

Chiedersi quanto le immagini siano parole e le parole siano immagini vuol dire sicuramente farsi una domanda retorica, ma che forse, proprio per questo, nella sua retoricità, può restituire la complessità e la profondità dei rapporti fra questi due codici, una storia ricca, complessa, di cui si conoscono momenti di avvicinamento e di sovrapposizione accanto ad altri di maggiore lontananza. Se in un passato lontano ogni alfabeto è nato come immagine, la riflessione su questi aspetti ha indubbiamente contrassegnato le arti visive e la poesia stessa, in special modo nel corso di tutto il novecento, anche perché questo che si sta chiudendo è stato un secolo, da un punto di vista della cultura, che possiamo chiamare europea, che ha posto il linguaggio al centro delle sue riflessioni, come punto di vista (il bisticcio qui è voluto) privilegiato per analizzare fenomeni anche assai diversi e distanti fra loro, e naturalmente anche le arti visive.
D'altra parte, dalla parte del linguaggio o, se vogliamo esser più precisi, della poesia, abbiamo assistito a una progressiva messa in discussione del suo ruolo, e della sua importanza in favore di altre modalità espressive, fino alla constatazione di una sua costitutiva, generale debolezza, che l'ha relegata alla stregua di linguaggio elitario e marginale, tanto che ciò ha finito per favorire ricerche di poetiche che uscissero dalla tradizionale scrittura del testo poetico per andare a incontrare altri codici nel tentativo, tra l'altro, di ritrovare una qualche centralità, mentre su un altro versante, se ne rivendicava la presunta purezza, dovuta all'alterità di un linguaggio divenuto rarità, come specie avifaunistica da salvaguardare, nella cittadella minacciata dal consumismo. Le citazioni da produrre a questo proposito sarebbero quasi infinite, tanto che la riflessione sulla marginalità della poesia può essere tanto scontata da risultare quasi sospetta1.
Delle considerazioni che in qualche modo possono confermare quanto affermato, sono presenti in un autore che possiamo ormai considerare pienamente nel canone del secondo novecento, come Andrea Zanzotto, che, nel rispondere a una domanda di Gian Mario Villalta afferma: "Si può osservare, però, che mai come ora, soprattutto per le grandi mutazioni linguistiche in atto, la fragilità della poesia, collegata alla sua stessa forza di radicamento nella particolarità idiomatica, abbia reso trasparente anche la fragilità dell'umano. Fragilità che tuttavia ritrova, sia pure in una marginalità, il suo essere irriducibile, forse soprattutto attraverso la poesia... Devo sottolineare che per me il problema non si pone, perché - praticamente da sempre - ho scritto ipotizzando l'assenza di qualsiasi interlocutore"2. E d'altronde anche Zanzotto - di cui esce in questi giorni un bellissimo Meridiano che riassume il suo percorso poetico dagli esordi di Dietro il paesaggio(1951) al recente Méteo - ha spesso contrassegnato la sua produzione, con disegni, segni grafici, col fine di restituire alla pagine scritta la totalità dell'esperienza che sta dietro alla scrittura, un'esplorazione che potremmo definire sia orizzontale tra codice linguistico e altri codici espressivi sia verticale, tra linguaggio e linguaggio.
Lasciando da parte la splendida poesia zanzottiana, ciò che più si vuole sottolineare è che l'incontro fra parola e arti visive è stato spinto da entrambi i termini, per ragioni proprie e generali, proprie dell'evoluzione - con tutto il carico di complessità insito nel termine - dell'arte nel novecento.
L'incontro fra poesia e immagine nel novecento deriva anche da una tradizione antica di cui, senza voler ricostruire tutti i passaggi di un cammino secolare, possiamo porre un inizio, seppur convenzionale, già con la civiltà greca classica: non è infrequente, infatti, trovare nei componimenti lirici di quel periodo una disposizione grafica del testo poetico; il poemetto la Siringa di Teocrito (III sec. a. C.) è forse il primo esempio di poesia visiva che si conosca, un esempio che non avrebbe nulla da invidiare a più ardite sperimentazioni novecentesche.
Ma l'esplosione dei confini fra gli alfabeti è, come abbiamo detto, affare propriamente novecentesco. Futurismo e Surrealismo, nella loro ansia sperimentale, faranno dell'abbattimento di queste barriere uno dei loro tratti più caratteristici.
