Prima degli anni
Cinquanta del '900, quando un essere umano subiva un arresto cardiaco o un
grave danno cerebrale moriva nel suo tempo fisiologico. da quella data le
cose sono cambiate per via dell'entrata in gioco di innovative tecniche
rianimatorie meccaniche, farmacologiche ed elettrofisiologiche. Inoltre alla
fine degli anni Sessanta fu eseguito il primo trapianto di cuore e nuovi
problemi entrarono in scena. In breve, sia l'introduzione di nuove tecniche
rianimatorie, sia la possibilità della nuova medicina dei trapianti hanno
reso la questione dell'identificazione della morte clinica assai più intricata.
Si ricordi solo che ora la morte cardiaca non conduce necessariamente alla
morte cerebrale, a causa dell'anossia, e quindi alla morte dell'organismo
come un tutto. C'è la possibilità di avere il sangue ossigenato
meccanicamente con una macchina cuore-polmoni. Oppure le funzioni
cardio-circolatorie possono essere recuperate grazie a un trapianto cardiaco.
Pensiamo al coma, ossia a quell'alterazione del funzionamento normale del
cervello dovuta a un danno patologico o accidentale alle cellule nervose. È
diagnosticato primariamente in base all'osservazione della mancanza di
coscienza e della drastica riduzione delle risposte a stimoli esterni.
Tuttavia il coma è uno stato dinamico che può essere positivamente superato
se il danno nervoso danneggiato si ripara. (...)
Prima dell'introduzione delle nuove tecniche rianimatorie, un essere umano in
coma poteva vivere o morire, a seconda della gravità del danno e a seconda
della sua costituzione. Dopo l'introduzione si è potuto prolungare la sua
vita, o almeno la vita di certe sue popolazioni cellulari. (...) Sappiamo che
lo stato vegetativo può protrarsi quasi indefinitamente. In questi casi la
corteccia cerebrale potrebbe non funzionare più, ma il sistema cuore-polmoni
continuerebbe a funzionare. L'essere umano non avrebbe più coscienza e
autocoscienza, ma avrebbe sicuramente ancora popolazioni cellulari vive.
Tuttavia, dovrebbe essere considerato "vivo" o "morto"?
Sia per motivi sociali, sia per motivi medico-pratici legati alla possibilità
dell'espianto di organi, sia per motivi legali, è necessaria una scelta tra
le varie definizioni di morte clinica; non possiamo aspettare la morte
dell'ultima cellula epiteliale o dell'ultimo eritrocita. Per la legge
italiana(del 29 dicembre 1993, n° 578) "la morte si identifica con la
cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Questa è
una scelta, tuttavia essa, come tutte le scelte, non è fondata unicamente
sulla descrizione fisiologica di uno stato biologico, ma è basata su valori.
Dobbiamo far riferimento a valori, che lo si voglia o meno, che piaccia o
meno. Questo è il punto cruciale: la descrizione di uno stato fisiologico è
libera di valore, ma la scelta e i criteri per la morte clinica sono carichi
di valore. E qui dobbiamo ricorrere di nuovo alla nozione di esistenza,
poiché è la fine dell'esistenza a essere in discussione, e allora è una
discussione necessariamente anche extrabiologica, in quanto coinvolge valori
sociali, giuridici, religiosi, metafisici, etici ecc.
Si noti che quest'aspetto è particolarmente rilevante in quei casi in cui vi
è un essere umano in una situazione tale, a causa di una malattia o di un
incidente, da dover scegliere fra la sacralità dell'esistenza, e quindi il
mantenimento in vita a oltranza di alcune sue popolazioni cellulari anche se
gli costa grande sofferenza, e la qualità dell'esistenza, che può portare
alla scelta estrema dell'atto eutanasico. In gioco ci sono valori.
Di chi è la vita? La vita è un fenomeno biologico e come tale non ha padroni,
a meno che qualcuno non si voglia dichiarare padrone dei fenomeni biologici o
ritenga che i fenomeni biologici abbiano un padrone. ma pure se lo volesse
affermare, si passerebbe da un piano di descrizione a un piano diverso:
comporterebbe chiedersi di chi sia l'esistenza. E qui le risposte sono molte.
