"È più temibile la lingua della spada."
Proverbio giapponese
Ero già stata in qualche scuola e l'esperienza mi era piaciuta. Gli
insegnanti erano disponibili e gentili, i ragazzi entusiasti all'idea di
scrivere poesie con una poetessa "vera ". Ma quella scuola, un
istituto unificato maschile, era diversa. Il Coordinatore di Letteratura era
arcigno e sospettoso. Non mi presentò agli altri insegnanti. Non mi disse
nulla sui ragazzi con cui dovevo lavorare: si limitò a consegnarmi i registri
di classe con l'ordine severo di compilarli. Evidentemente non mi voleva lì.
Forse pensava che i poeti fossero anarchici.
"Non accettiamo elaborati che parlino di sesso o di violenza"
disse.
L'aula alla quale mi accompagnò era in fondo alla scuola, con le finestre
rivolte a nord. Quasi per compensare la mancanza di sole le pareti erano
giallo bile. C'era un odore di cavolo lesso e gabinetti. Non appena
l'insegnante andò via, salii su una sedia per aprire una finestra. Poi una
campanella suonò e il primo gruppo di ragazzi irruppe nell'aula. Si levarono
fischi d'ammirazione.
" Bel panorama, le sue mutandine, prof! " gridò un ragazzo.
Non c'erano dubbi: i ragazzi erano interessati al sesso. "Ce l'ha il
fidanzato? Ci sa fare a letto?" era una battuta ricorrente. Mi venne in
mente di fargli scrivere una sestina utilizzandola come ritornello, ma
desistetti.
Avevo cinque gruppi in tutto, di età compresa fra gli undici e i quindici
anni: tutti ugualmente indisciplinati e passivi. Come scoprii, avevano scelto
il corso di poesia per sottrarsi a quello di musica. Reagivano con grugniti e
sbadigli perfino a Hughes e a Heaney. Quando chiedevo loro di scrivere una
poesia, reagivano mettendo il muso e ribellandosi.
Facevo lezione il mercoledì. Arrivai al punto di temere quel giorno. E il
fatto che passassi i martedì notte a rigirarmi nel letto o a farmi tormentare
dagli incubi non giovava di certo. Il mio contratto prevedeva che mettessi
insieme un'antologia e organizzassi un reading al quale invitare i genitori e
i membri del consiglio d'amministrazione. Alla quinta e ultima settimana ero
disperata. Mi restava un solo giorno per interessarli alla poesia.
Avevo preparato una lezione sui ritratti poetici, utilizzando come spunto Aunt
Julia di Norman MacCaig. Ma mentre aspettavo di veder entrare il primo
gruppo, sfogliai The Rattle Bag, l'antologia di Heaney-Hughes. Mi cadde
l'occhio sulla poesia di Robert Frost Out, out, che parla di un
ragazzo che si mozza la mano accidentalmente con una sega circolare.
D'impulso la lessi alla classe:
La sega circolare
ringhiava e strepitava nel cortile...
L'aula si fece
silenziosa. Riuscivo a sentire il respiro dei ragazzi, la mia voce ridotta
quasi a un sussurro a mano a mano che mi avvicinavo alla fine.
Nessuno ci credeva.
Ascoltarono il suo cuore. Poco - meno - nulla! E quella fu la fine.
Un ragazzo ricordò un
fratello che era annegato; un altro la storia di un nonno che aveva perso una
gamba in guerra. Erano interessati; impegnati; perfino disposti a parlare del
modo in cui Frost aveva usato la lingua; la tensione; i sensi. Poi li misi al
lavoro: dovevano scrivere di un incidente; o di qualche avvenimento
terribile. Dovevano usare i sensi, come Frost e, possibilmente, scrivere
basandosi su un'esperienza personale.
Prima, avevo dovuto cavargli fuori delle poesie quasi spremessi il succo da
limoni secchi, ed erano perlopiù banali e noiose. Adesso scrivevano
liberamente, con energia e immaginazione: poesie su incidenti d'auto e in
mare, su ustioni e cadute dagli alberi, su cuccioli di foca presi a
bastonate, su un gatto torturato.
Quella poesia ebbe lo stesso effetto su tutti i gruppi. Poi, durante l'ultima
lezione, proprio quando i ragazzi stavano per leggere le loro poesie a voce
alta, entrò in classe il Coordinatore di Letteratura.
"Continuate" disse e andò a sedersi in fondo all'aula.
Dire che tutte le poesie erano stupende sarebbe una bugia. Ma ognuna aveva
sprazzi di energia. E alcune erano piene di forza, commoventi e sconvolgenti,
come i versi di Frost. Ce n'era una su un ragazzo che aveva perso un occhio
in una rissa dopo una partita di calcio; un'altra su un gruppo di scolari rimasti
sepolti sotto una valanga; un'altra ancora su una famiglia arsa viva durante
un incendio.
Ogni poesia fu seguita da un applauso. Il Coordinatore di Letteratura, però,
non batteva le mani.
"Belle, vero?" gli chiesi quando i ragazzi furono usciti dall'aula.
Lui non disse nulla: né sì né no.
L'antologia non fu mai realizzata. Il reading serale per i genitori e i
membri del consiglio di amministrazione, cancellato.
Dopo quell'esperienza, smisi di fare corsi nelle scuole. Ottenni un posto
come insegnante a tempo pieno in un college. Stranamente, cominciai a parlare
di sesso e di violenza nelle mie opere. Non c'è niente come vietare una cosa
per trasformarla nel principale interesse della tua mente. Però non credo che
avesse qualcosa a che fare con l'embargo di quell'insegnante. E più probabile
che avessi imparato la lezione dai ragazzi: sempre scrivere di cose che ti
prendono veramente.
(Tratto da Le umiliazioni non finiscono mai, a
cura di Robin Robertson, Guanda editrice, Parma, 2005)
Vicki Feaver è nata a Nottingham nel 1943. Ha pubblicato due raccolte
di poesie, Close Relatives e The Handless Maiden, con cui ha
vinto l'Heinemann Prize ed è stata candidata al Forward Prize. Vive ai
confini delle Pentland Hills, nei pressi di Edimburgo.
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