"Mi sento vuoto.
Ci penso di continuo, a questo vuoto dentro. Mi dico che se potessi sondarmi
in profondità, aprirmi la testa e il cuore e guardarci dentro, non vedrei
nulla. Niente. Vento, deserto, una distesa di ghiaccio dove non si muove
niente".
Il tizio parlava e sentire il suo sfogo mi innervosiva, ho cambiato stazione.
Guidavo da un'ora e il caffè era diventato freddo. Guidavo nella notte, ero
stanco morto, mi si chiudevano gli occhi, prendevo strade a caso, strade
deserte e procedevo a passo d'uomo. Il rumore delle ruote sulla neve, il
sibilo del riscaldamento, la radio in sottofondo mi martellavano il cervello.
Non pensavo a niente, giravo a vuoto, avvolto dalla notte ovattata. Lo
stridio dei tergicristalli mi teneva sveglio, la brina che si formava qua e
là offuscava le luci. Non avevo motivo di fermarmi. Nessun cliente. Nessuna
chiamata dalla centrale. La gente se ne stava chiusa in casa e faceva bene. A
un certo punto ho costeggiato una chiesa ed era bella la facciata con il
cristo e gli alberi intorno. Mi sono fermato per due minuti in
contemplazione.
Poi ho ripreso a girare inutilmente per le strade tranquillee deserte,
guardavo i palazzi con le luci spente che si susseguivano lenti. L'intonaco
era screpolato e dietro le finestre s'intravedevano televisori accesi, uomini
stanchi che fumavano in camera da letto, vecchie insonni che scostavano le
tendine e bevevano la loro tisana. Ho ripensato al tizio della radio, alla
sua voce calma e posata, alle sue parole: mi sento vuoto. In fondo, forse gli
assomigliavo. Forse io e lui eravamo uguali.
A mano a mano che mi
allontanavo dal centro tutto si degradava e intorno a me vedevo solo
magazzini, casermoni popolari, terreni incolti e bar aperti di notte. Più
avanti c'era casa mia e Claire leggeva sdraiata sul divano del salotto,
oppure fissava il soffitto e non pensava a niente. I bambini dormivano uno
sopra l'altro nella loro piccolissima camera. Avevano coperto le pareti di
disegni, non li sgridavo più per queste cose. Ho pensato che era da molto
tempo che non gli passavo le dita sulla fronte mentre dormivano.
Ero quasi all'uscita
della città e la radio si è messa a gracchiare. Una donna chiedeva che
qualcuno la andasse a prendere, aveva un accento marcato, cinese o coreano.
Ho sentito chiaramente la voce che diceva ok, ma ho fatto finta di niente.
Nella piazza i chioschi dei fiorai erano chiusi, e gli abeti erano
impacchettati nelle ghirlande. Ho fatto il giro e un po' più giù lungo il
viale l'ho vista, era là davanti all'albergo, un albergo squallido dove i
clienti portavano le puttane del boulevard. Mi ha fatto un cenno, ho guardato
nello specchietto retrovisore, non c'era nessuno e ho rallentato. Era molto
pallida. I capelli neri mossi dal vento le coprivano
il viso, si irrigidivano in piccole ciocche di ghiaccio. Nascondeva il mento
in una sciarpa di lana e teneva qualcosa tra le mani. Si è chinata, ha aperto
lo sportello posteriore e l'aria gelida ha invaso l'abitacolo. Ho alzato il
riscaldamento. Emetteva un leggero ronzio che copriva la radio e il rumore
del motore. Lei ha detto qualcosa che non ho sentito. Ho abbassato la musica.
"Pont du 11-Novembre, per favore".
Per tutto il
tragitto non ha aperto bocca. Dal retrovisore la vedevo asciugare i
finestrini appannati, guardare fuori. Aveva un occhio leggermente più piccolo
dell'altro. Le ho domandato da che paese veniva, ha risposto che i suoi genitori
erano di Kyoto e ha chiuso gli occhi. Teneva le braccia incrociate sul petto.
Accanto a sé aveva posato un pacchetto avvolto in carta di giornale.
