Nel mezzo del cammin di un matrimonio già stanco, ammutolito, logorato da una
successione infinita di malintesi, se chiudiamo gli occhi e guardiamo
indietro verso il momento del primo incontro, del primo bacio, dei primi
giorni passati da soli in un luogo esotico e irreperibile - anche se era lo
stesso quartiere in cui vivevamo da sempre - allora ci immergiamo a ritroso
nella dolceamara esperienza dell'idillio ricordato. È questo l'unico idillio
possibile, perché quello vero, sul momento, non è godibile, è solo una serie
di movimenti alla cieca, spasmodici, carichi di tensione, quasi un'ansia, una
sofferenza. Ma quell'idillio poi, anni più tardi, sarà infiammato da una nostalgia
avida, la saudade, che ci ridonerà con trasparenza il suo autentico
contenuto: l'estasi sommersa durante la tempesta.
L'idillio - questa sorta di stato di grazia condannato alla fugacità - non
esiste solo per gli amanti. Esistono idilli per tutte le esperienze della
vita, come per il viaggio (idillio con la natura e la cultura), per il lavoro
(idillio con la vocazione) e per l'arte (idillio col linguaggio). Ebbene, in
questo breve pezzo di storia letteraria cercherò di raccontare in modo molto
personale, frammentario e, lo so bene, a volta anche impreciso, il mio
idillio con la vita dello scrittore. Rispondo così ad un invito della rivista
Musibrasil, scaturito dai ricordi affiorati alla mia memoria e a quella di
Fabio Germinario, il coordinatore della rivista, con la pubblicazione
bilingue delle poesie di Cacaso, scrittore di Rio come me, contemporaneo e
complice, morto in giovane età come si conviene ai poeti e ai rivoluzionari.
Questo mio idillio ha una definita cornice storica, la metà degli anni '70,
un luogo, la fascia metropolitana e più cosmopolita del Brasile, che va da
Belo Horizonte a Porto Alegre, e un nome ufficiale: il Boom Letterario
Brasiliano. A quell'epoca erano già trascorsi - ma erano ancora di
freschissima memoria - gli anni più brutali della dittatura militare, quegli
del Generale Costa e Silva e del Generale Medici. Era al governo Ernesto
Geisel, generale anche lui, naturalmente (si diceva per scherzo allora che
bisognava considerare il Brasile in modo molto "generalizzato"), e anche
lui portava gli immancabili occhiali neri degli ufficiali di quei tempi
(circolava voce che era perché così il nemico non si accorgeva di essere
osservato da loro, mentre la testa puntava verso un'altra direzione). Al
contrario dei suoi predecessori della "linea dura" delle Forze
Armate, Geisel sembrava disposto allora ad abolire la pratica della tortura e
dell'omicidio di stato e a tollerare i primi barlumi di ripresa della vita
democratica. Attorno a lui, una corte sinistra, un'autentica schiera di spiriti
maligni in divisa da generale, molti dei quali cospiravano contro il
Presidente stesso, congetturando su come riportare il paese all'età delle
tenebre da cui noi giovani volevamo disperatamente uscire. Si chiamavano
Frota, Medeiros, Figueiredo, Mello, Pires, Fontoura, Golbery, Muricy, Lyra,
Grunnewald e tanti altri bei cognomi borghesi che suoneranno per sempre
terrificanti e luciferini al mio udito, e mi faranno rabbrividire durante le
ore profonde del sonno anche nel corso del nuovo secolo.
La magra e fragile intenzione di apertura del regime sbocciava mentre i
musicisti del periodo precedente, da Caetano a Chico Buarque, ma anche
registi come Glauber Rocha e Marcos Medeiros, erano ancora in esilio. Per i
più giovani che erano rimasti in patria quel barlume era stato sufficiente
per ridestare un grande coraggio creativo e un desiderio di partecipare alla
vita pubblica, di trasformare lo spiraglio promesso da Geisel in un'autentica
porta verso il futuro, se necessario in contrasto con lo stesso Governo. E fu
proprio così che avvenne.
Ma quei giovani cosa sapevano fare? Di quali armi disponevano? Sapevano
scrivere storie e poesie, non di piú. In qualche caso anche un romanzo, una
pièce teatrale.
