La relazione inizia con la constatazione della difficoltà di
definire il significato della parola "modernità" rispetto alla
figura e all'opera di Giordano Bruno. Si prende in prima istanza l'idea di
periodo storico "moderno e contemporaneo" per collocare Bruno
all'interno della cultura rinascimentale italiana, senza tuttavia dimenticare
che per lui la figura che aveva dato inizio alla rivoluzione culturale che
portava nel mondo moderno era Copernico che, nel 1543, aveva proposto una
teoria cosmologica eliocentrica nel suo De revolutionibus.
Senza voler entrare nei dettagli tecnici della cosmologia infinita che Bruno
costruisce sulla base dell'eliocentrismo copernicano, la relazione indica
alcune importanti conseguenze della nuova omogeneità della sostanza che
unisce ogni parte dell'universo infinito bruniano, per poi sollevare il
problema (discusso nel nostro periodo dallo storico Thomas Kuhn) delle
molteplici ramificazioni delle rivoluzioni cosmologiche, che coinvolgono aree
di riflessione apparentemente lontane dalla cosmologia stessa. In particolare
la relazione si sofferma sul pensiero di Bruno sui molteplici linguaggi,
anche simbolici, che dovevano essere ripensati per esprimere il senso di un
nuovo universo infinito. Si arriva così a prendere in considerazione l'arte
della memoria di Bruno e i suoi nessi da una parte con sistemi linguistici antichi,
profondamente radicati nella psiche europea, ma dall'altra parte con
meccanismi logici nuovi che cambieranno i contorni della tradizionale
geografia della mente.
La relazione si sofferma poi su una concezione della modernità che si
allaccia alla nuova fisica post-einsteiniana, e sviluppa alcune riflessioni
su un nuovo modo di leggere alcuni testi di Bruno alla luce di una scienza
non più classica e tutta razionale ma di nuovo pervasa da elementi di
relativismo concettuale, di scetticismo e di incertezza gnoseologica. E' in
questo contesto che viene sollevata la delicata e discussa questione
dell'interesse di Bruno per la magia.
Si conclude con alcune brevi riflessioni sulla vita e sulla morte del
filosofo nolano che sottolineano soprattutto la sua lunga ed ostinata,
seppure infine fallimentare, ricerca di un'istituzione accademica europea
fondata sulla libera circolazione del pensiero e delle idee.
Giordano Bruno e la
modernità
In un celebre saggio su John Stuart Mill, pubblicato nel suo ormai classico
volume intitolato "Four Essays on Liberty", Sir Isaiah
Berlin, parlando del saggio di Mill sulla libertà, individua come uno dei
problemi di maggiore rilievo il fatto che la parola "libertà" vanti
più di duecento diverse accezioni codificate. Mi pare che lo stesso problema
venga sollevato dal titolo del mio intervento; ossia: come vogliamo definire
"la modernità", soprattutto quando consideriamo questa parola in
relazione alla figura e all'opera di Giordano Bruno?
Possiamo prendere come una prima accezione della parola quella, che si può
forse definire "istituzionale", usata nelle scuole per definire il
periodo "moderno e contemporaneo"; ma allora dobbiamo subito
constatare che l'inizio di tale periodo rimane assai discutibile.
Mi pare che in Italia viga la consuetudine di fare partire il mondo
"moderno e contemporaneo" dall'umanesimo, con l'opera di Petrarca;
e questo é del tutto soddisfacente, in quanto l'indiscutibile dominio
italiano di tutto l'arco della cultura rinascimentale ci permette di trovare
proprio in Italia l'origine della modernità.
Un francese, però, potrebbe obbiettare che una vera modernità comincia
soltanto con il pieno dominio della ragione nel '600; e in quel modo
risulterebbe all'origine della modernità proprio la cultura francese.
Nell'Europa del nord, invece, si mette l'enfasi sulla nascita della riforma
protestante, con il seguente sviluppo di un discorso di pluralismo religioso,
in cui si individua la vera radice di una
cultura moderna e democratica.
Così, ancora una volta, ci tocca spostarci sulla carta geografica.