Sul ponte tirava un
forte vento, un uomo camminava a fatica tenendo l'ombrello con tutte e due le
mani. Lungo il fiume le macchine marciavano al rallentatore. Sulle due sponde
c'erano palazzi moderni e già vecchi, vetro misto a cemento sporco. Le
insegne erano accese anche di notte. Vicino all'isola mi ha chiesto di
parcheggiare e di aspettarla. Nella luce dei fari l'ho guardata dirigersi
verso la statua, raggiungere la scalinata e sparire. Mi sono acceso una
sigaretta. Non pensavo a nulla, immerso nel mormorio del riscaldamento e
della radio, nello stridio lieve dei tergicristalli. Da dov'ero riuscivo a
vedere il fiume denso e oleoso. Ho reclinato il sedile. Faceva caldo, sentivo
la musica e il rumore delle macchine sulla neve, le ruote nella poltiglia
grigia.
Quando ho riaperto gli occhi erano le quattro passate e lei non era tornata.
Aveva ripreso a nevicare ancora più forte, il ponte spazzato dal vento era
quasi bianco. In giro non c'era più nessuno, come se la città fosse stata
abbandonata. Il freddo mi ha aggredito, pungeva da far male, la neve mi
bruciava le labbra e gli occhi. Ho sceso la scalinata tenendomi alla
ringhiera. Il giardinetto era chiuso. Ho scavalcato il cancello e mi sono
strappato i pantaloni. C'erano delle lastre di ghiaccio e ho rischiato più
volte di cadere. Un uomo dormiva su una panchina imbacuccato in tre o quattro
coperte. L'ho scrollato e lui ha brontolato. Gli ho domandato se aveva visto
una ragazza asiatica. Mi ha dato dello stronzo e mi ha detto che non aveva
visto niente perché dormiva e poi mi ha mandato a fare in culo. Il suo cane
si è messo ad annusarmi le palle, l'ho colpito sul muso e lui ha guaito. Ho
pensato che probabilmente la donna se ne era andata da un pezzo. Che forse
era risalita mentre dormivo. Il freddo mi penetrava nella giacca e nella
camicia, non riuscivo a smettere di battere i denti. Mi sono acceso una sigaretta,
ci ho messo un po' per via del vento e mi sono bruciato con l'accendino. Un
fiocco di neve è caduto sulla fiamma con un leggero crepitio. Merda. Che cosa
ci facevo a quell'ora sotto un ponte a correre dietro a quella ragazza? Che
cosa me ne fregava? Era proprio nel mio stile perdere tempo con stronzate del
genere. Non mi aveva neppure pagato la corsa. Ho pensato al tassametro che
girava, ai soldi che andavano in fumo.
Mi sono voltato un'ultima volta e l'ho vista. Era là, sul margine del
lungofiume, sopra l'acqua piena di gorghi, era là con lo sguardo assente, la
bocca socchiusa, si dondolava avanti e indietro sul bordo, nei suoi abiti
troppo grandi e portati male, si dondolava biascicava aveva l'aria di una
pazza. Mi sono avvicinato. Piangeva e teneva tra le mani la scatola aperta.
Fissava l'acqua dondolandosi, tremava, lo sguardo vuoto, quegli occhi
disuguali e i capelli tagliati male. Ho detto solo: signora, è sicura di star
bene? E lei sembrava che non sentisse, è rimasta ferma, immobile davanti all'acqua
che scorreva. Il coperchio della scatola penzolava nel vuoto e dentro c'era
un fondo di cenere grigia.
Le ho toccato la
spalla. ha sussultato e si è messa a urlare. Eravamo faccia a faccia e lei
strillava, l'ho stretta tra le braccia e si è dibattuta, ho stretto più
forte, le ho urlato di calmarsi e a un tratto ha smesso di muoversi e il suo
corpo è diventato molle e i suoi occhi completamente vuoti. Ha aperto un po'
la bocca ma non è uscito alcun suono. Quando la scatola è caduta a terra ha
fatto un rumore sordo e le sue mani vuote hanno continuato a tremare. Mi sono
chinato a raccoglierla. Era una scatola nera di legno laccato. Sopra c'erano
due ideogrammi e un fiore disegnato. L'ho richiusa. Avevo un po' di cenere
sulle dita.
"Dobbiamo tornare in macchina. Così prende freddo".
L'ho presa per un braccio e lei mi ha seguito. Adesso era calma. Abbiamo
fatto la scalinata come due vecchi, fermandoci a ogni gradino.