C'è chi si rivolge a una religione, c'è chi si rivolge a un'ideologia, c'è
chi si rivolge a ciò che la tradizione in cui vive ha insegnato. Ognuno abbia
la sua scelta, ma sappia che la sua scelta dovrebbe essere solo sua, sia questa
una scelta sperabilmente critica e consapevole, sia questa - ahilui e ahinoi
- una scelta cieca e dogmatica.
Con un motto, potremmo affermare che la vita non è di nessuno, mentre
l'esistenza è del punto di vista da cui le si attribuisce valore. Se questo è
valido, e non trovo contro-argomentazioni razionali (sottolineo
"razionali") forti che lo neghino, allora anche l'inizio della vita
e la fine della vita sono senza valore, mentre non sono senza valore né
l'inizio dell'esistenza né la fine dell'esistenza. Possiamo noi accendere una
vita? Certo. Possiamo spegnere una vita? Certo. Ma eticamente il problema
centrale è diverso: "Possiamo noi accendere o spegnere
un'esistenza?". Certo che lo possiamo fare, e quando decidiamo in tal
senso ricorriamo sempre a valori. Ci sono vite cui non diamo il valore di
esistenze e che non ci peritiamo di porci il problema di accendere o
spegnere. Ma ci sono vite, specialmente quella del Homo sapiens, cui diamo
valore e sulla cui accensione (attraverso un atto sessuale o attraverso la
fecondazione artificiale) o sul cui spegnimento (attraverso l'omicidio,
l'aborto o un atto eutanasico) riflettiamo a lungo e discutiamo molto, anche
se spesso in maniera concettualmente piuttosto confusa, mescolando livelli di
analisi diversi con dogmi religiosi, istanze ideologiche, principi etici
appresi in famiglia, scelte etiche maturate liberamente, ecc. e anche
talvolta non vogliamo accollarci la responsabilità né del nostro dare valore,
né della sua giustificazione razionale, né delle conseguenze che tale atto
comporta.
Per concludere, vorrei ribadire, ma dovrebbe essere ormai chiaro, che ogni
nostra donazione di valore dovrebbe sempre essere giustificata. Donare valore
non comporta solo limitarsi a separare ciò che sembra buono da ciò che sembra
cattivo, ciò che sembra bello da ciò che sembra brutto, ciò che sembra giusto
da ciò che sembra ingiusto. Donare valore, almeno nel suo significato più
nobile e alto, significa assumersi l'onere teorico della giustificazione
razionale di tale donazione, oltre all'onere pratico delle sue conseguenze.
Inoltre, soprattutto per un laico, donare valore dovrebbe comportare la
possibilità che anche chi attribuisce valori opposti - sebbene parimenti
argomentati - abbia il suo spazio di azione, naturalmente nel rispetto della
convivenza collettiva e della libertà pubblica. Un laico non può demandare a
uno Stato, che ha perso o mai avuto la sua propria laicità, il compito di
decidere, seppur a maggioranza, quale sia la giusta o la buona esistenza,
ossia quale sia il tipo di vita, o parte della vita cui si deve attribuire
valore. Ne segue che un laico non si batterà affinché si instauri, magari
democraticamente, un particolare tipo di esistenza, ma affinché tutte le
possibili esistenze abbiano l'equa possibilità di realizzarsi e nessuna abbia
a prevalere sulle altre, anche se per tradizione così è stato. Ma il ricorso
alla tradizione non è certo un buon argomento contro la libertà di esistenza,
che comporta ovviamente anche la libertà di scegliersi la morte, intesa quale
fine della propria esistenza e quindi della propria vita.
Giovanni
Boniolo
(Questo brano è tratto dal libro Laicità. Una
geografia delle nostre radici, che raccoglie, a cura di Giovanni Boniolo,
i contributi di sedici studiosi italiani [fra gli altri, Ceccanti, Mancina,
Rosconi, Barberis, Pontecorvo, Corbellini, Luzzatto, Greco e Giorello].
Queste sono alcune pagine del saggio di Boniolo.)
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