Qui non stiamo parlando di nazionalismi bensì di Giordano Bruno, per molti
versi (anche se più per necessità che per scelta), un uomo senza nazione, e
perciò pienamente europeo. Del resto è Bruno stesso ad indicarci con molta
chiarezza dove inizia per lui la nuova era in cui tutto cambia, a cominciare
dalla struttura stessa dell'universo: e cioè, dal momento della pubblicazione
del "De revolutionibus" di Copernico, nel 1543. Per lui è
Copernico, quell'ingegno "grave, elaborato, sollecito e maturo",
come lo definisce nel primo dialogo della "Cena de le ceneri",
che ha saputo "liberare sé et altri da tante vane inquisizioni, e
fermar la contemplazione ne le cose costante e certe".
Non è questo il luogo per entrare nei dettagli tecnici della cosmologia
infinita che Bruno costruisce sulla base del nuovo eliocentrismo copernicano.
Rispetto al tema della modernità che ho proposto per questo intervento,
vorrei fare comunque un'osservazione; e cioè: se sono state continuamente
sottolineate dai commentatori le dimensioni infinite che Bruno conferisce,
sia in termini spaziali sia in termini temporali, ad un universo senza
frontiere, meno attenzione è stata prestata al carattere omogeneo del nuovo
infinito bruniano, in cui pullula una vita fatta di movimenti infiniti. E'
infatti questa omogeneità della sostanza che differenzia
"l'infinito" bruniano da quello ermetico che si stava diffondendo
nello stesso periodo, in figure come Palingenio, Thomas Digges o Francesco
Patrizi: un "infinito", il loro, in cui troviamo sempre due
dimensioni dell'essere, espresse in genere come due tipi di luce, uno impuro,
mescolato alla materia greve che caratterizza il nostro mondo o sistema
stellare, e uno puro e cristallino, di aristotelica memoria, che,
estendendosi verso l'infinito, appunto, porta verso la perfetta spiritualità
divina.
Ora, dal momento in cui Bruno abbatte questo dualismo e propone un universo
infinito ma perfettamente omogeneo, in cui il gioco tra materia e spirito, o
luce, diventa tutto interno, e investe ogni parte dell'infinito universale,
mentre gli angeli si identificano con gli infiniti mondi che girano intorno
ai loro soli, si ha un universo di tutt'altro tipo, soggetto a leggi naturali
universali. Ossia, si ha un universo in cui una legge come quella newtoniana
della gravità, espressa in una formula concepita come universalmente valida,
è già una possibilità teorica. E questo suggerisce anche la possibilità di
viaggi spaziali senza limiti; perché omogenea è la sostanza che permea il
tutto infinito.
Perciò non si tratta di un semplice balzo dello spirito, o di una gnosi
universale, come aveva sostenuto Frances Yates, quando Bruno rivendica la
rottura delle barriere che avevano rinchiuso il vecchio universo tolemaico;
si tratta, bensì, di un salto dell'immaginazione creativa che anticipa già la
possibilità di viaggi reali nello spazio. Non per nulla Bruno li confronta ad
altri viaggi eroici, come quello degli Argonauti o la scoperta dell'America
da parte di Cristoforo Colombo. Ora però non si viaggia più per i mari del
nostro mondo, ormai quasi tutti scoperti e noti, bensì si viaggia per i cieli
ancora vergini alla ricerca dell'ignoto: "Or, ecco quello ch'ha
varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli
margini del mondo". E' un errore, a mio parere, considerare
emblematico, metaforico, segreto o ermetico questo celebre passo de
"La Cena de le ceneri". L'omogeneità della sostanza che riempie
l'universo infinito di Bruno, che poi col tempo si rivelerà di carattere
atomistico, ci impone di interpretare quel trapasso dei margini del mondo
come un viaggio vero, tra spazi ormai illimitati che, nel pensiero del
filosofo, un giorno sicuramente avverrà.
Quando Bruno parte dal "De revolutionibus", dà a quella parola
un significato estremamente ampio, che va ben oltre il campo specifico della
cosmologia per avvicinarsi al senso di un rovesciamento totale di paradigma
mentale, molto vicino a come lo intende un pensatore moderno come Thomas
Kuhn. Questi, quando parla di rivoluzione scientifica, difatti, riconosce che
una rivoluzione in campo cosmologico, per esempio, porta inevitabilmente con
sé un rovesciamento di tutti i presupposti su cui si era appoggiato il
paradigma cosmologico precedente, sollecitando un ripensamento delle idee
chiavi della cultura che si era sviluppata intorno a quel paradigma.
