(...) Fu a tredici anni, credo, che ebbi per la prima volta il
presentimento della mia vocazione.
A quei tempi facevo la terza media a Nizza e mia madre aveva all'Hôtel
Négresco una di quelle vetrine di corridoio, in cui esponeva gli articoli che
le venivano concessi dai negozi di lusso; su ogni sciarpa, ogni cintura o
camicetta venduta aveva il dieci per cento di commissione. Qualche volta
praticava un piccolo aumento illecito dei prezzi e intascava la differenza. E
tutto il giorno faceva la posta ai probabili clienti, fumando nervosamente
una Gauloise dietro l'altra, perché allora il nostro pane quotidiano
dipendeva unicamente da quell'incerto commercio.
Ormai sola da tredici anni, senza marito e senza amante, lottava in quel
modo, coraggiosamente, per mettere insieme ogni mese il necessario per
vivere, per pagare il burro, le scarpe, l'affitto, i vestiti, la bistecca di
mezzogiorno: quella bistecca che mi metteva ogni giorno nel piatto, un po'
solennemente, come segno della sua vittoria sulle avversità. Di ritorno da
scuola mi sedevo a tavola davanti a quel piatto. Mia madre, in piedi, mi
guardava mangiare con lo sguardo appagato delle cagne che allattano i
cuccioli.
Lei non voleva assaggiarne, sostenendo che le piacevano solo le verdure e che
la carne e i grassi le erano assolutamente proibiti.
Un giorno, lasciata la tavola, andai in cucina a bere un bicchiere d'acqua.
Mia madre era seduta su uno sgabello e teneva sulle ginocchia la padella in
cui aveva cotto la mia bistecca. Raccoglieva con cura il sugo rimasto sul fondo
con pezzetti di pane che mangiava poi avidamente e, nonostante la rapidità
del gesto con cui nascose la padella sotto il tovagliolo, capii in un lampo
tutta la verità sui veri motivi del suo regime vegetariano.
Rimasi lì un momento, immobile, pietrificato, guardando con orrore la padella
malamente nascosta sotto il tovagliolo, e il sorriso inquieto, colpevole, di
mia madre; quindi scoppiai in singhiozzi e fuggii.
In fondo all'Avenue Shakespeare, dove abitavamo a quei tempi, c'era una
scarpata ripidissima che dominava la ferrovia: ed è là che andai a
nascondermi. L'idea di buttarmi sotto un treno e di sottrarmi così alla mia
vergogna e alla mia impotenza mi balenò nella testa ma, quasi
contemporaneamente, una selvaggia risoluzione di raddrizzare il mondo e di
deporlo un giorno ai piedi di mia madre, un mondo felice, giusto, degno di
lei finalmente, mi morse il cuore con un bruciore che mi rimase nel sangue
fino alla fine. Il volto nascosto tra le braccia, mi abbandonai al mio
dolore, ma le lacrime, che spesso mi sono state tanto clementi, quella volta
non mi furono di nessuna consolazione. Un'insopportabile sensazione di
miseria, di svirilizzazione, quasi di malattia, si era impadronita di me; a
mano a mano che crescevo, la mia frustrazione di fanciullo e la mia confusa
aspirazione, anziché smorzarsi, ingrandivano insieme con me e si
trasformavano gradatamente in un bisogno che né le donne ne l'arte sarebbero
più uscite a calmare.
Stavo piangendo in mezzo all'erba, quando mia madre apparve in cima alla scarpata.
Non so come avesse scoperto il nascondiglio: non ci veniva mai nessuno. La
vidi abbassarsi per passare sotto il filo di ferro, poi scendere verso di me,
i capelli grigi pieni di luce e di ciclo. Venne a sedermisi vicino, con
l'eterna sigaretta in mano.
"Non piangere".
"Lasciami stare".
"Non piangere. Ti chiedo scusa. Adesso sei un uomo. Ti ho fatto
pena".
"Lasciami stare, ti dico".
