Il colonnello guardò il
ragazzo e si sentì di fronte a se stesso. Nello sguardo diritto che comprendeva
il lontano e il vicino, c'era lo sguardo di sua madre, donna Lakota. Il suo
popolo aveva i suoi territori originari non lontano dai Navaho, che
popolavano la riserva posta sotto la sua sorveglianza. Era una posizione
difficile la sua, come quella di tutti i mezzosangue. Luogotenente e poi
colonnello nell'esercito degli Stati Uniti d'America, era stato mediatore
nelle lunghe trattative che avevano portato alla creazione delle riserve nel
deserto del Sud. Poi, aveva avuto l'incarico di dirigere questa riserva.
Quel ragazzo lo stimava, era l'unico lì a non guardarlo con timore e
sfiducia. Era abbastanza piccolo per non avere paura della sua uniforme e
abbastanza grande da capire che si trovava in difficoltà. E poi era curioso,
per questo gli girava sempre intorno. Aveva voglia di scoprire quello che
c'era oltre i confini della riserva in cui era sempre cresciuto, anche se era
nato libero (sua madre lo aveva portato in braccio, molto piccolo, sul lungo
sentiero delle lacrime che li aveva condotti in quel mondo ristretto).
Fu per quello che il colonnello gli regalò la conchiglia.
L'aveva raccolta un suo bisnonno inglese sulle spiagge dell'Africa. Un giorno
di quasi cento anni prima, l'europeo era rimasto incuriosito da un gruppo di
adolescenti, radunati sulla spiaggia. Portavano, anche senza la toga, una
serie di ornamenti che li identificavano. Erano le insegne di quella che
ancora era la classe aristocratica indigena del Benin. Perlustravano la
spiaggia, con un certo ordine, percorsi circolari intrecciati, e richiami
continui, in contrappunto reciproco. Senza capire il senso, capì infine il
fatto materiale: stavano raccogliendo conchiglie. Erano conchiglie
particolari, sorprendentemente tonde, lisce e dure, un altro avorio che
l'Africa era riuscita a nascondere agli estranei. Lui chinò istintivamente la
testa, imitando i ragazzi, e ne vide una, più grande delle altre. La prese e
se la infilò in tasca con il senso di aver rubato, e un brivido personale.
Quello rimase durante gli anni uno dei suoi pochi gesti di libertà, qualcosa
fatto così, per farlo, e non per una qualsivoglia sorta di obbligo. La
conservò per questo, e nessuno lo sospettò mai. La perfezione della forma
bastò a incantare tutti e a giustificarlo. Quel suo piccolo momento di
libertà rimase il suo segreto, e morì con lui.
La conchiglia però gli sopravvisse, fino ad arrivare nelle mani del
colonnello.
Un giorno questi lasciò il suo incarico nella riserva ad un nuovo ufficiale,
uno di quei veri uomini in blu dai capelli di paglia. Allora il ragazzo,
ormai un giovanotto, regalò la conchiglia a colei che un sogno gli aveva
predetta come moglie. Lei la fissò tra i capelli il giorno in cui si
sposarono, in un modo così bello, da metter d'accordo tutti gli spiriti, e
prima ancora degli spiriti, tutte le donne, che, si sa, sono ancora più
esigenti. Quel piccolo pezzo d'altrove così armonicamente intrecciato alle
cose di qui; sua moglie era una che sapeva intrecciare le cose, e la loro
vita sarebbe stata un fiume ampio e morbido.
Così avrebbe dovuto essere. Ma la Storia si era intromessa ormai nelle
decisioni degli spiriti e aveva decretato che il corso del loro fiume sarebbe
stato sbarrato da un diga: sarebbero stati abbandonati da tutti i loro figli.
Avevano ereditato dal padre l'attrazione per l'altrove; i genitori ne
soffrirono, ma capirono che i figli appartenevano ormai a un altro scorrere
del tempo, della vita, del mondo. La madre diede la conchiglia a sua figlia
minore quando anche questa prese la via della città, a cercare altri spazi
liberi, tra i bianchi che ormai possiedevano l'orizzonte.
