Contro le profezie di sociologi e futurologi, il boom della Rete esalta
il valore dello spazio: comanda chi controlla
gli snodi strategici della net economy. Ecco perché trionfano gli Usa, e
in particolare il California.
La
gente non vive negli stessi luoghi semplicemente per stare assieme. Stanno
insieme per
fare qualcosa insieme.
L’unico posto sulla Terra che non sta cercando il modo di diventare una Silicon Valley, è la Silicon Valley.
1.
Navigare su Internet non costa quasi niente. Per il prezzo – sempre più basso – di un personal computer e di una telefonata, ci si può collegare col mondo intero. Si può avere accesso a fonti pressoché infinite di informazioni. Ci si può collegare con i mercati di tutto il pianeta, per acquistare prodotti e servizi, vendere la propria attività o far conoscere la propria immagine. Mai una nuova tecnologia ha avuto fin dalla nascita una vocazione così aperta e inclusiva, tendenzialmente egualitaria e democratica. Neppure l’invenzione della ferrovia, del telegrafo e dell’automobile, che pure accorciarono il tempo e lo spazio, riuscirono a rimpicciolire il pianeta fino a questo punto. neppure la televisione e il telefono sono così refrattari alla censura e al controllo. E la gran parte delle industrie precedenti richiedevano, per entrarvi da imprenditore, capitali e macchinari ben più costosi di quelli che occorrono per fondare una dot.com, un’azienda che operi solo sulla Rete.
Da
queste premesse è nata un’aspettativa forte: che la rivoluzione digitale e
l’avvento dei Internet avrebbero reso le nazioni più eguali fra loro, avrebbero
ridotto la distanza fra paesi ricchi e paesi poveri, avrebbero quindi
ridimensionato la supremazia degli Stati Uniti sul resto del mondo. Se il
know-how diventa facilmente accessibile, e lo si può acquistare come una commodity, una materia prima disponibile
su tutti i mercati, perché un paese dovrebbe conservare un vantaggio
tecnologico permanente su tutti gli altri? Se Internet rende infinitamente più
facile delocalizzare a Bangalore (India) la programmazione del software per le
multinazionali americane, in quanti anni l’intera industria informatica finirà
per spostarsi nei paesi dove può produrre con costi del lavoro molto inferiori?
Nell’era del telelavoro, che differenza c’è tra scrivere questo articolo a San
Francisco, oppure sulla costiera amalfitana dove col mio computer ho accesso a
tutti i notiziari e a tutte le biblioteche virtuali del pianeta? E allora
perché il lavoro intellettuale non dovrebbe emigrare verso paesi dove affittare
una casa costa dieci volte meno che in California?
Come
accade spesso, la storia invece ha imboccato una strada molto diversa dagli
scenari dei futurologi. al termine del periodo 1995-2000 che ha segnato
l’esplosione della net economy su tutto il pianeta, la distanza tra il numero
uno – cioè gli Stati Uniti – e il resto del mondo si è allargata ulteriormente.
Secondo
l’indicatore del digital divide incluso
nel Globalization Index, il Nord America oggi padroneggia Internet cinque volte
più dell’Europa occidentale. Attenzione: non si tratta del semplice dato sulla
percentuale di popolazione che ha qualche occasione di navigare on line (anche
su quel fronte, comunque, gli Stati Uniti con il 60% di abitanti collegati ad
Internet sono più avanti dell’Europa, con l’unica eccezione della Scandinavia).
Questo indicatore del digital divide è
più completo e più interessante
perché include il numero di siti, di
server, e di Internet service provider: quindi tiene conto non solo della
fruizione passiva dei servizi on line, ma del grado di padronanza attiva che un
paese ha in questi settori.
Gli
stati Uniti, in questi ultimi anni, hanno visto aumentare sistematicamente la
posizione dominante - in certi casi
monopolistica – delle proprie imprese che controllano tutte le nuove tecnologie
strategiche, di cui il mondo intero ha bisogno: Intel e Sun Microsystems dei
microprocessori, Cisco nelle infrastrutture di telecomunicazione in fibre
ottiche, il trio Hp-Dell-Compaq nei computer, Microsoft nel software col 90%
del mercato mondiale dei programmi per i pc (nonostante l’offensiva
dell’antitrust), America On-Time Warner come Internet service provider e leader nella convergenza multimediale.