Un treno passò sul binario. Mi parve improvvisamente che fosse il mio dolore
a fare tutto quel fracasso. "Non lo farò più".
Mi calmai un po'. Eravamo tutti e due seduti sulla massicciata, braccia sulle
ginocchia, guardando dall'altra parte. C'era una capra legata a un albero di
mimosa in fiore, il ciclo era molto azzurro e il sole più che mai splendente.
Di colpo pensai che il mondo dava anche delle soddisfazioni. L il primo
pensiero d'adulto di cui uni ricordo.
La mamma mi lese il pacchetto delle sigarette.
"Ne vuoi una?"
"No".
Cercava di trattarmi da uomo. Forse aveva fretta. Aveva già toccato i
cinquantun anni, un'età difficile, quando non si ha che un bambino come unico
sostegno della propria vita.
"Hai scritto, oggi?"
Da più di un anno "scrivevo". Avevo già riempito con i miei poemi
parecchi quaderni di scuola. Per darmi l'illusione di essere pubblicato, li
ricopiavo lettera per lettera in caratteri di stampa.
"Sì. Ho cominciato un grandi poema filosofico sulla reincarnazione e la
migrazione delle anime".
Lei fece "bene" con un cenno del capo.
"E a scuola?"
"Ho avuto uno zero in matematica".
Mia madre ci pensò sopra.
"Non ti capiscono", disse.
Ero abbastanza d'accordo. L'ostinazione con la quale i miei professori di
scienze mi davano zero mi faceva pensare che fossero di una crassa ignoranza.
"Se ne pentiranno", disse mio madre. "Saranno svergognati. Un
giorno il tuo nome sarà stampato in lettere d'oro sui muri della scuola.
Domani li andrò a trovare e glielo dirò..."
Fremetti.
"Mamma, te lo proibisco! Mi renderai ridicolo un'altra volta".
"Leggero loro i tuoi ultimi poemi. Sono stata una grande attrice e so
come si leggono i versi. Tu sarai un D'Annunzio! Tu sarai un Victor Hugo! Un
Premio Nobel!"
"Mamma, ti proibisco, di andarci a parlare".
Non mi ascoltava. Il suo sguardo si perse medio spazio e un sorriso felice le
affiorò alle labbra, ingenuo e insieme fiducioso, come se i suoi occhi,
forando le nebbie dell'avvenire, vedessero improvvisamente il figlio, ormai
uomo, a salire lentamente i gradini del Pantheon in grande tenuta, coperto di
gloria, di successi e di onori.
"Avrai tutte le donne ai tuoi piedi", concluse categoricamente,
spazzando il cielo con la sigaretta.
Il treno di mezzogiorno e cinquanta da Ventimiglia passò in una nuvola di
fumo. Ai finestrini i viaggiatori dovevano domandarsi cosa mai guardassero in
cielo con tanta attenzione quella signora dai capelli grigi e quel bambino
triste che si asciugava le lacrime.
La mamma, a un tratto, parve preoccupata.
"Bisogna trovare uno pseudonimo", disse con fermezza. "Un
grande scrittore francese non può portare un nome russo. Se tu fossi un
virtuoso del violino andrebbe molto bene, ma per un titano della letteratura
francese non va..."
Il "titano della letteratura francese" questa volta approvò
incondizionatamente. Da sei mesi passavo intere ore ogni giorno alla ricerca
di uno pseudonimo. Li scrivevo con l'inchiostro rosso, in bella calligrafia,
su un quaderno speciale. Quello stesso mattino avevo fermato la mia
attenzione su "Hubert de la Vallée", ma una mezz'ora più tardi
cedevo all'incanto nostalgico di "Romain di Roncisvalle". Il mio
vero nome, Romain, mi pareva assai soddisfacente; purtroppo c'era già Romain
Rolland e io non ero disposto a condividere la mia gloria con nessuno. Tutto
questo era molto complicato. Il guaio degli pseudonimi è che non esprimono
mai tutto quello che si vorrebbe. Avevo finito per concludere che uno
pseudonimo, come mezzo di espressione letteraria, non era sufficiente e che
occorreva anche scrivere dei libri.
