I. Raccontare l'Africa
Il racconto costituisce
uno strumento espressivo particolarmente efficace nel contesto africano, che
vi trova uno spazio privilegiato in cui attuare alcune delle sue istanze
fondamentali: da una parte per una questione di ritmo e di concisione, che
riescono a trovare piena espressione in questo genere; dall'altra perché il
racconto permette di mantenere vivo il legame con le narrazioni orali.
Quest'ultimo, poi, è un elemento imprescindibile per comprendere la
letteratura africana che si configura immediatamente con una connotazione che
si potrebbe definire filosofica in quanto riflessione sull'uomo e
sull'esistenza e veicolo di trasmissione di modelli.
Da un certo punto di vista si può dire che non vi è soluzione di continuità
fra il racconto orale, che coniuga in sé la necessità di trasmettere e
conservare valori archetipici con un'istanza ludico-evasiva, e quello
scritto, in cui ancora ben evidente è la coesione organica fra l'artista e la
sua comunità di appartenenza, il suo ruolo comunque militante nella costruzione
dell'identità collettiva: si conserva quella funzione performativa ,
per cui l'atto di raccontare si pone come un gesto affermativo, in grado
d'incidere e di indirizzare il contesto culturale, ma anche socio-politico.
In quanto letteratura che si afferma nella sua forma originale proprio in
contrasto con una presenza estranea dotata di una volontà assimilatoria a dir
poco prepotente, quella dei paesi africani si costituisce necessariamente
come affermazione orgogliosa di un'alterità che trova le sue espressioni più
note all'interno del vasto movimento della négritude , conosciuto
soprattutto nella sua versione francofona, ma ampiamente diffuso anche nei
paesi della cosiddetta Palop ( Países Africanos de Língua Oficial
Portuguesa ): Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Capo Verde, São Tomé e
Príncipe.
Con la decolonizzazione e la nascita delle nazioni africane indipendenti, la
questione identitaria non perde la sua attualità, visti i gravi fenomeni di
«colonizzazione interna», che vedono la sostituzione del dominatore bianco
con élites locali che ne ricalcano i modi e le strategie, e le forme
surrettizie di neocolonialismo a cui le potenze occidentali continuano a
sottoporre l'Africa ancora oggi. Va tuttavia affiorando nella letteratura di
questi paesi un interesse per la rappresentazione dell'individuo che nella
sua unicità è in grado di arricchire il grande mosaico delle identità
nazionali con un contributo originale ma mai disforico rispetto al contesto
che lo ha prodotto; una tendenza perfettamente sintetizzata dal titolo, tanto
pregnante, della raccolta di racconti di Mia Couto: Cada Homem é uma Raça
(Ogni uomo è una razza), del 1990.
Alla base della funzione testimoniale delle narrazioni di questi paesi, per
cui lo scrittore si fa portatore di quella che Carlos Fuentes definisce una
«soggettività collettiva», si può individuare il trauma della colonizzazione
che si riflette anche sulla storiografia, invariabilmente per tanti secoli
limitata a un'unica versione in cui i vinti sono stati ridotti al silenzio. Ricorrendo
a una memoria coriacea che a lungo si è trasmessa soltanto oralmente, i
popoli africani hanno a poco a poco articolato le loro versioni della storia,
che nascono già consapevolmente contaminate dall'invenzione o quanto meno
dalla rielaborazione che ogni narrazione comporta rispetto ai fatti reali: « A
História é uma ficção controlada » è la frase della scrittrice
portoghese Agustina Bessa Luís che Ungulani ba ka Khosa, una delle voci più
interessanti della generazione postcoloniale in Mozambico, mette in epigrafe
a Ualalapi , coinvolgendo polemicamente ogni tipo di storia, anche
(e forse soprattutto) quella ufficiale, che si arroga il diritto esclusivo
della maiuscola:
«In questa luce, la
storia appare veramente come delirio, nel senso etimologico del termine di
allontanamento dal solco, dalla ragione; e la memoria è realmente usata come
invenzione, ancora una volta nel senso etimologico di scoperta».
Questa riscrittura
della storia, che s'impone come elemento dinamizzante contro la visione statica
e stereotipata che il Primo mondo ha voluto costruire dei paesi colonizzati,
presenta una sua peculiare vivacità linguistica frutto di un innesto che si è
rivelato estremamente rigoglioso, quello delle lingue indigene sulle lingue
del colonizzatore in cui gli scrittori postcoloniali, salvo rare eccezioni,
si esprimono. Nel caso della letteratura mozambicana ci si trova davanti a un
portoghese ibridato, sfuggente, non del tutto normato e a tratti giocosamente
anarchico, o perché frutto di una consapevole deviazione dallo standard, come
nel caso di quegli scrittori di discendenza portoghese che hanno una
conoscenza approfondita di quella che è per loro la lingua madre, o perché la
mancanza di una totale confidenza con una lingua appresa sui banchi di scuola
e talora sentita addirittura come la lingua del nemico - è il caso degli
scrittori le cui radici africane sono più antiche - dà luogo a involontarie
creazioni linguistiche che veicolano un immaginario estremamente originale,
giungendo ad arricchire con nuovi contributi la lingua europea d'origine.