Mentre
l’Europa angosciata dalla mucca pazza si chiudeva nel rifiuto della
biogenetica, la mappatura del menoma umano avviata prevalentemente dagli
americani garantirà agli Stati Uniti un’egemonia duratura anche nella prossima
ondata di applicazioni industriali delle biotecnologie. C’era solo un campo in
cui gli Stati Uniti erano rimasti indietro, cioè la telefonia cellulare, ma in
vista della “terza generazione” (la convergenza tra cellulari e internet) il
leader mondiale di queste applicazioni, cioè la giapponese DoCoMo, si è
affrettata a investire dieci miliardi di dollari per entrare nel capitale della
At&T e portare in dote agli americani la sua esperienza in questo settore.
2.
Com’è potuto accadere tutto questo? Perché l’era di Internet, lungi dal ridurre
le distanze, ha segnato un rafforzamento del primato americano e dell’egemonia
usa sul resto del mondo? Eppure, non erano del tutto infondate le premesse di
chi teorizzava un livellamento mondiale per effetto delle nuove tecnologie.
Secondo le analisi del Pacific Council for International Relations, grazie al
miglioramento delle comunicazioni, una quota fra il 10 e il 20% del pil dei
paesi industrializzati oggi può essere delocalizzato all’estero. Produrre fuori
del proprio paese di origine è diventato obiettivamente più facile. Le imprese
sono più libere che mai di scegliere una localizzazione geografica nuova per i
propri studi di ricerca, indipendentemente da dove esse sono nate, o da dove
mantengono il proprio quartier generale. E senza alcun dubbio la potenza di
Internet sta ridisegnando il nostro spazio geografico. Così come la ferrovia,
il telegrafo e la grande fabbrica taylorista-fordista segnarono
l’urbanizzazione del primo Novecento e il rapporto fra gli uomini e i
territori. Il problema è che la “new geografy”dell’era digitale, come è stata
definita da Joel Kotkin, non si sta affatto evolvendo verso una redistribuzione
egualitaria delle attività.
Al
contrario, chi è partito in testa continua ad aumentare il suo vantaggio e il
suo distacco: non nei confronti degli ultimi ma anche dei secondi o dei terzi 8
Europa e Giappone). Alla fine del 2000, con soli 34 milioni di abitanti lo
Stato della California ha superato per la prima volta il pil dell’Italia ed ha
agganciato quello della gran Bretagna, conquistandosi virtualmente il diritto
ad entrare nel gruppo dei Sette Grandi. All’interno della California, la
Silicon Valley da sola (in senso stretto la contea di Santa Clara racchiusa tra
San Francisco e San Josè) ha raggiunto un pil così elevato che se fosse una
nazione sarebbe tra le prime undici potenze economiche del pianeta…e potrebbe
far parte del G-11 dove si decidono le sorti del Fondo monetario
internazionale.
La
caduta di Wall Street e del Nasdaq, la prima recessione americana da un
decennio, il fallimento di tante dot.com: queste difficoltà congiunturali non
hanno intaccato l’egemonia mondiale dell’America nelle nuove tecnologie – e al
suo interno il primato californiano. Naturalmente questa non è una novità degli
ultimi anni. Da quasi mezzo secolo ormai, gran parte delle invenzioni più
importanti hanno avuto origine nella Silicon Valley: dal transistor al circuito
integrato, dai microprocessori ai minicomputer, dalla divisione dei geni al
commercio elettronico. E tuttavia la tendenza alla concentrazione geografica
delle attività più innovative in questa particolare zona del globo ha toccato
delle punte estreme proprio in questo periodo. Nella minuscola e ridente
cittadina di Palo Alto, il cuore della Silicon Valley a fianco dell’Università
di Stanford, tutte le società di venture capital più importanti del mondo hanno
sede lungo un’unica strada, la University Drive. A pochi chilometri di
distanza, nonostante il metro quadrato ormai costi più che a Manhattan e a
Tokyo, si addensano i quartieri generali di Hewlett-Packard, Apple, Cisco, Sun
Microsystems, Intel. Pur di stare vicini ai luoghi di progettazione delle nuove
tecnologie usate nei loro film, perfino gorge Lucas e Steven Spielberg hanno
insediato i loro uffici nella zona di San Francisco (eppure Hollywood è solo ad
un’ora di aereo).
In
teoria, il telefonino e il computer portatile laptop, l’e-mail e l’instant
messaging, la possibilità di trasmettere in pochi secondi immense quantità di
dati e immagini a qualunque distanza, avrebbero potuto rendere irrilevante il
luogo in cui si lavora. Invece il 2dove stare”, nell’economia digitale, conta
più che mai.