Già Bruno, comunque, posto davanti al trauma concettuale causato nel
Cinquecento dalla rivoluzione copernicana, aveva capito che sarebbero state
coinvolte aree di riflessione
apparentemente lontane dalla cosmologia in senso stretto, quali la teologia,
1'epistemologia, i valori morali, le regole poetiche ed artistiche, nonché
gli stessi parametri linguistici, che ora dovevano essere ripensati a fondo.
E' una intuizione da parte di Bruno che ci stimola a chiederci se troviamo
anche nel suo pensiero, come si troverà poi in quello di Kuhn (almeno nella
sua prima fase), l'idea di una netta incommensurabilità tra paradigmi
fisico-cosmologici diversi.
L'argomento viene affrontato esplicitamente da Bruno, sempre ne "La
Cena de le ceneri", nel momento in cui il vivace personaggio Frulla,
che rappresenta nel dialogo una forma di intelligenza acuta ma poco colta,
comincia a fremere di rabbia davanti ai tradizionalisti che non vogliono
neanche prendere seriamente in considerazione la nuova e sconvolgente
astronomia copernicana: un problema che continuerà più tardi ad assalire
Galileo. La soluzione proposta da Frulla prevede un'arte del trapianto
avanzata alla quale non siamo ancora arrivati neanche oggi. Perché Frulla
vuole sostituire le teste dei vecchi neo-aristotelici con teste nuove, in
grado di pensare secondo i nuovi paradigmi mentali che la rivoluzione
copernicana stava sollecitando. Dunque, per Frulla, tra i proponenti della nuova
filosofia postcopernicana e coloro che rimanevano mentalmente all'interno di
un universo ancora tolemaico non c'era possibilità di incontro o di dialogo.
I due mondi erano da considerarsi, appunto, incommensurabili.
Questo comunque si rivela come un ordine di idee diverso dal pensiero di
Bruno stesso. Intervenendo nel dialogo nella persona del suo portavoce
Teofilo, egli sostiene al contrario la necessità di avviare un lento processo
di riflessione che abitui la gente gradualmente a comprendere tutte le
molteplici implicazioni della recente rivoluzione in campo cosmologico. Si
tratta di un dissidio all'interno del dialogo che è soltanto apparentemente
scherzoso se non addirittura frivolo. Anzi, la correzione del bizzarro
pensiero di Frulla da parte di Teofilo è in realtà profondamente
significativa e continuerà a risuonare nelle opere più tarde di Bruno. Perché
egli, da poeta ed artista qual'era, oltre che filosofo, capiva che i
parametri linguistici tradizionali, e le immagini e i simboli che accompagnano
la vita quotidiana di una comunità, hanno radici profonde ed evolvono molto
più lentamente del pensiero scientifico. Anzi, spesso sopravvivono al trauma
di una rivoluzione cosmologica creando una tensione non facilmente
risolvibile tra un nuovo quadro fisico e una vecchia terminologia, fra
concetto e immagine, fra parola e pensiero.
Insisto su questo punto, perché credo che ci aiuti a spiegare il ruolo e
l'importanza nell'opera di Bruno, dell'arte della memoria, che spesso si
intreccia nella sua opera con temi retorici e riflessioni linguistiche. In
molte opere bruniane, infatti, troviamo un riferimento a serie di immagini e
ad alfabeti o combinazioni di lettere e altri segni di varia natura, presi
indifferentemente da lingue antiche e moderne, che Bruno comunque sapeva
essere profondamente radicate nella psiche europea.
La strategia che egli segue non è quella di cercare una totale novità sul
piano della parola o dell'immagine, ma piuttosto di sfruttare immagini,
parole o alfabeti tradizionali, captando così le risonanze che essi
suscitavano nei lettori del periodo. Possiamo pensare, come esempio, all'uso
delle tradizionali immagini astrologiche in opere come il "De umbris
idearum" del 1582 o il "De imaginum, signorum, et idearum
compositione" del 1591; un uso che ha molto stupito alcuni
commentatori in quanto la nuova cosmologia infinita doveva svuotare di
significato i vecchi schemi astrologici.
Ecco allora farsi avanti l'idea di un Bruno tutt'altro che moderno, ma anzi
ancora strettamente legato a scienze e tradizioni di pensiero propri di un
passato lontano. Si tratta invece di un fraintendimento del suo scopo
principale! Perché Bruno slega nettamente le combinazioni di lettere,
immagini e segni inclusi nei suoi schemi mnemonici dai loro tradizionali contesti,
sviluppandoli in articolazioni logiche nuove ed ardite. Così arriva ad una
sorta di algebra dell'immagine o della parola che permette di costruire
codici linguistici autonomi; ed ecco che l'arte della memoria partecipa
all'invenzione perseguendo l'idea di un linguaggio universale. Senza smettere
di guardare indietro, fino alle radici della cultura europea, l'arte della
memoria di Bruno guarda avanti, molto avanti. Anzi, così avanti che si vedono
sullo sfondo le sagome di una macchina logica capace di tracciare i contorni
di una nuova geografia della mente.