Ho pensato a mio padre, verso la fine non riusciva neppure più a camminare.
Dopo la cremazione avevo tenuto le sue ceneri in casa per alcuni mesi. Le
avevo nascoste nella credenza del salotto, dietro una pila di strofinacci.
Claire non voleva più aprirla e tutte le volte che il mio sguardo finiva su
quel maledetto mobile pensavo alla piccola urna argentata. Non sapevo che
cosa fare, non mi sembrava normale tenerla in casa, vivere con le ceneri del
proprio padre in fondo a una credenza. Certe notti avevo gli incubi. Un
giorno. rovistando dappertutto in cerca dei regali di Natale, i bambini
l'hanno trovata. Che cos'è?, hanno domandato. I1 nonno, ho risposto, E sono
scoppiato in lacrime davanti a loro, era la prima volta che mi vedevano
piangere e mi sono vergognato. Quel giorno ho scavato una buca in fondo al
giardino, sotto il nocciolo. Ho sotterrato l'urna, avvolta in un cencio
rosso, e sopra ci ho messo una grossa pietra per essere sicuro di non
dimenticare il punto esatto. È strano, ma dall'oggi al domani il cane si è
messo a pisciare lì, sistematicamente.
Ho parcheggiato davanti
all'hotel. Lei non si muoveva, come se non avesse capito che eravamo
arrivati. Che poteva uscire e ritornare in camera. Le ho aperto lo sportello.
Mi ha guardato con aria assente e si è alzata. Ho preso il suo cappotto e la
scatola. Quando ci ha visti, il portiere ha fatto uno strano sorriso
d'intesa.
"L'accompagno in camera", ho detto.
Ha scrollato la testa ed è tornato al bancone, si è girato a guardare il
televisore pensile.
La scala era stretta e puzzava. La carta da parati era strappata, grandi
brandelli penzolavano fino a terra. La camera dava sulla strada. Sul comodino
c'era una bottiglia di vodka mezza vuota. Ho preso due bicchieri dal bagno.
La mensola era coperta di creme e medicinali. Ho guardato le scatole.
sonniferi, ansiolitici. antidepressivi.
Abbiamo bevuto senza guardarci, lei seduta sul lettuccio stretto. io sulla
poltrona accanto alla finestra. I nostri piedi quasi si toccavano.
"Mi scusi".
È sparita in bagno. Ho sentito che spostava tubetti e flaconi. In televisione
c'era una partita di tennis ma non conoscevo nessuno dei due giocatori. Erano
secoli che non guardavo quelle stronzate. Ho seguito gli scambi per qualche
secondo e poi tutto ha iniziato a sfocarsi e ho sentito che mi stavo
allontanando. Sono rimasto sospeso nel vuoto.
Quando è tornata indossava una lunga camicia di cotone che aderiva al suo
corpo bianco. Gli occhi erano struccati, le guance lavate. È scivolata sotto
le lenzuola e ho spento il televisore. Non ho chiuso le tende. Sono rimasto
seduto sulla poltrona accanto alla finestra. Aveva smesso di nevicare. Si
vedeva addirittura la luna. Ogni tanto passava una macchina. Tre puttane
litigavano sotto un lampione.
Sono arrivato a casa,
con Bill Evans e il giorno che spuntava. Il vicino cercava di mettere le
catene alle ruote. Avrei potuto dirgli che non era necessario, che la strada
era pulita, ma davvero non me ne fregava niente, facesse quel che gli pareva.
I bambini erano svegli, in pigiama davanti ai cartoni animati. Era mercoledì.
Mi sono detto che sarebbe stato bello portarli da qualche parte, per una
volta.
(Racconto tratto da Passare l'inverno, Minimum Fax, Roma,
2006.Traduzione da Elisa Artuffo, Lilia Barmina, Teresa Benincasa, Ester
Borgese, Alessandra Bussolino, Monica Cirtoli, Dario Gianozzi, Sara Merlino e
Alessandra Molino.)
Olivier
Adam è nato
nella banlieue parigina nel 1974. Oltre a Passare l'inverno,
che ha vinto la Bourse Goncourt de la Nouvelle nel 2004, ha al suo attivo
altri sette romanzi.
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