Vent’anni
fa il “guru” ALVIN Toffler prevedeva che nell’arco di una generazione i centri
cittadini si sarebbero svuotati perché la società postindustriale avrebbe
disseminato le sue grandi attività. Un’altra profezia indicava che entro il
2000 i due terzi degli occupati avrebbero fatto un “telelavoro”, collegandosi
con le imprese e i colleghi da casa propria. Invece i centri cittadini di New
York e san Francisco hanno concluso il millennio col più alto tasso di
costruzione di nuovi uffici nella storia, e il telelavoro in america raggiunge
a stento il 60% degli occupati.
L’errore
di quegli scenari e di quelle profezie consiste nell’aver sottovalutato la
dimensione sociale dell’èra dell’informazione, a cui hanno dedicato un
importante saggio i due scienziati americani John Seely Brown e Paul Duguid.
“L’idea che i manager e i dirigenti della nuova economia possano lavorare a
distanza con le informazioni disponibili grazie alle tecnologie”, scrivono,
“ignora quella parte più difficile, intangibile ma inevitabile che è il
management faccia-a-faccia, il management non delle cose o delle informazioni,
ma delle persone”.
Inoltre,
se è vero che la produzione manifatturiera di componenti elettroniche per
l’industria informatica viene massicciamente delocalizzata nei paesi emergenti
a basso costo della manodopera, per quanto riguarda invece la ricerca e la
progettazione di nuovi prodotti tecnologici, esse traggono grande vantaggio
dall’essere svolte dentro un ambiente socio-culturale esigente, che stimola le
imprese a fare meglio. Brown e Duguid ricordano che la Apple ha regalato per
anni i suoi computer alle scuole californiane per accelerare l’alfabetizzazione
informatica degli studenti e poterne sondare i gusti e le preferenze, usandone
i pareri e le reazioni come un’importante risorsa nel proprio percorso
produttivo. Il processo di socializzazione, concludono Brown e Duguid, è parte
essenziale delle nuove tecnologie dell’informazione.
Imprenditori
e imprese della net economy, quando devono scegliere in quale punto del globo
localizzare una nuova attività, non si orientano necessariamente in base al
costo. Lo dimostra l’eccezionale fioritura di quelle che Kotkin ha definito le
“città-boutique” degli Stati Uniti: San Francisco, Seattle, Boston, Denver.
Nonostante siano fra le più care del mondo, le industrie tecnologiche e
dell’informazione continuano a insediarsi proprio lì. Si tratta di città non
troppo grandi, che già da tempo si sono trasformate in nicchie postindustriali
specializzate nei servizi e nel turismo. Hanno un’elevata qualità della vita, e
soprattutto hanno in proporzione la più forte concentrazione di laureati fra
tutte le aree metropolitane degli Stati Uniti – condizioni ideali per attirarvi
la nuova èlite del capitalismo, quella che con le sue scelte di localizzazione
delle attività economiche determina la gerarchia dei rapporti di forza
mondiali.
Già
nel 1970 il sociologo americano Daniel Bell aveva previsto l’emergere di un
nuovo ordine sociale in cui l’informazione avrebbe soppiantato l’energia e le
tradizionali industrie manifatturiere, come sorgente primaria di ricchezza. Da
allora la quota del pil americano catturata da questi settori . dai computer
alle telecomunicazioni e dai mass media all’industria dello spettacolo – è più
che raddoppiata e ha dato origine a una nuova classe media. La crescente
importanza di queste industrie coinvolte nella raccolta, nella trasformazione,
e nella diffusione di informazioni, ha reso la crescita economica sempre più
indipendente dalle preferenze geografiche degli imprenditori individuali e del
loro personale più qualificato. “La decisione su dove impiantare una buona attività”,
scrive Kotkin, “durante le prime rivoluzioni industriali dipendeva dall’accesso
ai porti, alle strade, alle ferrovie, o alle materia prime, oggi invece dipende
dalla possibilità di collegarsi con risorse umane spesso scarse e ricercate”.
Di
qui l’importanza di due fattori nel determinare la leadership nell’economia
digitale. Il primo è l’università: le nuove industrie basate sulla ricerca
tendono ad aggregarsi intorno ai poli scientifici di eccellenza (Berkeley e
Stanford per la Silicon Valley e San Francisco, Harvard e il Massachussetts
Institute of technology per l’area di Boston). Un secondo fattore, più
impalpabile, sono quegli elementi di qualità della vita – dalle istituzioni
culturali alla diversità etnica, dalla civiltà del vivere insieme al clima –
che attirano le nuove èlite urbane dei mestieri postindustriali.
Contrariamente
alle previsioni che dominavano negli anni Sessanta (anche quelle di un grande
sociologo come il francese Alain Touraine), secondo cui la società
postindustriale avrebbe visto indebolirsi le relazioni sociali, l’era digitale
ha visto addirittura rafforzarsi il bisogno di interazione e di vicinanza.