Si assiste così, in ambito lusofono, alla nascita di veri e propri novos
portugueses , come potremmo definire, sul modello della più nota
espressione new englishes coniata da Salman Rushdie, queste lingue
che sbocciano dal terreno africano a partire dal seme comune del portoghese
europeo. In questo modo è possibile individuare nella lingua un'area comune
fra madrepatria ed ex-colonie che circoscrive lo spazio di un incontro (o,
spesso, di uno scontro) che non sarebbe altrettanto realizzabile se tutti gli
scrittori postcoloniali con lingua madre non europea decidessero in massa che
la propria cultura può essere espressa soltanto nella loro lingua d'origine:
si delinea così «la possibilità e la necessità di sovvertire, dall'interno,
la lingua degli antichi colonizzatori, trasformandola [...]. La lingua
diviene, dunque, il nuovo terreno di lotta per una libertà che resta,
tuttavia, da conquistare».
II. Il racconto mozambicano ai tempi
del colonialismo
Nel contesto già
estremamente recente delle letterature postcoloniali africane, la letteratura
mozambicana è una delle più giovani e ancora più giovane è la sua narrativa.
Fino alla seconda guerra mondiale non è infatti possibile individuare un corpus
di testi abbastanza allargato e complesso da far sì che si possa parlare
di un'istituzione letteraria consolidata, con le sue case editrici, i suoi
premi, la sua critica, il suo pubblico di lettori.
Le caratteristiche specifiche dell' Estado Novo , che governò il
Portogallo e le sue colonie dal 1926 al 1974, si dimostrarono particolarmente
nefaste per la costituzione e lo sviluppo di letterature autoctone autonome
nei territori africani: il regime dittatoriale, con la sua censura capillare
e sistematica sia nella metropoli che nelle aree periferiche del tanto
decantato Impero, impediva il libero fluire delle idee, diversamente da
quanto accadde all'interno degli imperi inglese e francese.
Pires Laranjeira, che da oltre trent'anni si dedica allo studio delle
letterature africane d'espressione portoghese, individua un primo
macroperiodo (di incubazione ) che giunge fino alla fine della
seconda guerra mondiale, a sua volta suddiviso in due fasi: una cosiddetta d'
incipienza , dall'inizio dell'occupazione portoghese (1498) fino al
1924, anno che precede la pubblicazione di O livro da dor di João
Albasini; e un secondo periodo di preludio , che copre gli anni
dalla pubblicazione di quest'opera fino al 1945.
È fra il '45 e il '63
che la letteratura mozambicana conquista progressivamente una certa
autonomia, prendendo a poco a poco le distanze da quella produzione di palese
matrice colonialista scritta per lo più da viaggiatori o coloni portoghesi in
un'ottica prevalentemente mirata a stupire il lettore con narrazioni esotiche
e folcloristiche e che ha, oggi, un interesse esclusivamente documentario.
In questo arco di tempo si formano a Lourenço Marques, odierna Maputo, una
serie di associazioni culturali che riuniscono rispettivamente - e separano,
considerato che la società mozambicana è la più segregazionista fra gli stati
dell'Africa colonizzata dai portoghesi - i neri ( Centro de Negrófilos ),
i mulatti ( Associação dos Africanos , di carattere più popolare,
aperta a tutti), i bianchi nati in Mozambico ( Associação dos Naturais )
e gli originari di Goa, in India ( Instituto Goano e Associação dos
Operários Indianos ).
Anche nella metropoli questi sono anni di formazione decisiva per quegli
intellettuali che guideranno la vita politica e culturale negli anni delle
guerre di liberazione, che porteranno all'indipendenza dei territori
coloniali e costituiranno il principale elemento corrosivo del regime di
Salazar e di Marcello Caetano: la Rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1974) fu,
in effetti, guidata proprio da quei giovani capitani che seppero dar voce al
malcontento diffuso tra i soldati davanti a una guerra ormai insostenibile
sul piano interno e nel contesto internazionale. Nel luglio del '44 era stata
fondata a Lisbona la CEI ( Casa dos Estudantes do Império ), punto
di ritrovo fondamentale per gli studenti originari delle colonie e fucina di
elaborazione delle principali ideologie anticolonialiste. È un periodo
particolarmente intenso per la formazione di una coscienza di gruppo fra gli
umanisti africani, profondamente influenzati dalle poetiche del Neorealismo
europeo e nordamericano e, soprattutto a partire dai primi anni '50, della Négritude.
Uno dei primi nomi che emergono nella narrativa mozambicana è quello di
João Dias (1926-1949), la cui raccolta Godido e outros Contos venne
pubblicata postuma proprio dalla CEI, nel 1952: in Indivíduo preto si
stigmatizza ironicamente la lentezza stolida delle gerarchie imperiali che
occultano spesso discriminazioni razziste molto gravi. La componente polemica
tende evidentemente a prendere il sopravvento sulle istanze di ordine
estetico e le considerazioni ideologiche occupano gran parte del racconto,
seppur deviate, con un espediente che produce un effetto sarcastico, nel
discorso indiretto libero che esprime il pensiero del signor Meireles,
responsabile della scelta del nuovo capo di sezione delle ferrovie locali
(bianco o nero?):
«Na rua, compõe o
macadame uma dúzia de negros com regadores de alcatrão e troncos semi-nus em
suas camisas rotas. Talvez alguns, a maioria, se sinta feliz nessa
insuficiência de vida: trabalho de besta e arroz. A tragédia do homem só
nasce da consciência de se bastar e querer ir além, de ver na felicidade o
começo da infelicidade. Os negros porém, deviam ser todos dóceis, activos
como máquinas, e com a inteligência necessária apenas a satisfação dos
desejos dos brancos. Os que assim não são persistem só para complicar as
coisas».