Come si chiamavano? Cacaso o Júlio, come abbiamo visto, e poi Domingos,
Chacal, Caio, Ana, Glauco, Barreto, Vital, Emediato, Elías, Tania, Fiorani,
Duilio, Leminski, Charles, Brasigóis, Reinoldo, Carlos Emilio, Leila,
Roniwalter, Nei, Márcio, Marcia e tanti altri, con le loro rigogliose e
ricciute capigliature fino alle spalle, affluivano da tutte le parti del
paese verso le capitali del Sud, a volte con un biglietto di sola andata e
senza un cruzeiro in tasca.
E come diffondevano i loro scritti? Per prima cosa occorre ricordare che gli
editori di allora, a parte il terrore che avevano di cadere nelle grinfie dei
censori (in alcune case editrici, come nella Civilização Brasileira, i
censori lavoravano "in casa", come normali impiegati), erano
alquanto anchilosati - anche quelli di sinistra - e insensibili ai nuovi
linguaggi di quella gioventù, oltre ad essere naturalmente diffidenti e
deliberatamente ignari del fenomeno letterario che si preannunciava. Erano
invece cultori, per esempio, di una certa narrativa amena e giocosa, quella
presente nelle crônicas di Rubem Braga, di Fernando Sabino o di Sergio
Porto, fiorita circa quindici anni prima in un altro Brasile, quello della
Bossa Nova e del Presidente Juscelino, lo statista che sorrideva e ballava il
walzer in frac nei salotti di una felice e spensierata "Pompei"
politica. Dopo l'irruzione dei carri armati nel 1964, la fonte di allegria
che alimentava quelle deliziose crônicas si era spenta, e con essa
anche quel genere letterario e quello stile. Ma gli editori ancora storditi
non riuscivano a rassegnarsi.
Ebbene, senza case editrici alle loro spalle, come avevano fatto i ragazzi
della generazione del boom? Decisero innanzitutto di pubblicare essi
stessi le loro cose, o meglio, di stamparle artigianalmente, copia per copia,
a volte anche a mano, con disegni diversi per ogni copia, oppure con le
fotocopie di allora, con i ciclostili elettrici e quelli ad alcool, i
caratteri di un azzurro forte (e quell'odore penetrante ce l'ho ancora oggi
nelle narici), per poi venderli o regalarli, quei libercoli, nei ristoranti di
una bohème che risorgeva, nei tanti bar all'aperto, sulle spiagge, nelle
fiere, oppure inviarli per posta (erano ancora anni di piombo, il DOPS e
l'SNI, la polizia politica, erano infiltrati da tutte le parti, occorreva
perciò una diffusione discreta, un foglio di carta, niente show, niente film,
niente spettacolo pubblico...), o lasciarli in vendita nelle librerie -
piccole pile sempre accanto al registratore di cassa dei librai più complici,
in attesa di lettori altrettanto complici che non mancavano affatto. Questa
era la (oggi leggendaria) literatura marginal (letteratura marginale),
o literatura nanica (letteratura nana), come la chiamavano quelli del
gruppo del settimanale satirico O Pasquim, del quale facevo parte
anch'io allora, l'ultimo arrivato. Oppure la chiamavano, appunto, Geração
Mimeógrafo (generazione ciclostile), la quale dietro quella precarietà
quasi ridicola di mezzi compieva in quegli anni, alla sua medesima insaputa,
il più radicale e profondo rinnovamento della letteratura brasiliana dai
tempi del Movimento de Arte Moderna del 1922, del Movimento
Antropofágico.
E proprio lì, attorno a quei ciclostili puzzolenti e a quelle spillatrici che
ci foravano le dita, nasceva anche il mio idillio, il mio periodo favoloso,
in tutti i sensi della parola, un tempo perduto e ora ritrovato. E se
vogliamo proprio essere proustiani, era anche un tempo di profumo di
patchouli, d'incenso di sandalo, di lavanda sul collo delle ragazze, del
sapore del vino caldo nell'inverno di Ouro Preto, cantando insieme al gruppo
Maria Déia per dimenticare il freddo, di riso integrale con igname, di cachaça
rossa senza nome fatta nei cortili di Minas, ma anche di fettuccine alle tre
del mattino nel Baixo Leblon, o di un filetto alla cubana in fondo al
ristorante Lamas, insieme ai vecchi giornalisti del clandestino Partito
Comunista, o nel Lucas, nell'Edificio Maleta, a Belo Horizonte, o nei bar
della Rua Rego Freitas, a São Paulo, vicino al Teatro Opinião, sempre
guardandosi attorno, sempre molto affamati, a fare sempre le ore piccole, la madrugada,
e nonostante tutto sempre felici, come poi mai più saremmo stati.