Nonostante Internet, un network potente è quello degli insider nella net
economy che si incontrano a pranzo al ristorante italiano Il Fornaio di palo
Alto. Il bisogno di frequentare personalmente i migliori talenti del mondo, e
soprattutto di essere “lì” dove le cose accadono prima che altrove, è un
formidabile movente di aggregazione: funziona nella Silicon Valley per l’alta tecnologia;
nel “corridoio dell’energia” di Houston dove si concentra il Gotha mondiale
delle industrie del petrolio, gas, elettricità; nella California del Sud per
quell’industria dello spettacolo che “americanizza”la cultura di tutto il
pianeta.
Tutti
assieme, tutti vicini: questa dinamica della prossimità fisica e della comunità
intellettuale, che caratterizzò le èlite artistiche del Rinascimento italiano
così come i distretti industriali inglesi dell’Ottocento studiati da Alfred
Marshall, spinge in direzione diametralmente opposta rispetto alle tendenze
diffusive ed egualitaria di Internet. Concentra la ricchezza e il potere là
dove sono già più abbondanti.
L’èlite
digitale ricostruisce le sue comunità e i suoi centri di comando secondo regole
e modelli talvolta ancora più antichi delle precedenti rivoluzioni industriali:
riscopre per esempio le città-giardino. Le scelte che guidano la nuova classe
dirigente nel localizzare i poli strategici delle proprie attività, secondo il
demografo David Birch, “non sono poi tanto difficili da capire: questa gente
vuole vivere dove l’aria è pulita e si può andare in bici o giocare a golf
tutto l’anno”. Le ricerche periodiche sulle motivazioni che spingono le
multinazionali dell’alta tecnologia a
scegliere una certa localizzazione per i loro insediamenti, rivelano che una
qualità della vita capace di attirare personale altamente qualificato pesa
ancora di più dei fattori tradizionali come le tasse o il costo degli immobili.
Questo contribuisce a spiegare l’inaffondabile miracolo californiano che è
sopravvissuto a recessioni, bolle speculative del mercato immobiliare, e ad una
pressione fiscale molto più elevata che nel Delaware.
La
Silicon Valley ed altri distretti industriali degli Stati Uniti riuniscono una
miscela di fattori che si autoalimentano e tendono ad accrescere il distacco
dal resto del mondo. Possiamo riassumerli nei seguenti punti: 1) i poli
universitari d’eccellenza forniscono all’industria un flusso costante di
scoperte e innovazioni applicative; gli stessi poli universitari formano le
risorse umane altamente qualificate che sono essenziali per le imprese
tecnologiche; 2) il mercato dei capitali è il più ricco del mondo, anche grazie
al ruolo del venture capital nell’assunzione di rischi molto elevati per finanziare
aziende neonate; 3) il quadro normativo e il peso della burocrazia sono
relativamente leggeri e non disincentivano le nuove iniziative. Ognuno di
questi fattori fondamentali interagisce poi con un contesto sociale e di
valori: una cultura dove lo spirito imprenditoriale è esaltato; tradizioni
libertarie ed antigerarchiche che premiano l’innovazione più dell’obbedienza
gregaria.
Infine,
un elemento decisivo nell’allargare lo scarto fra gli Stati Uniti e il resto
del mondo – compresi l’Europa e il Giappone – è l’approccio risolutamente
diverso nei confronti dell’immigrazione. Come ha rilevato per prima
l’economista di Berkeley Annalee Saxenian, un terzo delle imprese cresta nella
Silicon Valley nella seconda metà degli anni Novanta sono state fondate da
imprenditori immigrati dai paesi asiatici (India, Cina, Taiwan, Corea,
Vietnam). Anche nella contea di Los Angeles, un terzo della natalità di imprese
è da attribuirsi a minoranze etniche. Mentre in Europa le industrie
tecnologiche devono rinunciare ad opportunità di investimento e di sviluppo
perché non trovano sul mercato del lavoro centinaia di migliaia di ingegneri
informatici e di programmatori di software di cui avrebbero bisogno ogni anno,
gli Stati Uniti hanno affrontato il problema allargando le possibilità
d’ingresso per l’immigrazione qualificata. Uno degli strumenti è il contingente
annuo di 200 mila visti temporanei H1-B cui le imprese possono rincorrere per
chiamate nominative di tecnici e laureati stranieri. Per sfruttare bene questo
canale, le multinazionali americane ormai organizzano regolarmente “job
conferences” o “fiere del reclutamento” nei migliori politecnici dell’India, da
Bombay a Bangalore.