Forse vale la pena richiamare alcune delle tappe fondamentali che Marinetti fra il 1909-10 e il '40, andò percorrendo nella fondazione di quella che doveva essere la nuova poetica futuristica. Già nel "Manifesto tecnico della letteratura futurista", del 1912, si proclamava che le immagini "costituiscono il sangue stesso della poesia"3, e in un manifesto intitolato "Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili - Parole in Libertà" (1913) Marinetti sostenne di "iniziare una rivoluzione tipografica contro la bestiale e nauseante concezione del libro di versi passatista e dannunziano. [...] Noi useremo perciò in una medesima pagina, tre o quattro colori diversi d'inchiostro, e anche 20 caratteri tipografici diversi, se occorra. Per esempio: corsivo per una serie di sensazioni simili o veloci, grassetto tondo per le onomatopee violente, ecc.", rivoluzione contro l'estetica decorativa e preziosa della parola rara di Mallarmé4. Ancora Marinetti nello stesso manifesto reclama l'urgenza e la "necessità storica dell'ortografia libera espressiva", deformando liberamente le parole, aumentandone il centro o la fine, aggiungendo vocali e consonanti alla bisogna. Il tentativo Marinettiano di teorizzare compiutamente la nuova arte non si fermò alla stagione 1909-1914, ma si protrasse almeno fino a tutti gli anni trenta, se è vero che in un testo del 1937, intitolato La tecnica della nuova poesia, il poeta tornava a definire cosa si intendeva per paroliberismo designandone tre tipi: tavole parolibere, parole in libertà, parole in libertà di aereopoesia. Non meno interessante il terzo manifesto che affronta la teoria delle parole in libertà, Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, del 1914, forse quello che offre alcuni punti d'arrivo delle riflessioni marinettiana. Scrive, infatti, in esso Marinetti: "Le parole in libertà, in questo sforzo continuo di esprimere con la massima forza e la massima profondità, si trasformano naturalmente in auto-illustrazioni, mediante l'ortografia e tipografia libere espressive, le tavole sinottiche di valori lirici e le analogie disegnate... L'ortografia e la tipografia libere espressive servono inoltre ad esprimere la mimica facciale e la gesticolazione del narratore"5.
Se le Calligrammes di Apollinaire sono il testo più noto e celebrato di quegli anni e di un certo tipo di tendenza, il tentativo più riuscito di equilibrare spinte innovative e tradizione, dal punto di vista della ricerca parolibera bisognerebbe fare i nomi di Depero, Folgore, Buzzi, oltre che dello stesso Marinetti. E viene, tra l'altro in mente anche la prima prova poetica del triestino Carolus Cergoly che, nel seguito della sua carriera, muterà decisamente modo di scrivere e in parte anche tematiche, ma che per il suo esordio sceglie un paroliberismo graficamente composto.
Nelle elaborazioni che il Surrealismo andava compiendo quasi negli stessi anni, compaiano una serie di spunti che saranno pieni di conseguenze sull'evoluzione futura delle arti visive e non. In una conferenza tenutasi a Praga nel marzo del 1935, André Breton fece alcune riflessioni sul rapporti fra le arti e in particolare fra le arti figurative e la poesia : "...la poesia non ha cessato nell'epoca moderna , di affermare la sua egemonia sulle altre arti [...]. Per la verità è nella pittura che essa sembra essersi scoperto il più campo d'influenza"6. Per Breton l'essenza della poesia sulla scorta dell'estetica hegeliana, è quello di rivelare alla coscienza i poteri della vita spirituale e la visione degli oggetti che i surrealisti elaborarono, com'è noto, è una conseguenza, in qualche modo, di tale asserzione. Una sua illustrazione si ritrova nella stessa conferenza praghese, è una definizione di oggetto surrealistico che Breton mutua da Salvador Dalì: "Oggetto che si presta a un minimo di funzionamento meccanico e che è fondato sui fantasmi e le rappresentazioni che possono essere provocati dalla realizzazione d'atti inconsci"7, oggetti che possono essere trasformati in oggetti d'arte dalla semplice scelta dell'artista, come Marcel Duchamp aveva dimostrato ampiamente, fosse possibile fare.