I rapporti fra bianchi
e neri sono il punto focale anche in Zampungana di Virgílio de Lemos
(1929), ma da un punto di vista completamente diverso che evidenzia come
capitasse spesso che i figli dei coloni portoghesi, per lo più di estrazione
sociale piuttosto bassa, condividessero, soprattutto nell'epoca dell'infanzia
ancora incolume dai pregiudizi, gli stessi spazi e le stesse esperienze in un
territorio che si andava definendo all'insegna del meticciato culturale; per
quanto separatista, la società mozambicana non raggiunse gli estremi dell' apartheid
del vicino Sudafrica:
«Naquela altura nunca
dei pelas diferenças que existiam entre nós. Eu era pardacento, com um cabelo
louro e encaracolado; minha mãe muito magra de olhos rasgados em amêndoa,
cabelo muito liso e um tom de pele igual à umbila da mesa onde habitualmente
trabalho; o Benjamin era negro, mas não tanto como a sua mãe e o nosso
moleque António que eram pretos de verdade, tão pretos como o
"Zampungana".
Para mim as pessoas valiam unicamente pela sua bontade e pela maneira como me
falavam ou se dirigiam a minha mãe».
Storie di donne che
trasmettono la loro malinconia alle canzoni che cantano e alle storie che
raccontanto si trovano anche nei brevi racconti del più noto poeta
mozambicano, José Craveirinha (1922), la cui tendenza alla narrativizzazione
trapela anche dalla sua opera poetica, a partire da uno dei suoi titoli più
noti, Karingana ua Karingana , che è la formula in cui di solito
cominciano i racconti popolari, equivalente al nostro «C'era una volta...».
Nel mondo africano, la facoltà di raccontare storie è una sorta di carisma
che si distribuisce imprevedibilmente attraverso le diverse caste sociali:
come la Negra Rosa protagonista del racconto omonimo di Ruy Guerra che ci
viene presentata attraverso un narratore mimetico che ricalca il portoghese
elementare e paratattico che la vecchia serva, con una memoria così lunga e
tante storie da raccontare, doveva parlare: ridondante e formulaico, come le
storie che la balia inventava per i bambini e che l'autore rievoca con
evidente rimpianto.
III. Gli anni della militanza:
indipendenza e nascita di una nazione
Ma è con l'inizio della
guerra di liberazione contro il colonialismo portoghese (1964) che comincia,
non a caso, un periodo di grande sviluppo della letteratura nazionale,
all'insegna della militanza politica e della tematizzazione della
rivoluzione. La cosiddetta letteratura di guerriglia (detta anche di
ghetto ) affina una serie di strategie testuali per dissimulare la sua
polemica contro l'imperialismo portoghese: bersagli preferiti diventano
l'America del nord e l' apartheid ; si difendono la
nazionalizzazione e una nuova fruizione delle zone liberate, si raccontano
l'esilio e la diaspora. L'incitazione alla rivolta collettiva viene spesso
mascherata dietro l'insofferenza individuale, pseudo-esistenzialista, si
rivestono i testi con copertine devianti rispetto ai contenuti, con strategie
simili a quelle messe in atto, negli stessi anni, dagli scrittori portoghesi
d'opposizione, per eludere la censura salazarista. La guerra di liberazione è
a quest'epoca un argomento imprescindibile e diventa molto difficile
implicarlo senza creare opere eccessivamente panfletarie, in cui l'istanza
estetica non venga completamente soggiogata dall'urgenza militante.