Un
altro canale d’ingrasso dei cervelli stranieri è ancora precedente, passa
attraverso le iscrizioni alle università. Nel 2001 c’erano ormai più stranieri
che americani iscritti ai corsi di laurea in fisica presso le università Usa.
Il 40% dei laureati del Massachussets Institute of Technology è straniero. Alla
facoltà di statistica della Michigan State University, dove vige il numero
chiuso, tra gli studenti che hanno superato il concorso d’ammissione nel 2001
c’erano 7 americani e 120 cinesi. Molti di questi studenti stranieri ufficialmente
sono negli stati Uniti solo per frequentare l’università e poi tornarsene nel
loro paese d’origine. Molti non lo faranno. E anche quelli che lo faranno,
andranno a formare la classe dirigente dei loro paesi saranno comunque
portatori di valo9ri americanizzati e di una rete relazionale legata agli Stati
Uniti.
Con
una politica dell’immigrazione più aperta di quella europea, gli Stati Uniti
hanno trasformato il loro carattere multietnico in un elemento ulteriore di
supremazia economica. In un’epoca in cui la risorsa strategica per l’economia è
il capitale umano, l’America attinge e seleziona il meglio dal serbatoio
mondiale dei cervelli. Nell’accesso al pool planetario dei talenti, ha un
distacco incolmabile, che si allarga di anno in anno. Perfino i paesi europei –
Germania, Francia, Italia, Inghilterra - versano il loro tributo alla”fuga dei
cervelli”. La Silicon Valley non è piena solo di indiani e cinesi, ma anche di
scienziati imprenditori e tecnici formati ai politecnici di Milano e di Torino.
Anche loro, spesso, sono arrivati per starci qualche anno e poi non sono più
tornati indietro. Se interrogati, le loro risposte sono invariabilmente uguali:
L’Europa ha università rigide e baronali che non premiano la ricerca; fisco e
burocrazia scoraggiano la nascita di nuove imprese; reperire finanziamenti e
capitali di rischio è più difficile. La fuga dei cervelli tende a rafforzare il
circolo virtuoso dei distretti industriali: più sono numerosi i giovani
stranieri capaci calamitati dall’Università di Stanford e dalla Silicon Valley,
più le imprese tecnologiche che si trovano lì accumulano vantaggi competitivi
sul resto del mondo; e tutto questo rafforza nei migliori e nei più ambiziosi
la sensazione che ci si debba trasferire lì per essere nel centro dell’universo.
3.
Le dinamiche dei distretti industriali non sono fatte solo di sinergie e
cooperazione tra i diversi fattori di produzione: sono anche estremamente
conflittuali. Una delle forze dell’economia di distretto è proprio questa. Da
un lato la promiscuità imprenditoriale crea un serbatoio di scambio informale
di conoscenze e innovazioni, d’altro alto esaspera la competizione. Avere i
rivali troppo vicini vuol dire misurarsi sul mercato più duro e selettivo del
pianeta. Anche questo è uno degli elementi di superiorità del mercato unico
americano, rispetto al Giappone o a molti paesi europei le cui classi
imprenditoriali sono ancora impigrite da decenni di barriere monopolistiche.
L’istinto
primordiale che spinge il capitalista ad aspirare al monopolio, è sempre vivo
anche in America: il caso di Bill Gates ne è la manifestazione più recente. Ma
anche la “guerra dei browser” tra Microsoft e Netscape – e la lunga offensiva
dell’antitrust che ne è seguita . alla fine ha dimostrato che il mondo di
Internet non è un mondo di soggetti atomizzati, liberi e indipendenti, o
“disintermediati”. Internet è un territorio con degli snodi strategici, dei
punti di passaggio obbligati, e dei “gatekeepers”,
dei guardiani del cancello che vigilano e riscuotono pedaggio. La lotta per il
controllo degli accessi a questo territorio non è conclusa. Ma è una lotta fra
americani.
Le
regole che alla fine del 200 le autorità pubbliche Usa (la federal Trade
Commission e la federal Communications Commission) hanno imposto all’unione fra
America Ondine e Time Warner, sono un tentativo importante per garantire che la
grande Rete rimanga una struttura aperta e competitiva anche con l’avvento
della banda larga, dell’alta velocità di trasmissione, e della convergenza fra
la televisione, Internet e telefoni cellulari. Si tratta di una competizione
aperta, e la posta in gioco è un territorio davvero globale. Ma i partecipanti,
almeno finora, appartengono tutti alla squadra di una sola nazione.
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
(Tratto
da Limes, Rivista italiana di
geopolitica, Quaderni speciali: I signori della rete)