L'idea di una "poesia da vedere", che arrivi a una sua fruizione più totale, che metta in gioco più sensi dell'uomo, è quella che ha ispirato la ricerca degli autori della così detta "poesia visiva", tra anni cinquanta e sessanta, ricerca che non può dirsi totalmente esaurita, (nel senso che di poesia visiva si parla e qualcuno ancora ne produce), il cui legame con le premesse futuriste appare evidente. Come scrisse Lamberto Pignotti "con questo genere di esperienza artistica non solo si è proposto con evidenza una 'poesia da vedere', ma si è fatto intendere che il rapporto tra messaggio verbale e messaggio visivo si stava aprendo in direzione di una fruizione più totale intesa fattualmente o virtualmente a coinvolgere tutti i sensi"8.
La possibilità di aprire, nelle visioni verbovisive, la scrittura ad altre dimensioni, sottolineandone contemporaneamente il suo carattere innovatore è quasi implicito nell'operare degli artisti della poesia visiva. Come evidenzia Sproccati9 una delle caratteristiche del verbovisivo è quella di frantumare la scansione temporale della scrittura, il prima e il dopo dell'ordine delle parole sul foglio, aprendo la possibilità a dimensioni "altre". È ancora Marinetti ad aver scritto che gli spazi bianchi fra una parola e l'altra dovevano rappresentare i momenti di sonnolenza dell'intuizione dell'autore, come se, appunto ogni parola dovesse nascere da un luogo speciale, non comune e artisticamente alto dell'espressione, senza continuità; di più nelle opere dei poeti visivi c'è spesso una carica di contestazione, tipica degli anni sessanta-settanta, e d'altronde il rapporto parola-immagine conosce un momento di grandissimo utilizzo proprio nel linguaggio pubblicitario che sta alla base dell'evoluzione di una società basata sul consumo.
La poesia visiva prese le sue mosse da quella che venne chiamata poesia concreta, che ha in Italia, una sua data di nascita precisa, il 1943 e un padre, Carlo Belloli.
Una definizione utile a delineare i confini dell'esperienza della poesia concreta è quella data da uno studioso americano, Emmer Williams, nell'antologia "Anthology of Concrete Poetry", pubblicata nel 1967 a New York. Scrive Williams: "È una poesia ben lontana dalla parafrasi, una poesia che spesso richiede di essere completata o attivata dal lettore; una poesia di rappresentazione immediata - la parola, non parole o squigglings espressionistici" - usando gli elementi semantici, visuali e fonetici della lingua come materiali grezzi, in modo raramente usato dai poeti del passato"10. La poesia concreta pose al centro delle sue composizioni la parola singola, emblematico il caso del Silenzio(Schweigen) di Eugen Gomringer, che ripete la parola per quattordici volte su due colonne lasciando uno spazio solo in quella centrale, in questo modo tutta la composizione diviene una specie d'ideogramma di "silenzio". Collegata e, in qualche modo discendente dalla poesia concreta dunque la poesia visiva, che tra anni '60 e anni '70, conobbe la sua stagione più feconda di movimento ricco e composito, fortemente intrecciato con la neoavanguardia e con le problematiche che stanno sconvolgendo il dibattito culturale, ma anche quello politico sociale.
Fra i promotori di questo movimento possiamo ricordare Lamberto Pignotti, Corrado Piancastelli, Ugo Carrega, Aldo Braibanti, Cesare Ruffato, tra gli altri. Che cosa sia e in cosa si differenzi la poesia visiva da altri atteggiamenti contermini ce lo dice uno dei suoi esponenti, Luciano Ori: "1) Perché ha realizzato un legame osmotico con i prodotti dei mass media come punto di partenza (e come percorso) della sua creazione 2) Perché ha fin dall'inizio privilegiato l'aspetto iconico -l'immagine nelle sue diverse possibilità espressive - su quello grafico-tipografico caratteristico invece di molta Poesia Visuale 3) Perché ha sempre teso a raggiungere un risultato visivo omologo a quello perseguito dalle arti figurative"11.
La poesia visiva che ha raggiunto i suoi massimi risultati fra anni sessanta e settanta, non può comunque ritenersi una esperienza del tutto conclusa, seppure ha sicuramente esaurito la sua carica innovativa e critica - che ne era una delle sue componenti costitutive - e altre esperienze siano intervenute nel rapporto fra parola e immagine12.