Tè alla menta, tè di capim-limão. Profumo di rugiada, di marijuana. Il
profumo dei riccioli di una certa Malu, che non ho mai più rivisto. Il sapore
delle lacrime raccolte sulle sue labbra in un bacio commosso e in un
abbandono assoluto.
Non vorrei aggiungere più niente a questo punto. Ho trovato un fotogramma
all'altezza dell'idillio.
Va be', torniamo alla letteratura.
La letteratura, si sa, non è solo testo, è anche una comunità, i suoi templi
e i suoi riti. È proprio la forza delle sinergie che si sviluppano dentro una
comunità letteraria e nei rapporti col suo pubblico che alla fine fa emergere
i talenti individuali, i quali altrimenti verrebbero artisticamente abortiti,
e si sarebbero dispersi per altre strade. Quella fase della storia brasiliana
aveva una comunità in attività febbrile, che celebrava quotidianamente i suoi
riti. A partire del 1975, quando un nuovo pubblico, avido di informazioni che
non fossero solo le menzogne trasmesse dalla propaganda di regime, si era
finalmente appassionato al nuovo fenomeno, e ogni settimana apparivano nuove
riviste letterarie, che riscuotevano un successo tale da essere vendute nelle
edicole e non solo nelle librerie, con tirature di migliaia di copie per ogni
edizione: si chiamavano Ficção, Escrita, Inéditos, O Saco, Protótipo, Teia,
e tante altre. Nel 1976, l'industria editoriale si rese conto a sua volta
dello stato delle cose e cominciò a investire in quella nuova generazione.
Per esempio, la casa editrice Codecri, appartenente a O Pasquim,
pubblicava la collana Histórias De Um Novo Tempo (Storie di un tempo
nuovo), con 12 racconti di 6 giovanissimi autori, tutti al di sotto dei 25
anni, che in una settimana vendette circa 30 mila copie, un record mai più
uguagliato da autori esordienti in Brasile. I nomi: Caio Fernando Abreu, Luiz
Fernando Emediato, Domingos Pellegrini Jr., Jefferson Ribeiro de Andrade,
Antonio Barreto ed io stesso.
Un po' più tardi la professoressa Heloisa Buarque de Hollanda, che già
promuoveva in casa sua a Rio un salotto letterario d'avanguardia frequentato
tra gli altri da Chacal, Ana Cristina Cesar, Cacaso, curava la collana di
poesia 26 Poetas Hoje (26 poeti di oggi), che ebbe una grande
risonanza sulla stampa e fece conoscere un'intera generazione emergente di
poeti, anche se le scelte compiute allora dalla professoressa erano troppo
personali e privilegiavano soltanto una delle tendenze in atto nel Paese,
quella cioè della poesia minimalista, underground
("udigrudi", si diceva per scherzo allora), a scapito della
corrente più impegnata politicamente e di quella che perseguiva un
rinnovamento della potente vena lirica della tradizione, creando cosí una
spaccatura insanabile che ancora oggi è una ferita aperta nella vita poetica
brasiliana (si diceva allora che il "territorio brasiliano" coperto
dalla collana di Heloisa cominciava all'Arpoador e finiva all'Avenida
Niemeyer, ossia gli estremi della spiaggia di Ipanema, e basta).
Comunque, a quel punto l'esplosione, il boom si era già consolidato, e
per la prima volta non era la musica, l'architettura o il Cinema Novo
ad occupare un posto di rilievo tra le arti nei gusti del pubblico e nelle
attenzioni della stampa, ma il nuovo veniva proprio da dove non si sarebbe
potuto aspettare, dai giovani scrittori in un paese che leggeva - e legge
tuttora - poco e male. La grande resistenza a quella cultura di destra che
aveva ipnotizzato i ceti medi negli anni precedenti veniva dalle lettere,
viste fino ad allora dalla gente come la più conservatrice tra le forme di
espressione. E per quattro brevi meravigliosi anni fare lo scrittore in
Brasile significava fare il rivoluzionario totale, nel contenuto ma anche
nella forma, e capovolgere i concetti dominanti e la gretta cultura
piccolo-borghese, che si cullava nell'illusione di un "miracolo
economico" allestita dai militari.