A questo punto, però, si può sostenere che l'idea di una modernità che apre
le porte al mondo contemporaneo partendo dalla rivoluzione copernicana è
stata superata per dare luogo all'idea di una modernità i cui inizi si
situano alla fine dell'800 e l'inizio del '900: ossia in concomitanza con la
disintegrazione interna del paradigma scientifico classico che aveva dominato
da Copernico a Galileo, e da Newton in poi. Entriamo nel contesto della relatività
einsteiniana nel campo fisico-cosmologico e della crisi di scetticismo logico
ispirata da Gòdel e da Turing.
Negli ultimi anni dell'900, infatti, alcuni aspetti e temi dell'opera
bruniana vengono considerati nel contesto di questa più avanzata idea di
modernismo, o addirittura del cosiddetto post-moderno. E non sono temi di
poco conto! Si è cominciato con gli elementi estremamente arditi di alcune
riflessioni bruniane sulla relatività dei rapporti relazionali che si
articolano all'interno del suo universo infinito, cosìcche per alcuni aspetti
è possibile considerare la sua cosmologia non soltanto come postcopernicana
ma anche come pre-einsteiniana, come ha proposto Ramon G. Mendoza nel suo
libro "The Acentric Labyrinth: Giordano Bruno's Prelude to Contemporary
Cosmology" pubblicato nel 1995.
In un primo momento la tesi viene ignorata come del tutto anacronistica, e di
dubbia consistenza sotto il profilo di un metodo storico odierno che non
vuole più dare spazio al gioco delle "anticipazioni" che ha tanto
dilettato la storiografia del '800. Poi negli anni seguenti, emergono altri
temi a conforto del discorso cosmologico di Mendoza.
In un articolo pubblicato nel 1999, il giovane studioso olandese, Leen
Spruit, mette alcuni momenti del pensiero di Bruno in rapporto con la
"Teoria dei Tre Mondi" di Roger Penrose. E se posso permettermi
di fare riferimento anche al mio lavoro più recente, ho voluto sottolineare,
nel mio libro su Giordano Bruno e la scienza del rinascimento, pubblicato da
Cornell University Press nel 1999 e da Cortina in traduzione italiana
all'inizio del 2002, la complessità del pensiero di Bruno nel campo
epistemologico, dove per alcuni versi mi sembra già affrontare temi e crisi
che diventeranno centrali soltanto nel corso del '900.
E non è da considerarsi estranea a questo discorso la messa in scena de "Il
Candelaio" di Bruno da parte di Luca Ronconi, che è stata presentata
al Piccolo Teatro di Milano nel corso del 2002. Perché Ronconi riesce
finalmente a rendere più che credibile questo problematico, e poco
rappresentato, testo drammatico di Bruno utilizzando, con una notevole
intelligenza scenica ed interpretativa che vuole evitare qualsiasi banale
attualizzazione, parametri teatrali propri del '900 come, per esempio, quelli
del cosiddetto teatro dell'assurdo.
La prossima tappa di questa lettura di testi bruniani alla luce di una
radicale modernità si è appena verificata con la pubblicazione nella rivista
Physis di un mio intervento sugli elementi in Bruno che indicano la
possibilità di geometrie non-euclidee: una possibilità interpretativa,
questa, già anticipata da Imre Toth nel suo volume "No! Libertà e
verità, creazione e negazione", pubblicato da Rusconi nel 1998.
E' importante sottolineare che qui non si sta facendo una generica o ingenua
proposta di anticipazioni storiche, come molti hanno sostenuto. Piuttosto si
sta postulando una tesi precisa che vuole vedere nell'opera di Bruno
l'articolazione, seppure ancora a volte incerta e embrionale, di un paradigma
sia cosmologico sia epistemologico che, per alcuni versi, acquista chiarezza
e coerenza proprio con il superamento della fisica e della matematica
classica alla fine dell'Ottocento.
