MIO NONNO E L'AMAZZONIA


Milton Hatoum


All'inizio del XX secolo, all'apogeo del "ciclo del caucciù", mio nonno paterno lasciò Beirut per recarsi ad Acre, dove lavorò come ambulante: riforniva i villaggi lungo il fiume, tra le città di Rio Branco e Xapuri. Fu tra i primi immigrati libanesi della mia famiglia. Otto anni dopo tornò a Beirut pieno di immagini e racconti sull'Amazzonia, che trasmise ai suoi figli e ai suoi parenti.
(...) Uno degli episodi che mio nonno amava raccontare - così mi riferì mio padre - pare proprio estrapolato da un'avventura romanzesca. Prima di sbarcare a Porto Acre mio nonno fu colto alla sprovvista da alcuni colpi di arma da fuoco. Si tuffò dal battello, nuotò fino a riva e strisciando guadagnò infine la foresta. Una volta giunto là, accovacciato tra la vegetazione che lo proteggeva, si vide porgere una carabina Winchester al grido di "Viva la rivoluzione acrea!" Così, prendendo di mira la riva opposta del fiume, mio nonno si mise a sparare. Senza saperlo avrebbe preso parte all'ultima battaglia contro i boliviani che, ben presto sconfitti, dovettero cedere un vasto territorio, poco tempo dopo definitivamente annesso alla Federazione brasiliana.
"Se mi fissi diretto a nuoto verso l'altra riva" aveva precisato mio nonno a suo figlio, "forse vi sarei rimasto, o mi avrebbero gettato in prigione, e la mia avventura brasiliana si sarebbe conclusa lì". Mio padre crebbe cullato da queste storie e decise a sua volta di emigrare ad Acre. Partì con un cugino, prima della seconda guerra mondiale. Passando da Manaus sposò mia madre, figlia dell'Amazzonia. Si erano incontrati alla pensione-ristorante del mio bisnonno materno, che non ho conosciuto. Quando mi parlava di lui mia madre diceva sempre che era un ottimo cuoco e un gourmet luculliano, che sapeva combinare piatti arabi e ricette amazzoniche. Il nucleo che fondò la mia famiglia se insediò a Manaus, ma ho consanguinei ai quattro angoli del Brasile. Questa vita errante, che si ferma in una moltitudine di posti diversi dove non si appartiene più ad alcun paese, è il destino degli immigrati. Fu forse questa la sorte che conobbero i primi arabi installatisi in Brasile (e più in generale in tutta l'America latina) intorno al 1880, quando ebbe inizio la "Grande Emigrazione" - Máhjar - dalla quale ha avuto origine la Jáaliya (la comunità degli emigrati stabili e permanenti), i cui discendenti rappresentano oggi otto milioni circa di brasiliani.
In America latina gli immigrati arabi avevano (e ancora hanno oggi) l'appellativo di "turchi", a causa del loro passaporto, un tempo emesso dall'Impero ottomano. Ricordo che mia nonna, cristiana praticante, ci diceva: "Turca io? ma se la mia famiglia è scappata dai turchi". I più anziani raccontavano storie di esodo, di trasmigrazioni, di grandi viaggi, di attività commerciali sui fiumi amazzonici. Erano resoconti traboccanti di avventure e di pericoli, nei quali il desiderio di fermarsi e di avere successo nella nuova patria si imponeva quasi come una necessità. Mio padre e i miei nonni materni parlavano la lingua araba, ma mia madre, poiché era brasiliana, non pronunciò mai neppure una parola nella lingua dei suoi genitori.
L'arabo fu dunque per me una sorta di melodia, fatta di suoni familiari, eppure remota. Poco alla volta divenne un insieme di suoni che riaffioravano nella memoria a mano a mano che gli anziani venivano a mancare. Il francese era più accessibile, perché meno difficile e anche perché mia nonna Emily lo alternava all'arabo, avendo studiato in un liceo francofono di Beirut. La melodia e il ritmo della lingua araba e della lingua francese mi sono familiari, ma la mia madrelingua è il portoghese, il portoghese brasiliano che ha l'inflessione, la sintassi e i vocaboli dell'Amazzonia.
Parlando della particolarità della letteratura latino-americana, il poeta messicano Octavio Paz ha fatto notare la sua ibrida condizione di lingua trapiantata che segna, se non proprio una rottura, quando meno una differenza importante in rapporto alla lingua dei colonizzatori: "la situazione particolare delle nostre letterature, paragonate a quelle di Inghilterra, Spagna, Portogallo o Francia, si spiega con questo dato fondamentale: si tratta di lingue trapiantate. Noi siamo europei e al contempo non lo siamo. Che cosa siamo, allora? È difficile dare una definizione precisa di ciò che siamo, ma le nostre opere parlano per noi!" In effetti, è difficile definire chi siamo, eppure un brasiliano che discende da immigrati, quali che siano le sue origini, non avverte l'estraneità e lo spaesamento che può sentire un figlio di un immigrato turco in Germania o di un pakistano in Inghilterra.
Un giorno, mentre davo una conferenza sul mio primo romanzo alla biblioteca del Congresso di Washington, ho visto una locandina sulla quale era scritto: "Lo scrittore libanese-brasiliano". Ho fatto notare al presidente che quella formula in Brasile non aveva senso alcuno. "Perché?" mi ha chiesto. "Perché noi non ci consideriamo afro-brasiliani, italo-brasiliani, nipo-brasiliani o arabo-brasiliani. Noi non facciamo compartimentazioni, non classifichiamo, non denominiamo le persone in funzione dell'origine o dell'etnia di questo o quell'altro gruppo sociale per distinguerle dagli altri".
Il dissolvimento delle origini è alla base stessa della formazione della società brasiliana, e ciò significa vero mélange, caratterizzato dal rifiuto di identità rigide e invariabili, dall'assimilazione di culture diverse non gerarchizzate. da ciò l'importanza della coesistenza di etnie diverse e di origini differenti, anche se pare un'utopia. Ad ogni buon conto, l'ibridazione e il meticciato non sono appannaggio esclusivo né del Brasile né dell'America latina, ma fanno altresì parte del passato europeo.

 

 


(Tratto dal supplemento Cultura di Repubblica, del 5 Maggio 2006. Traduzione di Anna Bissanti.)

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