Ma prima di raccontare cos'è successo alla fine del quadriennio, vorrei
aggiungere ancora alcune cose su quell'età dell'oro.
Tra i riti di cui parlavo, c'era anche quello della lettura e del pubblico
dibattito di testi di poesia e di narrativa all'interno delle università; un
fenomeno non promosso dai docenti, bensì dagli allievi stessi, tante volte
contro lo stesso orientamento repressivo dell'università, e non di rado anche
in segreto. Questo forse spiegava in parte la presenza sempre numerosa degli
studenti, seduti sul pavimento o in piedi nei corridoi, a sentire noi, gli
autori con cui si identificavano, improvvisate e incerte pop star, che
presentavamo con voce sempre appassionata i nostri testi inediti o
conosciuti. Insieme a Cacaso, per esempio, ho partecipato a dei pomeriggi di
lettura alla Pontíficia Universidade Católica, e alla Universidade
Federal Fluminense, a Niterói, e poi alla Federal di Rio. E si
leggeva anche sotto un grande tendone aperto prima vicino alla spiaggia di
Arpoador e poi ai piedi dell'acquedotto di Lapa, il Circo Voador (Circo
Volante), con la presenza di centinaia di giovani cariocas. Ma
soprattutto nelle piccole librerie alternative della città, in una atmosfera
da cave parigina, con tanto di fumo, musica jazz e sguardi complici.
Erano la Folhetim, la Muro, la Leonardo da Vinci, la Dazibao, la Pasárgada, e
poi la Contexto, la Xanan, la Timbre del barbuto, corpulento e attento
Aluísio Leite, che è rimasto nel ricordo come una sorta di libraio-simbolo di
quel periodo, anche se in verità si è "alzato in volo" al tramonto
di quella splendida giornata.
Ana Cristina Cesar, amica di Cacaso, scoperta da Heloisa, poetessa carioca
bionda e bella, reticente nel parlare e nello scrivere, sempre così seria e
sensibile, è stata forse "l'uccellino nella miniera" di quel
percorso. E forse avvertiva inconsciamente l'esaurimento di un'epoca, la
nostra infanzia letteraria dorata, e un giorno smise di parlare, o cominciò a
pronunciare ininterrottamente un discorso inconcludente, non ho mai capito
bene cos'era accaduto, infine venne ricoverata in un manicomio. Qualche mese
dopo ne uscì, apparentemente rasserenata, "guarita", i genitori la
riportarono a casa, un appartamento al decimo piano, e aperta la porta,
proprio di fronte a loro, prese una rincorsa e si buttò dalla finestra senza
dire una sola parola. Aveva poco più di vent'anni, ma fece in tempo a
lasciarci la bella ed enigmatica raccolta A Teus Pés (Ai tuoi piedi).
Occorre aggiungere per correttezza intellettuale che quegli anni non furono
caratterizzati solo dalle nostre storie, e prima che sia accusato di troppe
imprecisioni vorrei aggiungere che non mancavano anche gli scrittori più
affermati, ed erano quelli che trascinavano i lettori. In ordine di
preferenza all'epoca, João Antonio, José Louzeiro, Wander Piroli, e poi Rubem
Fonseca, Clarice Lispector, Lygia Fagundes Telles, Luís Vilela, Ignácio di
Loyola Brandão e tre grandi vecchi; Drummond, Jorge Amado e Érico Veríssimo,
che in Incidente In Antares faceva risvegliare i morti rimasti
insepolti per uno sciopero dei becchini, al fine di compiere quella Rivoluzione
che effettivamente cercavamo di avviare nel paese. Ma che nonostante tutti
quei libri straordinari non è stata fatta, e probabilmente non lo sarà mai.