Un altro esempio. Nel suo capolavoro cosmologico, il "De
immenso…" pubblicato nel 1591, Bruno, dopo un discorso dedicato alla
spiegazione e alla lode della nuova astronomia copernicana, propone, con
tanto di illustrazione dettagliata, un modello di un sistema eliocentrico, in
cui la terra, accompagnata dalla luna sul suo epiciclo, circola sulla stessa orbita
di fronte a Mercurio, accompagnato da Venere sul suo epiciclo: un sistema
basato su un'idea di armonia e di simmetria planetaria che viene giudicato da
Robert Westman come decisamente strano, perché è evidente che non rispetta le
diverse orbite e tempi di rivoluzione di questi pianeti.
Una lunga tradizione interpretativa, che parte dall'astronomo Schiaparelli
nell'800, e include nel '900 nomi illustri come quello di Leonardo Olschki e
di Frances Yates, risolve il problema negando a Bruno un qualsiasi minimo
senso di metodo logico, e trovando il suo valore eventualmente negli impeti
poetici o mistici di uno spirito certamente non razionale o
"scientifico". Ma questa spiegazione, che aveva già lasciato
perplesso un commentatore di grande valore quale Felice Tocco, non sembra
facilmente conciliabile con una lettura del libro di Copernico piuttosto
completa e dettagliata, e decisamente all'avanguardia per gli anni '80 del
'500: Robert Westman infatti include Bruno in un elenco dei pochissimi
pensatori del Cinquecento che hanno caldeggiato una lettura realista della
nuova cosmologia. Allora, che significato può avere questo esempio
evidentemente irrealistico di modello planetario?
Ho cercato di mettere in rilievo nel mio libro il modo in cui la lettura
estremamente entusiastica di Copernico da parte di Bruno si accompagni fin
dall'inizio ad un discorso di marcato scetticismo gnoseologico, non soltanto
in generale sulla possibilità di misurare con esattezza assoluta il movimento
dei corpi, ma in particolare nei confronti di alcuni espedienti concettuali
ancora presenti nell'astronomia copernicana, come gli epicicli o gli
eccentrici.
Seppure Bruno non si discosti mai dalla sua convinzione che la cosmologia
copernicana rifletta meglio di quella tolemaica la realtà della struttura
dell'universo, altrettanto profonda è la sua paura che essa non offra un
quadro certo o completo della forma del mondo. Da questa preoccupazione nasce
la sfiducia nella matematica classica, su cui, al parere di Bruno, lo stesso
Copernico aveva fatto troppo affidamento. Perchè per Bruno la matematica
ispirata agli antichi, e in particolare ad Euclide, offriva sì uno strumento
di calcolo prezioso, ma forse non rappresentava l'unica matematica possibile,
nè una ricetta completa per distinguere il vero dal falso.
Del resto, il pensiero di Bruno si sviluppa nel contesto di un'idea di
infinito universale basato su un triplice minimo: aritmetico, geometrico e
fisico. Ed è proprio nell'allargamento di questo universo atomistico alle
dimensioni di una sfera infinita che egli può postulare un numero infinito di
"modelli" astronomici, e anche (se pensiamo ad un'opera come il "De
triplici minimo" del 1591) di "modelli" atomistici che già
segnano l'inizio di un discorso propriamente molecolare. Sono "mondi
possibili", come diremmo oggi. Perché per Bruno il nostro mondo non è
che un minuscolo frammento di un tutto sconosciuto in cui ogni modello di
combinazione atomistica virtuale che possiede una sua coerenza interna
rientra nella sfera del possibile.
E con ciò abbiamo raggiunto un contesto di pensiero non soltanto
"moderno" ma forse anche già "post-moderno" nella sua
tendenza a recidere il filo che avrebbe dovuto collegare gli avvenimenti
lungo una sequenza già orientata. Così molte idee di Bruno che sembravano
strambe o senza fondamento acquistano invece una loro ragione e coerenza. Nè
si tratta ovviamente di sradicarlo dal suo tempo storico o di dimenticare che
era tutt'altro che un nostro contemporaneo. Piuttosto si tratta di costatare
che, utilizzando certi concetti che vengono articolati soltanto dopo la
straordinaria rivoluzione nella fisica e nella matematica delle prime decadi
del '900, si profila la possibilità di aprire un nuovo capitolo di lettura
dell'opera bruniana che rivaluti alcuni aspetti ancora incompresi del suo
pensiero.