Tuttavia la storia della narrativa mozambicana non subisce una battuta
d'arresto: è proprio nell'anno in cui comincia la guerra contro il Portogallo
che viene pubblicata l'opera che sancisce la definitiva emancipazione della
scrittura letteraria nazionale dalla dilagante preponderanza della poesia: si
tratta di Nós Matámos o Cão Tinhoso di Luís Bernardo Honwana, una
raccolta di racconti di cui fa parte anche As mãos dos pretos che
Nelson Saúte ha scelto come titolo dell'antologia del racconto mozambicano da
lui curata, definendolo come forse «il più bel racconto che è stato scritto
da sempre nella letteratura mozambicana». Il giovane narratore vuole
assolutamente scoprire come mai le palme delle mani dei neri sono più chiare
del resto del corpo e raccoglie così una serie di storielle e credenze che
dipingono un affresco dei pregiudizi e delle discriminazioni che vigevano nel
Mozambico colonialista: il suo professore gli spiega che le palme dei neri
sono più chiare perché fino a pochi secoli prima i loro nonni camminavano con
le mani appoggiate al suolo, «come animali della foresta», cosicché il sole
aveva reso scuro tutto il resto del corpo eccetto quelle; il prete, a
catechismo, gli spiega che i neri hanno le mani così chiare perché se ne
vanno sempre in giro a pregare, di nascosto però; Dona Dores, paziente, afferma
che ovviamente le hanno così per non sporcare il cibo che preparano per i
loro padroni, ma il signor Antunes, che porta la Coca Cola al villaggio ogni
volta che le riserve finiscono, dice che tutto quello che hanno raccontato al
ragazzo non sono altro che fandonie e che le ragioni di questo mistero sono
molto ma molto più antiche: quando «Dio, Gesù Cristo Nostro Signore, la
Vergine Maria e San Pietro» si riunirono in cielo con molti altri santi e
anime di morti decisero di fare i neri: presero dell'argilla e riempirono
degli stampi fatti apposta per poi infilarli nei forni celesti ma, siccome
non c'era spazio sufficiente e loro andavano di fretta, li appesero ai camini
e con tutto quel fumo quegli uomini vennero fuori «neri come il carbone». E
le mani? «E secondo te come facevano a tenersi stretti mentre l'argilla
cuoceva?», conclude il signor Antunes rivolgendosi al ragazzo e scatenando
l'ilarità generale. Ma una volta che questi se ne va, il signor Frias chiama
da parte il giovane e con grande serietà gli spiega che tutto quello che sa
lui è che il Signore, una volta fatti gli uomini, li spedì tutti a farsi un
bagno in un lago celeste: i neri, visto che furono fatti all'alba, arrivarono
che l'acqua era freddissima e riuscirono a lavarsi solo le palme delle mani e
le piante dei piedi. Ma il ragazzino non è convinto e comincia a consultare
dei libri: i neri hanno le mani così perché hanno passato tutto il tempo
piegati a raccogliere cotone bianco in Virginia e chissà dove, in giro per il
mondo. Dona Estefânia non è d'accordo: l'unico motivo per cui i neri hanno le
mani così è che se le sono lavate troppo. Il ragazzino conclude che l'unica
ad aver ragione, in tutto quel parapiglia, dev'essere sua madre: Dio aveva
fatto i neri perché non poteva farne a meno, ma si pentì in fretta perché
subito gli altri uomini se n'erano approfittati e se li erano portati a casa
come servi. Dio però, che non poteva più tornare indietro perché ormai tutti
si erano abituati a vederli così neri, decise allora di fargli almeno le palme
delle mani bianche, per dimostrare che «quello che gli uomini fanno, è fatto
da mani uguali, mani di persone che se avessero giudizio saprebbero che prima
di essere qualsiasi altra cosa sono uomini. Dev'essere stato dopo aver
pensato così che Egli fece in modo che le mani dei neri fossero uguali a
quelle degli uomini che rendono grazie a Dio perché non sono neri». La
spiegazione sconvolge il narratore:
«Quando fugi para o
quintal, para jogar à bola, ia a pensar que nunca tinha visto uma pessoa a
chorar tanto sem que ninguém lhe tivesse batido».
La narrativa
mozambicana prosegue la sua ascesa: nel 1966 esce quello che è considerato il
primo romanzo mozambicano, Portagem di Orlando Mendes, il dramma di
un meticcio in una società razzista, e nel 1971 vengono pubblicati i tre
numeri della rivista «Caliban».
A un altro dei maggiori poeti mozambicani, Heliodoro Baptista (1944), si
deve, agli inizi degli anni '70, la trasposizione in racconti scritti in
portoghese di un prezioso patrimonio di leggende orali che riportano alle
origini precoloniali e a una letteratura completamente avulsa dal contatto
col colonizzatore bianco. L'istanza conservativa di questi miti, in cui la
realtà quotidiana pare incontrarsi naturalmente con il magico, secondo
modalità che nel lettore occidentale risvegliano reminiscenze della più nota
letteratura sudamericana, si collega a un tipo di letteratura che è anche un
«atto di sopravvivenza» contro una concezione della cultura che tende a
estromettere tutto ciò che c'è stato prima dell'arrivo dei bianchi e che non
si è espresso nella loro lingua.
La proclamazione
dell'indipendenza nazionale (25 giugno 1975) inaugura la fase cosiddetta del consolidamento
, nettamente diversa dalle precedenti: le strutture del potere, della
società, dell'economia e della cultura si trasformano radicalmente e questa
metamorfosi si riflette indubbiamente anche nel percorso delle letterature.
Questo periodo può, a sua volta, essere suddiviso in due momenti: uno
estremamente rivoluzionario e militante - tra il 1975 e l'85, in cui si
rafforza lo «stalinismo ideologico ed estetico», si celebrano gli eroi della
rivoluzione, si esortano gli animi contro gli aggressori esterni e interni.
La guerra continua ad avere un impatto decisivo sulla letteratura: dalla
guerra di liberazione contro il colonialismo si passa, dopo pochissimi anni,
alla guerra civile fomentata dalla Renamo ( Resistência Nacional
Moçambicana ) contro il governo della Frelimo ( Frente de Libertação
Nacional) , partito leader della guerra anticolonialista.
Questo conflitto interno costituisce un enorme trauma collettivo le cui
ferite sono ancora aperte:
«O relativo silêncio
actual poderá reflectir o facto de que é ainda muito doloroso o confronto com
as implicações do conflito. Também pode ser devido ao facto de a literatura
ter dificuldade especial em lidar com algumas das mais horrorosas
experiências que o homem teve de suportar. Por agora, estes acontecimentos
terríveis estão nas mentes das suas vítimas».