Sono i limiti della letteratura, limiti che noi allora non conoscevamo, o non
volevamo conoscere. E così una letteratura che per un attimo si era creduta
onnipotente era stata scavalcata dalle forze della politica, non quella
desiderata, ma quella possibile.
L'amnistia per gli esiliati ufficiali della dittatura, nel 1979, e il ritiro
delle leggi eccezionali, tra le quali quelle della censura e l'Atto
Istituzionale n°5, una specie di Stato di Assedio permanente, rimescolò
nuovamente le carte. Gli interventi politici e le proposte dei reduci
dall'esilio, i programmi giornalistici della TV, le biografie dei personaggi
della storia recente del paese e i talk-show diventarono in breve il
discorso egemonico, e a partire dal Verão da Abertura (l'estate
dell'apertura politica), a cavallo tra il 1979 e il 1980, la poesia e la
narrativa brasiliana vennero brutalmente messe da parte, come un paravento
ingombrante e fuori moda, le case editrici chiudevano nuovamente le loro
porte a chi non scrivesse direttamente e senza "orpelli di stile"
sulla realtà, mentre anche sulla stampa, fino a quel momento così attenta,
cadeva un pesante sipario di silenzio.
Mentre scrivo queste righe sono già passati quasi trent'anni e da
quell'imprevista tenebra la letteratura brasiliana non si è mai più ripresa.
È diventata da allora come una nicchia, coltivata da pochi, ininfluente dal punto
di vista sociale e culturale, ignorata o derisa da quella stessa stampa che
alla nascita l'aveva incensata. Dopo i libri biografici, passò la moda dei
libri di self-help e di esoterismo fasullo, di magia, oppure arrivò il
turno dei testi scritti dai comici e dai personaggi di successo televisivo:
collane di barzellette e di pettegolezzi occupano ancora oggi lo spazio
lasciato vuoto negli scaffali. Praticamente nessuna delle opere di quel
periodo magico è stata ristampata, e oggi è solo possibile trovarne, forse e
con un po' di fortuna, qualche copia ingiallita e spiegazzata nei sebos,
gli antiquari di libri usati.
E agli autori cos'è successo? Tanti, ma proprio tanti di quei giovani sono
morti prematuramente, suicidi, di AIDS, di pazzia, di overdose, di
delusione: Caio, Ana Cristina, Cacaso, Torquato, Leminski... Altri lasciarono
il paese in un esilio anonimo, non-ufficiale, senza il prestigio e il
riconoscimento dei nobilitati esili di allora: Sergio Kokis, Teresa Albues,
io stesso. Altri sono rimasti, ad invecchiare dietro alla scrivania di un
giornale o di un ufficio, e a questi ultimi non piace nemmeno la semplice
menzione di quell'avventura, come se fossero sopravvissuti a un naufragio o a
un olocausto (ma in verità sono tanti i modi di vivere interiormente un
naufragio o un olocausto...).
Pochi invece hanno continuato a scrivere, a inseguire la chimera di una
carriera letteraria, a perseguire un miraggio. Quel che resta è il fatto di
aver comunque vissuto per un attimo l'idillio con la Storia. E anche questo
non è cosa da poco.
Ma fermiamoci qua. Non possiamo concederci il lusso di bruciare, nel
consolarci, l'energia del cambiamento. E ce ne vuole poi cosí tanta...
Alla fine mi è rimasta impressa un'immagine, quella di un giovane
sconosciuto, seduto qualche sedia davanti alla mia nel traghetto che da
Niterói ci portava a Rio de Janeiro attraverso la baia, mentre all'improvviso
estrae dalla sua borsa a tracolla un libro, il mio primo libro, Torpalium,
e si mette a leggerlo ignaro del fatto che l'autore sedeva alle sue spalle.
Era il 1977. La palpitazione generata in me da quella visione la sento ancora
oggi solo al ricordo: l'epifania, la visione di un miracolo, quello
sdoppiarsi in un altro essere fatto di carta e inchiostro, fatto di parole e
di idee, fatto di noi stessi, insomma. Sono immagini che oggi mi ridanno
energia, invece di sottrarmela.
E se pure non fossero in grado di farlo, avrei comunque dentro di me ancora
una riserva di quei baci languidi al profumo di lavanda... e bastano quelli
per continuare a vivere.
|