"Se tu fossi un virtuoso del violino, il nome Kacev andrebbe bene",
ripeté la mamma con un sospiro.
Questa storia del "virtuoso del violino" era stata per lei una
grossa delusione e mi sentivo alquanto colpevole. Si trattava di un malinteso
col destino che mia madre non riusciva a capire. Aspettandosi tutto da me e
cercando qualche meravigliosa scorciatoia che ci conducesse entrambi alla gloria
e all'adulazione delle folle - non esitava mai davanti a un luogo comune, il
che non era dovuto tanto a una povertà di vocabolario quanto a una specie di
sottomissione alla società del suo tempo, ai suoi valori, alle sue unità di
misura (esiste tra i luoghi comuni, le formule già confezionate e
l'ordinamento sociale corrente, un legame di accettazione e di conformismo
che trascende il linguaggio) - aveva sperato in un primo tempo che io
diventassi un ragazzo prodigio, un misto di Yacha Heifetz e di Yehudi
Menuhin, che erano allora all'apogeo della loro giovane gloria. Mia madre
aveva sempre sognato di essere una grande artista; avevo appena sette anni
quando un violino d'occasione fu acquistato in un negozio di Wilno, nella
Polonia orientale, dove eravamo allora di passaggio, e io fui solennemente
condotto in casa di un uomo dall'aspetto stanco, vestito di nero e con i
capelli lunghi, che mia madre chiamava "maestro" in un rispettoso
bisbiglio. In seguito vi ritornai da solo, facendomi coraggio, due volte alla
settimana, col violino in una custodia color ocra foderata internamente di
velluto viola. Mi è rimasto un solo ricordo del maestro: quello di un uomo
che si stupiva profondamente ogni volta che prendevo in mano l'archetto, e il
grido "Ahi, ahi, ahi!" che gli sfuggiva mentre si portava le mani
alle orecchie è ancora vivo dentro di me. Credo che fosse un uomo in continua
sofferenza per la mancanza di armonia universale in questo basso mondo, una
mancanza d'armonia nella quale io ebbi una parte di primo piano durante le
tre settimane di lezione. Alla fine della terza settimana mi tolse
bruscamente archetto e violino dalle mani, disse che avrebbe parlato con la
mamma e mi rimandò a casa. Quel che disse a mia madre non lo seppi mai; ma
lei passò parecchi giorni a sospirare e a guardarmi con rimprovero,
stringendomi a volte al suo petto in uno slancio pieno di tenerezza.
Un grande sogno era svanito.
(...)
(Brano
tratto dal romanzo La promessa dell'alba, Neri Pozza Editore, Vicenza,
2006. Traduzione di Marcello Venturi.)
Romain Gary (pseudonimo di Romain Kacev)
nacque nel 1914 in Lituania, figlio naturale di un'attrice di scarso talento,
ebrea russa fuggita dalla rivoluzione, e di Ivan Mosjoukine, la più celebre
vedette, insieme a Rodolfo Valentino, del cinema muto. A trent'anni, Gary è
un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d'honneur), scrive un
libro di racconti, Education européenne, che Sartre giudica il miglior
testo sulla resistenza, gli si aprono le porte della diplomazia. Sofia,
Berna, l'Onu come portavoce della Francia, il consolato generale a Los
Angeles. Nel 1956, vince il Goncourt con Les racines du ciel, primo
romanzo ecologista. Nel 1960 pubblica La promessa dell'alba. Nel 1962
sposa la bella Jean Seberg, l'attrice americana di Bonjour tristesse,
l'interprete romantica di A bout de souffle. Nel 1975 pubblica, con lo
pseudonimo di Emile Ajar (identificato all'inizio come Paul pavlovitch, nipote
reale di Romain Gary), La vita davanti a sé (Neri Pozza, 2005) che,
nello stesso anno, vince il Prix Goncourt.
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