Un filone di queste esperienze, è quello che si collega agli artisti che diedero vita e aderirono al gruppo Fluxus. Nato negli anni sessanta in America, Fluxus è un gruppo aperto che vede collaborare artisti di diversi paesi in Europa, America e Asia, propugnando esperienze caratterizzate da una grandissima libertà espressiva, di carattere interdisciplinare e multimediale, al di là di ogni aspetto tradizionale, particolarmente importanti sono i suoi rapporti con l'espressione musicale, che coinvolgeranno in Italia un musicista come Sylvano Bussotti. Il movimento che si esaurisce con la morte del suo fondatore, George Maciunas nel '78, contava, oltre allo stesso Maciunas, fra i suoi principali aderenti nomi come quelli di Joseph Beuys e Nam June Paik. Le radici di Fluxus, fra l'altro affondano ancora una volta nell'avanguardia storica e soprattutto, direi, in ciò che Duchamp e i Surrealisti avevano già sottolineato: elevare il gesto e l'oggetto quotidiano a livello di gesto artistico13.
Ma ciò non voleva significare la consacrazione del kitsch, quanto piuttosto la ricerca del magico della catarsi nella quotidianeità, di un "approdo del soggetto creativo, dell'artista a una dimensione separata della propria biografia, proprio perché con grande umiltà egli individua nell'arte la propria possibilità espressiva"14. Fluxus non si pone l'antica contraddizione fra arte e vita quanto piuttosto comunicare una forma di entusiasmo che vuole salvare sia l'arte che la vita come due facce di una stessa realtà che a volte si sovrappongono.
Uno degli artisti maggiormente rappresentativi di Fluxus che vi aderì pur da posizioni originali e personalissime, Joseph Beuys, spiegando, nel 1984, un suo progetto che prevedeva di piantare settemila alberi diversi nel territorio comunale di Bolognano, in Abruzzo, sostenne il parallelismo fra uomo e albero. Tre, a suo avviso erano gli stadi della creatività umana che trovavano il loro corrispettivo nell'albero con la sua chioma, fogliame tronco e radici e affermando - a una domanda rivoltagli da uno spettare a proposito del senso di questo suo progetto - che l'azione di piantare gli alberi era biunivoca. Come lui avrebbe piantato i fusti essi, a loro volta, avrebbero piantato i piantatori15.
Alle operazioni di Beuys, alle sue intenzioni, al suo ritenere il pensiero come forma ( fra l'altro una selezione di disegni di questo artista era esposta alla Royal Academy di Londra quest'estate), è ricollegabile l'operare di Meri Gorni un'artista milanese, che pone al centro dei suoi lavori la parola, il libro e la scrittura facendone motivi di un originale percorso artistico.
Mi sembra importante il lavoro di Meri Gorni, non solo per il suo valore in sé, ma anche per le strade nuove che sembra suggerire e che hanno trovato nell'associazione Oreste un punto di contatto per una lavoro comune verso queste prospettive, del che s'è avuto un primo assaggio negli incontri organizzati da Oreste, presso il padiglione italiano della Biennale di Venezia.
Attraverso video, installazioni, performance e una collana di libri di poesia stampati manualmente su carta da disegno, Gorni vuole restituire, in qualche modo, l'emozione della parola, scritta o pronunciata, dare una mappa del cortocircuito fra emittente e ricevente per ciò che trasforma in chi la riceve, ma anche in chi la pronuncia.
Il rapporto che quest'artista istituisce fra l'immagine e la parola non chiede a nessuno dei due codici alcunché, non chiede loro di trasformarsi in nulla di più o di diverso da quanto essi siano già in realtà. Piuttosto chiede loro un'assoluta fedeltà a sé stessi, il suo è un incontro fra due realtà che hanno la stessa dignità. In una serie di video, di durata variabile, entro i venti minuti, Gorni sta costruendo un vocabolario personale, dove a ogni lemma corrisponde un raccontarsi dell'artista che va a costruire una autobiografia che è fatta di parole ma anche di immagini, di voci. Il video che s'intitola alla parola Voce, per esempio, riporta la lettura del medesimo frammento di una poesia di Andrea Zanzotto da parte di persone diverse che vanno così a formare un macro racconto che è quello del lettore di poesie, ma anche quello di ogni singolo lettore, che rappresenta un'emozione ogni volta diversa della lettura degli stessi versi che è poi l'avvicinarsi dell'artista stesso alla scrittura poetica. La scrittura in questa visione non si trasforma, anzi è restituita in tutta la completezza di un "classico" del novecento e l'immagine le si accosta a farne un veicolo, ma anche un occhio attento e individuale che può testimoniare quanto nella scrittura ci si possa riconoscere.