Vi è poi una seconda
fase che può essere definita di superamento dello stigma coloniale ,
con le sue implicazioni ideologiche ancora ben patenti, verso la definizione
di una vera e propria «postcolonialità estetica», in cui si può distinguere
una netta reazione antizdanovista e anticomunista, l'ansia di un democratismo
di matrice borghese che si riflette, a livello estetico, in un frammentarismo
di forme estetiche che individuano un'area d'intersezione con la letteratura
postmoderna (da cui tuttavia il postcoloniale prende consapevolmente le
distanze e tiene a distinguersi), all'insegna di una tendenza alla
contaminazione e al meticciato culturale che, per molti di questi autori, si
prospetta come un'istanza densa di radici etnico-biografiche.
Contro tutte le reticenze e gli scetticismi si va affermando a poco a poco
una letteratura nazionale autonoma che conosce il suo culmine nella «decade
prodigiosa» degli anni '80. È nel 1982, infatti, che nasce l'AEMO ( Associação
de Escritores Moçambicanos ) e nel 1984 comincia la pubblicazione della
rivista «Charrua» che esce in otto numeri, curata da una generazione di « novíssimos
» fra cui emergono Ungulani ba ka Khosa, Hélder Muteia, Pedro Chissano e
Juvenal Bucuane: nuove prospettive per la letteratura impegnata si aprono
dando luogo a esiti fino ad allora impensabili nell'ambito dell'istituzione
letteraria mozambicana.
L'implicazione socio-politica è ancora molto viva in questi autori: fra i
temi ricorrenti si affaccia il contrasto tra città e campagna, tipico di una
prima fase nell'evoluzione delle letterature postcoloniali in cui le due
realtà assurgono a significati metaforici. In Liberdade... la città
presenta tutti gli attributi di una prigione con le sue strade enormi e
trafficate, la mancanza di reali contatti, la solitudine, l'individualismo,
quella città dove si vuole prospettare come efficienza una burocrazia dai
tratti kafkiani che si chiude a cerchio attorno al «povero contadino» Mikas
Dunga, (pseudonimo che l'autore, Pedro Chissano (1956), utilizza spesso nelle
sue storie) fino a condurlo a un'inspiegabile eliminazione a bordo di un
aereo con destinazione ignota mentre lui piange gridando: «Non sono
improduttivo». La burocrazia ottusa della nuova nazione mozambicana viene
stigmatizzata con grande ironia anche in A Nona Pata da Aranha di
Leite de Vasconcelos (1944-1997), figura ormai mitica nell'ambito della
cultura mozambicana, dove si distinse soprattutto come cronista e implacabile
coscienza critica del periodo postcolonialista: il piccolo Papaíto ha trovato
un ragno a nove zampe e la scoperta getta l'intera comunità nel caos; davanti
all'insetto il professore di scienze nega categoricamente che un ragno possa
avere nove zampe e caccia il bambino dall'aula dicendogli che è proibito
portarvi degli animali; il giornalista Juvenal si fa soffiare l'occasione di
uno scoop da sotto il naso ignorando che un ragno con nove zampe è in effetti
una cosa più unica che rara; il padre, appena viene a conoscenza
dell'esistenza del ragno, si affretta ad accompagnare Papaíto dagli organi
incaricati di registrare l'evento. Comincia così l'odissea da un ufficio
all'altro, fintanto che il padre viene richiamato dai membri del Gruppo
Dinamizzatore per la confusione che ha creato. Papaíto viene a sua volta
rimproverato dal padre. A questo punto il ragazzino decide di porre fine alla
questione schiacciando il ragno davanti ai genitori e agli ospiti curiosi e
rapaci che hanno invaso la casa. Lo vediamo nella scena finale con un vecchio
barbone suo amico che lo interroga sull'accaduto:
- Aconteceu como
planeaste?
- Sim.
- E o teu pai?
- Combinámos que se eu encontrar outra aranha com nove patas não dizemos
a ninguém.
- Hum, então ele
desconfia?
O Papaíto riu-se.
- Eu acho que ele sabe e está satisfeito.
O velho passou-lhe o frasco.
- Fiz como disseste, dei-lhe moscas vivas.
O Papaíto levantou o frasco para a luz. Contou as
patas da aranha.
Eram nove.
È del 1986 l'uscita del
libro di racconti Vozes Anoitecidas che inaugura la parabola di Mia Couto
come prosatore, che ben presto si distingue come il fautore principale di una
vera e propria rivoluzione stilistico-espressiva nell'ambito della
letteratura mozambicana provocando accese polemiche e discussioni animate. Il
fulcro del dibattito converge sulla questione della libera creatività della
parola, sulla rappresentazione di temi scottanti, veri e propri tabù, quali
la convivenza delle razze e il meticciato delle culture.
