In tempo di guerra lo
Stato cerca innanzi tutto di distruggere la propria cultura. Solo quando
quest'opera di distruzione è portata a termine, lo Stato può cominciare ad
annientare la cultura dei suoi avversari. Durante i conflitti la vera cultura
è eversiva. Quando la causa sposata dallo Stato arriva a definire l'identità
nazionale e il mito della guerra incita il paese alla gloria e al sacrificio,
chi mette in discussione il valore della causa e la verità dei miti è bollato
come nemico interno.
In tempo di guerra l'arte assume un significato completamente nuovo. La
guerra e il mito nazionalista che la alimenta sono i portatori di una cultura
bassa - folklore, drammi pseudostorici, kitsch, poesiole sentimentali, teatro
e cinema che magnificano la gloria di soldati pronti a morire nobilmente per
la patria nelle guerre passate e presenti. Per questo tutto ciò che ci
commuove in tempo di guerra perde ogni attrattiva a conflitto finito.
Canzoni, libri, versi e film che in guerra ci avevano riempiti di emozioni appaiono
rozzi e imbarazzanti, utili solo a suscitare nostalgia per il vecchio
cameratismo.
Gli Stati impegnati in una guerra zittiscono la loro cultura più autentica e
umana. Quando questa distruzione è a buon punto si accorgono che la mancanza
di freni critici e morali è molto utile nella campagna per sterminare la
cultura degli avversari. Distruggendo la cultura autentica - quella che ci
permette di discutere e giudicare noi stessi e la nostra società - lo Stato
erode il tessuto morale, che viene rimpiazzato da una versione distorta della
realtà. Il nemico è disumanizzato, l'universo viene diviso nettamente fra
forze della luce e delle tenebre. La causa viene celebrata, spesso in forme
apertamente religiose, come una manifestazione della volontà storica o divina.
Tutto è dedicato all'esaltazione e glorificazione del mito, del paese e della
causa.
In Serbia, le opere di scrittori come Danilo Kis e Milovan Djilas durante la
guerra erano pressoché introvabili, ed è ancora difficile reperire i loro
libri. In Croazia, nessuno ricordava più la satira tagliente di Miroslav
Krleza, autore di un feroce ritratto dei despoti dei Balcani. Scrittori e
artisti erano scomodi. Parlavano di tendenze sociali nascoste che venivano
ignorate da una nuova genia di sedicenti storici, economisti e politologi
nazionalisti.
I simboli nazionali - bandiere, canti patriottici, dediche sdolcinate -
invadono lo spazio culturale e lo dominano. L'arte viene contagiata dalla
banalità del patriottismo. E soprattutto, l'uso delle risorse culturali di un
paese per sostenere lo sforzo bellico serve a mascherare le contraddizioni e
le menzogne che si accumulano nel tempo. I simboli culturali o nazionali che
non favoriscono la crociata spesso sono estirpati senza pietà.
In Bosnia i signori della guerra lavorarono sodo per far sparire tutte le
tracce storiche della pacifica convivenza di diversi gruppi etnici. I simboli
del vecchio regime comunista - che aveva come slogan "fratellanza e
unità" - furono sfregiati o abbattuti. In Croazia i monumenti ai partigiani
caduti combattendo contro i tedeschi nella seconda guerra mondiale e gli
elenchi di nomi che dimostravano chiaramente la loro appartenenza a diversi
gruppi etnici, vennero fatti saltare in aria. Le opere di Ivo Andric', che
aveva scritto pagine di intenso lirismo sulla Bosnia multietnica, furono
tagliuzzate dai serbo-bosniaci che ne estrapolarono alcuni brani per
giustificare la pulizia etnica.
Tutti i gruppi - i croati, i musulmani e i serbi - si consideravano delle
vittime. Ignoravano i propri eccessi e denunciavano quelli degli altri con
rozze distorsioni che rinfocolarono le ostilità. Il vittimismo è una
componente fondamentale di ogni conflitto. Lo Stato lo fabbrica e lo coltiva
ad arte. L'intera vita culturale è assorbita dal compito di divulgare le
ingiustizie commesse ai nostri danni, e ben presto diventa poco più di un
imbonimento da agit-prop. Il paese è buono, la causa giusta e la guerra
nobile è il messaggio inculcato nella testa dei cittadini con ogni mezzo, dai
talk show di tarda notte ai programmi di informazione del mattino, dai film
ai romanzi popolari. Il paese piomba ben presto in uno stato di trance da cui
si risveglia solo a guerra finita. In alcune zone del mondo dove i conflitti
restano irrisolti, questa trance può durare per intere generazioni.
(Tratto da Il fascino oscuro della guerra, Editori Laterza, Bari,
2004. Traduzione di Maria Giuseppina Cavallo.)
Chris Hedges è stato
per quindici anni corrispondente di diverse testate, tra cui il "New
York Times" e il "Dallas Morning Newsd". Insegna Giornalismo
presso la New York University e ha ottenuto vari riconoscimenti. L'ultimo,
nel 2002, è stato l'"Amnesty International Global Award for Human
Rights".
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