Alcune altre opere dell'artista milanese mi paiono particolarmente rilevanti: innanzitutto un video, significativamente intitolato In my beginning (anche se verrebbe da chiedersi perché proprio l'inglese, quando il soggetto delle immagini si proiettano in una sfera del tutto privata e alogica del linguaggio), in cui l'artista è ripresa mentre manipola delle lettere intagliate, di grandi dimensioni e il sonoro rimanda della specie di tentativi di formulare dei fonemi riconoscibili, come vi fosse l'atto inaugurale del possesso del linguaggio, qualcosa di legato al corpo ancor prima che alla costruzione logica e quindi espressione autentica della propria psiche. Anche la tecnica di ripresa qui è accurata con effetti di rallentamento e di dissolvenza che danno l'idea del frammentario, di qualcosa che faticosamente si fa strada. Sarebbe possibile istituire un rapporto fra questo balbettio e alcune considerazioni dello stesso Zanzotto sul linguaggio infantile, il petel di alcune sue liriche. Altro capitolo dell'indagine di Meri Gorni è Topos, quaderno costruito a mano con fogli da disegno ove una ventina di poeti sono stati chiamati a trascrivere la poesia, di altro autore, che considerano particolarmente significativa per la loro formazione. Accanto a ogni lirica un disegno riproduce la fotografia, scattata spesso dalla stessa Gorni, del luogo, sedia o divano, ove i poeti in questione preferibilmente leggono.
Sicuramente un simile progetto che conta più di venti nomi, ha una sua rilevanza filologica, permette infatti di ricostruire le influenze e gli autori di riferimento per generazioni diverse di poeti contemporanei, restituendoci anche le piccole manie di scrivanie affollate di carte o severe geometrie di libri allineati come soldatini di piombo, ma certamente non era una preoccupazione filologica quella di Gorni: Topos è l'illustrazione di un cortocircuito, quello fra il lettore e lo scrittore, fra la voce di chi scrive e di chi ha scritto, il segno grafico, tutti i poeti coinvolti sono stati rigorosamente obbligati a usare un pennarello grigio per scrivere su carta grigia, quasi a dare così è trasparente testimonianza di tale circuito.
E alla fine, prima di dare parola alla stessa artista che, gentilmente, ha accondisceso a spiegarci il suo lavoro, soffermiamoci sui libri che lei stessa confeziona nel suo atelier. Anche qui i materiali sono importanti: carta da disegno grigio-azzurro senza sbavature, quasi a testimoniare che la scrittura è comunque segno e quindi di-segno; la collanina che si è denominata En Plein Officina conta ormai una sessantina di titoli fra i quali troviamo autori come Merini, Sanguineti, Anedda, Giappi, Cucchi, Gardini, Buffoni e altri ancora compresi alcuni autori stranieri (un Seamus Heaney inedito in Italia che credo sia una delle gemme della En Plein). I libretti, di piccole dimensioni contengono oltre a una o due liriche del poeta anche l'immagine o una riproduzione di un artista visivo, che si presta a fornire una riproduzione di una delle sue opere e qui è il compito che Gorni si è data come artista-mediatore che lei ritiene indispensabile. Tornano in mente le parole di Breton, la preminenza della poesia come categoria hegeliana, rivisitata in termini del tutto diversi e nuovi. Il mondo di quest'artista come abbiamo cercato di sostenere è fatto di emozioni profonde, che ci sono restituite in modo lieve, quasi impercettibile come se l'io giocasse a nascondersi dietro i pensieri e gli oggetti altrui. Riportiamo, in chiusura, una breve testimonianza di Meri Gorni, incontrata alla Biennale di Venezia dove insieme all'associazione Oreste stava organizzando degli incontri sul tema Come ci si incontra con i poeti?