IV. Fari
nella nebbia. Scrivere nel Mozambico degli anni '90
Nell'ottobre del 1992,
con la firma degli accordi di pace a Roma, comincia il periodo della
cosiddetta apertura politica del regime che, secondo quanto afferma Nelson
Saúte, si traduce fra l'altro in una crisi morale e di valori sempre più
intensa caratterizzando una fase da lui definita di cinzentismo - da
cinzento , grigio - che, in un contesto come quello africano, in cui
la coesione fra l'artista e la comunità è estrema, influenza inevitabilmente
la letteratura. Il giovane critico mozambicano delinea una situazione
drammatica, di involuzione e individua negli anni '90 un'ondata di riflusso
caratterizzata da una drastica riduzione degli spazi espressivi di valore
negli organi di comunicazione.
La visione negativa della contemporaneità si racconta, nella prefazione di
Saúte, attraverso i toni intensi di chi partecipa in prima persona, come
narratore, poeta e critico, della situazione culturale del paese, nonché di
chi, in quanto cittadino mozambicano, assiste allo sfacelo politico ed
economico in cui il suo paese sta sprofondando e partecipa di un clima in cui
le tensioni sociali sono sempre più forti e in cui le condizioni per chi
esercita la letteratura con grande consapevolezza etica e intenti militanti
si fanno sempre più critiche.
Da un punto di vista periferico rispetto al contesto mozambicano vengono in
mente considerazioni non altrettanto pessimistiche, impressioni spurie di chi
si sta avvicinando soltanto ora al mondo delle letterature postcoloniali
dell'«Africa che scrive in portoghese» e riscontra piuttosto un'estrema
vitalità di queste letterature legata anche alla risonanza che esse stanno
cominciando ad avere in ambito internazionale. Si sta certamente aprendo un
nuovo capitolo in queste aree, all'insegna di una riscrittura degli «antichi
miti, sogni, realtà e utopie», che vengono trasposti in ambito letterario e
si confondono e si mescolano con i contributi delle religioni importate dai
colonialisti nonché con gli aspetti più disparati della nuova società
tecnologica che ha invaso anche il Terzo mondo saltando le fasi intermedie e
imponendo una nuova sensibilità e un nuovo gusto che non si affermano però
sradicando il passato, bensì trasformandolo, creando improbabili convivenze e
stridenti contiguità. Si continuano a pubblicare racconti di numerosi autori
tra cui emergono Lília Momplé (1935), Raul Bernardo Honwana (1941), Albino
Magaia (1947), Aldino Muianga (1950), Marcelo Panguana (1951), Fernando
Manuel (1953), José Pastor (1954-1993), Júlio Bicá (1961), Orlando Muhlanga
(1963-1996) e Nelson Saúte (1967). Ma sono soprattutto tre le personalità
letterarie che, già apparse sullo scenario fibrillante degli anni '80, nel
decennio successivo intensificano la loro attività e vedono la loro
popolarità crescere fino a raggiungere, almeno in un caso, le dimensioni di
un fenomeno internazionale di straordinaria levatura: si tratta di Paulina
Chiziane, di Ungulani ba ka Khosa e, naturalmente, di Mia Couto, la cui opera
continua a essere diffusa con grande entusiasmo in Italia.
Paulina Chiziane (1955) è stata la prima donna mozambicana a pubblicare nel
1990 un romanzo, Balada de Amor ao Vento a cui ne sono seguiti altri
due, Ventos do Apocalipse (1991) e O Sétimo Juramento (2000),
che uscirà a breve in traduzione italiana presso l'editrice La Nuova
Frontiera di Roma. La sua scrittura si costruisce sull'eccezionale capacità
di intessere intrecci in cui trovano posto considerazioni filosofiche,
descrizioni di riti magici e misteriosi che si svolgono nelle remote campagne
mozambicane dove l'autrice è nata e ha trascorso la sua infanzia, uniti alla
rappresentazione impietosa della nuova classe dirigente della nazione che ha
preso a modello le stesse strategie tiranniche e di sfruttamento dell'antico
colonizzatore. Figlia di genitori non assimilados - suo padre
rifiutò sempre l'integrazione culturale, come strategia di resistenza passiva
- Paulina apprese il portoghese soltanto in età scolare e per lei esso rimase
sempre una lingua esterna ai rapporti della quotidianità. Questa sorta di
disagio in relazione alla lingua della sua scrittura non le impedisce - anzi
verosimilmente le permette - di sviluppare una poetica estremamente
personale, un immaginario inedito per il lettore occidentale raccontato
attraverso un impasto linguistico che vede incastonarsi, su un'ossatura portoghese,
termini ed espressioni mutuate dalle lingue mozambicane, in particolare il
chope, parlato in famiglia, e il ronga, lingua più diffusa a Maputo.