Ritengo che sia in questo contesto che si profili la possibilità di
sviluppare una nuova lettura di uno degli aspetti ancora oggi più discussi
della filosofia bruniana, ossia la sua dottrina della magia. Nonostante il
copernicanesimo e l'atomismo, l'universo infinito di Bruno non assume mai un
carattere pienamente meccanicistico, ma si fonda sull'idea di un'anima o di
uno spirito universale che si annida nelle minime particelle della materia,
riempendo e conferendo unità al tutto infinito.
E' evidente che questo animismo in campo ontologico dà luogo ad una
dimensione dell'essere che in campo epistemologico tende a sfuggire ad
un'indagine puramente logica o razionale, inducendo Bruno a chiamare in causa
dottrine tradizionali di magia che hanno dato luogo ad una lunga e ancora
attivissima caccia alle fonti, necessaria per chiarire i termini del
riferimento filosofico di Bruno alla magia; ma se l'individuazione delle
fonti risulta certamente un aspetto importante di un moderno gioco
ermeneutico, non può ovviamente considerarsi sufficiente davanti ad un tema
così vasto e complesso come quello della magia nell'opera di Bruno.
Anche perché tende inevitabilmente a schiacciare il pensiero di Bruno su un
aspetto magico che in realtà è solo a momenti dominante nella sua opera. Si
tratta di un aspetto del suo pensiero estremamente complesso e variegato, se
è possibile - come a me sembra - individuare momenti in cui la magia diventa
un vero e proprio scacco per il filosofo furioso, mentre in altri momenti
troviamo ricuperi sorprendenti ed aperture inattese, anche se spesso ambigue.
Quello che tuttavia mi sembra ormai stabilito è che la dottrina della magia
in Bruno, che indubbiamente esiste, non può più essere utilizzata, come è
successo tante volte dalla pubblicazione del libro di Frances Yates in poi,
per escludere, o rendere subordinato, nell'opera di Bruno quello sviluppo di
nuove dottrine cosmologiche ed ontologiche che tante volte egli prende come i
temi fondamentali delle sue opere. Semmai magia e nuova scienza andrebbero
indagati insiemi dagli studiosi. E proprio in questo tentativo può risultare
utile guardare avanti e non sempre indietro, per cercare di capire fino a che
punto possono essere utili nella lettura della dottrina magica di Bruno
concetti articolati all'interno della meccanica dei quanti, per esempio, come
il principio di incertezza, o il ricorso a calcoli di probabilità: ossia a
quegli elementi moderni di scetticismo, di nuovo presenti nell'indagine sul
mondo naturale che mettono in forse la possibilità di arrivare a delle
certezze naturali assolute.
Infine, non è possibile chiudere questo intervento su Bruno e la modernità
senza fare un pur breve riferimento agli elementi della sua vita che lo
avvicinano a noi oggi.
Nel mio primo libro su Bruno del 1989, che si occupava soprattutto dei suoi
rapporti con la cultura inglese, ho sottolineato un aspetto che mi sembra
ancora sottovalutato della biografia bruniana, e cioè la sua infaticabile e a
volte disperata ricerca, nelle maggiori città europee, di un'accademia
culturale secolare, senza frontiere geografiche o intellettuali, e basata sul
libero pensiero. Bruno la chiama la sua "Accademia Pitagorica",
riportando il concetto accademico alle sue più lontane radici filosofiche. Ma
il suo sogno educativo, che Bruno delinea nelle pagine finali del dialogo
intitolato "La cabala del cavallo pegaseo" scritto e
pubblicato a Londra nel 1584, guarda anche molto avanti: così avanti che non
poteva che restare un sogno all'interno di un'Europa ancora dilaniata da
guerre di religione e tenuta nel morso dell'arroganza dei principi del
periodo. C'è da chiedersi poi se ancora oggi riusciamo a svolgere una vita
accademica che risponda pienamente ai criteri insieme generosi e rigorosi
proposti da Bruno ormai più di quattrocento anni fa.
Del processo e del rogo in Campo dei Fiori, di cui tanto si è già parlato in
questi anni intorno al quattrocentesimo anniversario, dirò soltanto che
mettono in atto, con logica e ferrea coerenza, la distruzione violenta del
sogno della "Accademia" ideale di Bruno, basata sulla libera
circolazione delle idee.
È il momento del sogno infranto.
Un lungo momento durato otto anni, che ricordiamo oggi perché alla fine
Bruno, quel sogno, non l'ha voluto rinnegare.
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