"Mi chiedo spesso a cosa serve l'arte, cosa c'entra con la realtà e con la nostra vita. L'arte non è solo dare forma a figure invisibili, è mettere in atto tutti i nostri sensi, da quello assopito al sesto e oltre. Penso che nell'arte si vada oscuramente a cercare la misura di quanto umano gli uomini abbiano perduto e nella maggior parte dei casi, il rapporto è consolatorio e sostitutivo, e l'opera lenisce anziché inasprire il nostro senso di ciò che vuol dire essere vivi, nell'esperienza. Perciò io penso a un tessuto con fili che legano tanti gomitoli e vedo l'arte come medium, come strumento della comunicazione, per questo durante le mie mostre c'è sempre un momento performativo e il tentativo d'identificare il sentire al pensare".

NOTE
1. L'antologia Poesia '98. Annuario, a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi Editore, maggio 1999, che può essere considerato uno strumento utile proprio per il suo carattere sommatorio, di bilancio provvisorio, contiene, ad esempio, un questionario curato da Elio Pecora composto da sei domande sulla poesia rivolte a personaggi famosi della cultura e della politica italiana , inerenti il loro rapporto con la poesia. Lo stesso Pecora nell'introduzione scrive: "La poesia, è noto viene poco frequentata e pochissimo letta.", op. cit., pag. 235. Che sarebbe poi una delle tesi sostenute da Berdinelli e Cordelli in un libro simbolo degli anni settanta: Il pubblico della poesia, Lerici, 1975.
2. Cinque domande ad Andrea Zanzotto, a cura di Gian Mario Villalta, in Poesia e Nichilismo, a cura di Giovanni Moretto, Il Melangolo, Genova, 1998.
3. Questo e gli altri passi dei manifesti del futurismo sono tratti da Filippo Tommaso Marinetti e il futurismo, a cura di Luciano De Maria, Mondadori Editore, Milano, 1973, poi raccolti in volume assieme ad altri lavori sui manifesti delle avanguardie storiche in: I manifesti delle Avanguardie. Futurismo-Dadaismo-Surrealismo, Euroclub Italia, 1998.
4. A proposito della contrapposizione di Marinetti alla poetica di Mallarmé esiste una preziosa osservazione di Gianfranco Contini, nel saggio Innovazioni metriche italiane fra Otto e Novecento, ora in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino, 1970. Scrive Contini: "...Marinetti dichiara di combattere 'l'ideale statico di Mallarmé'. L'allusione va al platonismo di Mallarmé, ma non potrebbe essere scelta peggio. Evidentemente Marinetti ignorava (cosa lecita fino al 1914) l'edizione originale, in rivista di Un cup de dès, in cui la costruzione sintattica della prosa più dissolta e ricucita di Mallarmé (Igitur) appare ricomposta tipograficamente.
5. Marinetti, op. cit., pag 167.
6. A. Breton, op. cit, pag. 473.
7. Ivi, pag. 491.
8. L. Pignotti, in Immaginazione, Lecce, 1991.
9. S.Sproccati, in A. Faietti, Efisia, poesie frattali, Verona, Anterem, 1991.
10. L.Ballerini, La piramide rovesciata, Venezia, 1975, pag. 7.
11. L.Ori, La poesia visiva, in L'immaginazione, supplemento a Salento Domani, ottobre 1980, n.10, citazione che trovo nella tesi di laurea di Luciano Paronetto Indagine sulla poesia visiva in Italia, Universitò di Venezia (Anno Accademico 1986/87) a cui sono debitore di molte altre informazioni utili.
12. Nella parte conclusiva del lavoro di Paronetto, è riportata anche una interessantissima conversazione con Andrea Zanzotto, il quale sollecitato a esprimersi sulla poesia visivo sostiene la mancanza di logos della stessa.
13. Su Fluxus, fra l'altro, si può consultare Ubi Fluxus ibi Motus, a cura di A.Bonito Oliva, catalogo, Biennale di Venezia, 1991.
14. Ivi, pag. 89.
15. Difesa della natura. Joseph Beuys. A cura di Lucrezia De Domizio, Il quadrante edizioni,1985.


Roberto Dedenaro


(Tratto da Juliet , n° 95, dicembre 1999)

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