Il primo passaggio fu
uno dei migliori, più di duecento miglia con un fattore che tornava a casa da
Sydney. Divise con lei i suoi tramezzini e un thermos di tè e parlarono di
fattorie e viaggi. Disapprovava l'autostop. Era rischioso, specialmente per
le donne, diceva.
"Ma è così divertente" disse lei. "E io sono prudente. Sono
pignola quando scelgo da chi accettare passaggi. E poi c'è Donovan a
proteggermi".
Nell'udire il suo nome, il cane aprì un occhio e batté la coda. Il fattore
sbuffo ridendo.
"È mordace sicuramente!"
Guidò per cinque miglia oltre la sua uscita per lasciarla in un autogrill
dove si sarebbe potuta riparare. Lei pensò che si trattava di un buon punto.
Anche se nessuno si fosse fermato per fare benzina, qualcuno, probabilmente,
avrebbe rallentato.
Un'ora dopo si sentì meno ottimista. Il tempo peggiorava e il traffico era
diminuito fino quasi a cessare. La strada si stendeva in una lunga linea
grigia, che diventava sempre più sottile fino a fondersi con la macchia e le
nuvole. Aprì la lampo del suo zaino e tirò fuori un impermeabile. Un
meccanico fermo all'entrata dell'officina la guardò mentre lo indossava ma,
quando lei se ne accorse e sorrise, si girò e ritornò dentro.
Un camion accostò. Il conducente controllò il carico, poi entrò nel
ristorante attraverso la tenda a strisce verticali di plastica. Dopo non
venne nessuno, neppure il carro di un fattore. Si sedette sullo zaino
lanciando bastoncini perché il cane li andasse a prendere e guardando una
cortina di pioggia avanzare attraverso i campi.
"Vuoi un passaggio? È un tempaccio".
Lei esitò. Sembrava un tipo a posto. Vestiti normali, niente tatuaggi, niente
fibbie elaborate o roba del genere, sorriso non esagerato, sguardo non
evasivo ma non troppo intenso.
Se il cane si fosse bagnato, chiuso. Nessuno le avrebbe più dato passaggi.
"Ok" rispose.
Il cane balzò in piedi e seguì l'uomo verso il camion, agitando la coda.
"Dove sei diretta?"
"Murrunbin".
"Quel posto è un inferno".
"Mio zio è il gestore di una miniera".
Quando cambiò marcia vide quattro tendini allungarsi attraverso le nocche e
giù lungo le dita tozze. Mani ampie. Sembravano forti.
"Mai stata lì prima?"
"No".
Passò a una marcia più alta. Le unghie delle mani erano corte. Braccia
abbronzate con i peli che si erano schiariti. Era stato molto al sole.
"Allora, da dove vieni?" le chiese.
"Australia Occidentale". Chiacchierò per un po' della sua casa e
della sua famiglia, di dove era stata, raccontò che il cane era un randagio
che aveva trovato e che non poteva abbandonarlo. Di solito parlava parecchio.
Alla maggior parte degli autisti questo piaceva perché alleggeriva la noia
del viaggio. Era facile scegliere quelli che amavano la tranquillità. Non
facevano domande.
"Come si chiama?" disse il conducente. Il cane era raggomitolato
sulle ginocchia della ragazza. Non gli piaceva stare sul pavimento, così a
volte, a seconda del veicolo, lo lasciava saltar su.
"Donovan".
"Ehi Don!"
Allungò la mano sul cane e gli fregò la testa. Il cane gli si strofinò col
muso e sospirò nel sonno.
"Un po' coccolone eh?"
Lei rise. "Sicuro. L'affetto deve essergli mancato quand'era
cucciolo". "Di dove sei?" gli chiese.
"Queensland".
"Che zona?"
"A nord".
"È bello lassù. Ho lavorato a Cairns per un po"'.
"Sì? In un pub?"
"No, non mi piacciono i pub. Non sopporto l'odore della birra".
Egli sbuffò con un riso stridulo. "Non hai bisogno di sentirne
l'odore!" Allungò il braccio, spinse una cassetta nella piastra e
premette il tasto play. "Ti piace Kenny Rogers?"
"Certo" rispose. Sebbene in realtà non le piacesse.
Lesse i numeri sulle
pietre miliari. Quarantatré, quarantadue, quarantuno, quaranta. Due cavalli
stavano fermi sotto un eucalipto con le teste chine e le criniere al vento.