Uno sguardo particolare è dedicato alla condizione femminile affrontata nella
sua complessità da una prospettiva spregiudicata che parte dall'esperienza
personale e di altre donne, per articolarsi in posizioni originali che
sembrano prescindere dalle teorie del femminismo occidentale classico e, al
tempo stesso, scatenano le ire dei benpensanti in un paese dove trattare
certi temi è ancora altamente rischioso. In As Cicatrizes do Amor un
gruppo di donne e uomini si raccolgono sulla sabbia davanti all'oceano nella
brezza dell'estate mozambicana. Qualcuno sfoglia un giornale e proferisce ad
alta voce il suo sdegno davanti all'ennesimo caso di neonati abbandonati
dalla madre; ognuno dice la sua, distribuendo colpe a destra e a manca,
fintanto che, aiutata dall'alcool che la rende più audace, prende la parola
Maria - nella cornice del racconto si inserisce così un narratore di secondo
grado - che confessa la sua storia di dolore: l'abbandono da parte dell'uomo
amato con una bambina appena nata, la volontà di non arrendersi, il viaggio
disperato fino al Sudafrica per ritrovare l'uomo, gli incontri pericolosi, la
malattia della neonata e la volontà ostinata di sbarazzarsene. Maria si
confessa in una sorta di danza liberatoria descritta da quello che sembra un
coro interno all'azione che introduce nella narrazione un elemento ritmico
dalla concretezza visiva e rievoca il carattere antifonico della
poesia orale africana in cui un solista e un coro si alternano dando vita
vere e proprie performance :
«Retalhos da vida, revolteando as entranhas de quem as escuta. Atenção o que aqui se conta,
está a acontecer agora!, em qualquer parte do mundo. E tu bailas, Maria, o
streep-tease das batucadas da tua amargura, que a embriaguez revolveu-te a
língua. Desatas o lenço e a capulana. Da blusa já levantada, espreitam os
seios surrados de mil beijos, desfraldas as cortinas dos teus segredos, és
indecente, Maria!»
Gli astanti sono
ipnotizzati dalle parole e dal dolore della donna che vuole denudarsi,
confessare il segreto vergognoso di aver pensato, in un momento di follia, di
liberarsi di quella figlia che adesso è lì con lei e ascolta. Il coro
riprende la parola:
«Porque escondes os olhos, Maria? Talvez te envergonhes dos teus actos,
talvez te arrependas do teu relato, ou mesmo te revoltas contra a sociedade
que te conduziu aos caminhos da tragédia. As cicatrizes do amor rasgaram as
crostas e jorraram um líquido sangue que escorre pelas curvas das tuas
pálpebras».
Attraverso uno sguardo
candido e spietato la Chiziane scombussola i parametri convenzionali di
giudizio e al tempo stesso coinvolge il lettore nell'atmosfera surreale,
eppure verissima, delle sue storie.
Ungulani ba ka Khosa (1957), con il suo libro d'esordio, Ualalapi ,
s'inserisce pienamente nella linea di riscrittura della storia ufficiale
delle letterature postcoloniali, ricostruendo, attraverso una serie di episodi
che possono essere letti anche come racconti autonomi, la saga di
Ngungunhane, imperatore del regno mozambicano di Gaza, celebre per la strenua
resistenza che oppose ai colonizzatori portoghesi alla fine dell'Ottocento.
Quest'opera si pone in realtà come una demistificazione delle versioni
correnti sulle vicende di questo personaggio: sia quella coloniale, che ha
voluto dipingerlo come un vigliacco traditore; sia quella rivoluzionaria, che
invece si è limitata a incensarlo acriticamente come un eroe senza macchia:
viene ribadita ancora una volta l'idea fondamentale che ogni racconto è
parziale e soggettivo.
La contrapposizione fra la civiltà tradizionale e quella moderna rappresenta
una tematica a dir poco ossessiva per questo autore le cui storie - spesso
microstorie, perché ogni minimo personaggio, ogni comparsa quasi, è inseguito
almeno per qualche riga in cui se ne traccia brevemente il profilo - dietro
la complessità tipica della letteratura scritta, ripropongono la struttura
del racconto meraviglioso orale a schema discendente in cui il protagonista
viene punito per avere infranto le norme della sua comunità.
L'importanza della tradizione orale viene spesso tematizzata e sullo scenario
delle sue storie vediamo spesso comparire narratori infradiegetici, nella
cornice tipicamente africana delle narrazioni attorno al fuoco, che si
esprimono in un linguaggio fitto di proverbi, ideofoni, immagini mutuate
dall'universo dei fenomeni naturali e dal mondo animale, che delineano un
paesaggio promiscuo in cui non esistono barriere fra reale e magico, fra vivi
e morti, fra possibile e immaginario. Questo recupero della sostanza
originaria della propria terra, quella cosiddetta mozambicanità su
cui tanto discutono i critici, è ben evidente anche nella scelta dell'autore
di pubblicare con il suo nome tsonga preferendolo a quello «portoghesizzato»
di Francisco Esau Cossa.
La visione delle cose che trapela dalla sua scrittura è quella di un universo
caotico - vorremmo quasi definirlo gaddiano - in cui è impossibile individuare
una successione lineare degli eventi perché ogni filo si dirama in infiniti
altri che s'intrecciano e si complicano in un gomitolo pieno di nodi e
sfilacciature. Lungi dal lasciarsi spaventare da questa mancanza d'ordine e
di consequenzialità, Khosa vi si abbandona con sentimento carnevalesco, dando
luogo a una scrittura barocca, immaginosa, gonfia di vita. Lo vediamo in
piena azione, in Morte inesperada , che appartiene alla raccolta dal
titolo particolarmente calzante di Orgia dos Loucos (Orgia di
pazzi): attorno alla morte di uno sventurato personaggio, Simbine, che mentre
aspetta l'ascensore decide inspiegabilmente d'infilare la testa nel vetro
rotto della porta, per vederlo arrivare, e non riesce più a estrarla finendo
praticamente decapitato dal moderno arnese, fioriscono le infinite
vicende di tutti i partecipanti alla scena: il portiere che non era presente
sul luogo di lavoro nel momento dell'incidente perché si trovava in un bar
vicino a bere l'ennesima birra visto che, per una stregoneria di una vecchia
zia, era condannato a rimanere solo per tutta la vita ed era ormai
alcolizzato; la madre della vittima che scende le scale ignara per scoprire
l'accaduto e di cui si rievocano gli scontri col figlio che rifiutava di
studiare adducendo antichi proverbi sulle tradizioni africane; la vecchia che
aveva donato al portiere la giacca che questi si stava per dimenticare nel
bar e che era appartenuta al marito defunto che in punto di morte l'aveva
maledetta intimandole di punirla ogni qualvolta un uomo le si fosse
avvicinato. E così via in un caleidoscopio di vivaci comparse che si muovono
nell'universo del racconto come tanti puntini colorati, sottratti per sempre
all'anonimato.