Nessun riparo per loro, pensò. O per le pecore nel pascolo vicino. Sono
contenta di non essere laggiù.
"Ecco un cane fortunato".
Lei sorrise. "Suppongo di sì".
"Non mi dispiacerebbe essere al suo posto".
"Mm". La ragazza guardò fuori dal finestrino laterale. Macchia,
grano e alberi di eucalipto, distorti dalle increspature dell'acqua che si
muoveva sul vetro.
"Star seduti là con le tue braccia intorno a me".
Lei guardò attraverso il parabrezza, la strada era ancora grigia e deserta.
"Perché non vieni a Melbourne con me? Ci divertiremmo".
Lo guardò diritto negli occhi. "No grazie".
Egli girò la cassetta dall'altro lato, alzò il volume e incominciò a cantare
insieme con il coro, Oh Ruubeee, non portare il tuo amore in città.
Lei guardava avanti, attendendo il cartello e lo svincolo. Dopo che il nastro
si bloccò vide una strada di terra battuta che conduceva a destra e un
segnale su cui si intravedeva la parola "Murrunbin".
"Sì, tu sei un cane fortunato, Don".
Il segnale passò rapidamente e scomparve.
Disse a se stessa di non lasciarsi prendere dal panico. Era una strada
coperta da ghiaia e il cartello era piccolo. Ce ne sarebbe stato un altro.
"Melbourne è un gran posto. Con una ragazza carina come te, potrei
davvero divertirmi".
Passò sfrecciando il secondo segnale. Questa volta si trattava di una strada
bitumata.
Dovrò saltare, pensò.
Ma quando? E il cane? Prima getterò fuori lui. Ma questo mi farà perdere
tempo. Lo metterò per terra, può saltare dopo di me. No, lo getterò.
Maledetto! Perché non si sveglia? Non riconosce l'odore? I cani dovrebbero
esserne capaci. Cani e cavalli.
Il cane ebbe un sussulto, guaì un paio di volte e tornò tranquillo.
"Sogna di andare a caccia di conigli" disse il conducente.
Disinserì il tergicristallo. Il suo avambraccio era grosso e tozzo come le
dita. Una cicatrice bianca vicino al gomito deviava la peluria in un'altra
direzione.
"Il cielo si sta schiarendo" disse.
"Sì".
"Tu e io a Melbourne, eh?"
Lei scosse la testa.
Gli caverò gli occhi, pensò. Due dita dentro il naso. Le palle.
"Peccato" rispose. "Potremmo divertirci da matti".
Dannato cane; penserà che stiamo giocando.
Vide in fondo un grande segnale bianco e una strada che svoltava a destra.
Il rumore dei freni svegliò il cane. Donovan si drizzò a sedere, aspettando
che il camion si fermasse; guardò attraverso il parabrezza, contento di andar
fuori a esplorare.
"Bene, esci?"
Cercò a tastoni la maniglia dello sportello; un momento dopo lei e il cane
andavano correndo verso lo svincolo.
"Ehi", gridò l'uomo, "non vuoi il tuo zaino?"
Quando tornò indietro, lo aveva già messo giù e lo teneva pronto perché lo
mettesse sulle spalle. La ragazza indugiò guardando oltre. Arrivavano due
macchine. Allora si girò, infilò le braccia nelle cinghie dello zaino e sentì
le mani di lui sistemarglielo sulle spalle.
"Grazie".
"Di niente".
Fece un largo sorriso mentre si issava nella cabina.
"Ci vediamo, Cucciolo" gridò.
Ma il cane non aveva sentito. Se ne era andato nella macchia a inseguire
qualcosa.
(Tratto dalla rivista Crocevia, maggio 2006.
Traduzione di Tiberia Leo)
Ruth
Dixon, nata nel
1953 a Bullfinch (Australia Occidentale) dove ha trascorso l'infanzia, ha
viaggiato molto negli anni Settanta, mentre nel decennio successivo si è
dedicata al-la famiglia e ai figli. Negli anni Novanta ha studiato scrittura
creativa e antropologia. Attualmente vive a Perth col marito americano e le
due figlie. Il racconto qui presentato è stato pubblicato in Australian
Short Stories, N° 56 (Pascoe Publishing, 1996).
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