Mia Couto (1955), il più noto e il più studiato fra gli autori mozambicani
della nuova generazione, entra giovanissimo a contatto con i gruppi
studenteschi che appoggiano l'azione dei guerriglieri della Frelimo e inizia
una precoce carriera giornalistica abbandonando momentaneamente gli studi di
medicina per dedicarsi totalmente alla causa rivoluzionaria. Pochi anni dopo
l'indipendenza del paese si riavvicina all'ambiente universitario dove entra
in contatto con gente della sua generazione, o poco più giovane, che
corrisponde alla sua esigenza di rapportarsi in maniera nuova alla sua terra
e alle persone:
«E a nova geração está
muito menos marcada, muito mais livre, capaz de se relacionar com os
indivíduos sem olhar muito à raça».
Il suo primo libro, Raíz
de Orvalho , pubblicato nel 1983, è una raccolta poetica polemicamente
diversa dallo stile della poesia panfletaria che dominava incontrastata nel
panorama letterario del paese: un tentativo di fare poesia d'avanguardia
senza fare poesia politica. Lo stesso atteggiamento Mia Couto lo adotta in
relazione alle testimonianze di guerra che raccoglie numerosissime,
semplicemente parlando con le persone, ascoltando le loro storie e
cominciando a trasformarle in racconti che vogliono conservare «la grazia e
la scioltezza» del parlato: il suo lavoro sulla lingua riproduce nel suo paese
le ricerche stilistiche realizzate da autori come il brasiliano João
Guimarães Rosa e l'angolano Luandino Vieira, giungendo a creare un peculiare
«sapore mozambicano». Per questo la sua scrittura è considerata un apporto
vivificante per tutta la lingua portoghese.
Anche la sua poetica, come in quella di Khosa, è caratterizzata da una
dialettica con il patrimonio orale, imprescindibile, a detta dell'autore
stesso, per entrare in contatto con l'anima più autentica della terra da cui
scrive - un'esigenza avvertita come particolarmente urgente per un
mozambicano di recente acquisizione come lui, figlio di portoghesi
trasferitisi in Mozambico pochissimi anni prima della sua nascita. Questa
relazione è giocata però su differenti piani, non ultimo quello della parodia
che lascia irrisolta la questione, ad esempio, del primato fra oralità e
scrittura, fra tradizione e modernità. Il suo sguardo attento di cronista
della contemporaneità si limita a registrare e a raccontare attingendo da
tutto il patrimonio che ha a disposizione: le leggende, le credenze, gli
episodi a cui gli capita di assistere per strada, le storie che viene a
sapere, la drammatica attualità della guerra - tema ricorrente a più livelli
in tutta la sua opera -, le ingiustizie sociali; un'inesauribile capacità
creativa e rielaborativa fa di lui uno dei più apprezzati «narratori di
storie» del mondo lusografo, e non solo.
È grazie ad autori come lui, come la Chiziane e Khosa, che la letteratura
mozambicana ha saputo liberarsi dall'esclusiva adesione al tragico che era la
sua cifra più evidente, pur continuando a testimoniare il male,
l'ingiustizia, i soprusi, la povertà, la morte e la guerra.
Questa istanza testimoniale ancora tanto viva non distrae Mia Couto
dall'individuo, sempre osservato nella sua unicità, ora poetica, ora
divertita, ora mostruosa. Raccontare è una missione destinata a riuscire
comunque male perché la natura umana è sempre più vasta del dicibile e sfugge
a ogni rappresentazione, come sembrano dirci queste parole dell'incipit di O
apocalipse privado do tio Geguê :
«História de um homem é
sempre mal contada. Porque a pessoa é, em todo o tempo, ainda nascente.
Ninguém segue uma única vida, todos se multiplicam em diversos e
transmutáveis homens.
Agora, quando desembrulho minhas lembranças eu aprendo meus muitos idiomas.
Nem assim me entendo. Porque enquanto me descubro, eu mesmo me anoiteço,
fosse haver coisas só visíveis em plena cegueira».
Fra le righe di questa
dichiarazione d'impotenza, la chiave di lettura di tutta una letteratura che
ha saputo fare dell'aporia la sua essenza e la sua forza.
Silvia Cavalieri
(Tratto
da Bollettino
'900 - Giugno-Dicembre 2002, n° 1-2)
|