Durante gli anni '60 del secolo scorso, ce l'aveva ancora sua nipote; la
perse durante una manifestazione, per le libertà civili, per migliorare le
condizioni di vita nelle Riserve, contro la guerra. Non appena se ne accorse
la considerò subito una disgrazia e un cattivo presagio, e infatti fu
arrestata e malmenata. Non la ritrovò più, e la sua famiglia dovette cercare
la protezione di altri talismani, e altri modi per sognare mondi sconosciuti.
Stranamente, non era
finita per terra. Nella confusione generale, si era andata a rifugiare tra le
pieghe del foulard multicolore di un manifestante gay, che fu picchiato e
inseguito anche lui, ma riuscì a svignarsela prima che la polizia lo
caricasse su un furgoncino. Quando scoprì la conchiglia, a casa, togliendosi
il foulard, non seppe che cosa pensare. Che fosse l'omaggio di un ammiratore
sconosciuto, che avesse un significato politico, sociale, rivoluzionario, gli
sembrava comunque evidente che, in un modo o in un altro, era significativa.
Perciò, bella come'era, la mise insieme ad altri oggetti e soprammobili in
soggiorno, a partecipare ai colloqui di casa sua.
Riposò lì per dieci anni. Poi, lui la regalò a una scrittrice-fotografa che
lo venne ad intervistare proprio su quei momenti di contesta e sulla sua sua
vita di "diverso", sui cambiamenti che c'erano stati dagli ultimi
anni '50 ad allora. Era stato un vero incontro, di complicità, un dialogo
speciale, perché entrambi erano persone-pellicola che restano impresse dagli
eventi, che poi resistono e conservano, ed era venuto fuori infatti un
bellissimo racconto-intervista-reportaje. Per racchiudere in qualche modo
quel vissuto, dal momento che non si sarebbero forse più visti, le regalò la
conchiglia.
A lei piacque e
cominciò a portarsela sempre in tasca. Quando andò a Parigi, dove ovviamente
si innamorò, tra le altre cose, anche di un certo regista (di documentari)
norvegese, l'aveva con se. Insieme al suo innamorato viaggiò per qualche
anno. Andarono in "Oriente", richiamati dai suoi colori, dai suoi
millenni così fotogenici, a caccia di servizi e documentari per riviste e
televisioni occidentali.
Invisibile, nella tasca della ragazza-pellicola, la conchiglia continuò il
suo pellegrinaggio, lo possiamo ben chiamare così, perché la conchiglia un
giorno era viva e conservava in se la memoria muta, muta forse anche a se
stessa, ma cionondimeno presente, delle immensità dell'oceano e delle sue
correnti.
Una volta, in India, i due documentaristi andarono a visitare una ricca
famiglia di bramini - oggi, uomini d'affari e di accademia, donne di seta e
di poesia filosofica - che si era offerta tramite comuni conoscenze di dare
il suo appoggio per realizzare documentari e servizi sul subcontinente.
Discutendo di bellezza e perfezione comparate, della natura e degli artefatti
umani, la fotografa-scrittrice mostrò la conchiglia alla padrona di casa e
alle sue figlie. Quando la vide, l'ospite cacciò un gridolino acuto,
leggermente prolungato, sospeso, annunciando qualcosa da attendersi. E
infatti si alzò, sparì dietro a una parete e poi ritornò con una statuetta in
mano, di una ventina di centimetri di altezza. Rappresentava una ragazza
cinese, di un centinaio, forse, di anni prima, portando sulle spalle il
tradizionale bastone con i due secchi d'acqua appesi alle estremità. Una
grazia e una vivezza sorprendente sembrava muovere i fianchi e i carichi, a
seguire pensieri di una amiccante nostalgia. Soltanto poi lo sguardo si
fermava, per fissarsi, sul cappellino della ragazza-statuetta: rotondo,
leggermente concavo, era realizzato con una conchiglia, in tutto e per tutto
simile a quella dell'americana.
La statuetta veniva di certo dalla Cina. L'avevano acquistata molto tempo
prima, nel mercato raccolto intorno a un tempio buddista nel nordovest
dell'India, alle falde dell'Himalaya. Il venditore aveva raccontato una
storia romantica sulla sua origine: era, aveva detto, il ritratto d'addio
alla sua amata fatto da un giovane, poi diventato monaco. La sua proprietaria
aveva desiderato allora farle un compagno, e avrebbe potuto trovare o farsi
fare un giovanotto di argilla perfetto, ma senza cappello, perché una
conchiglia come quella non l'aveva trovata da nessuna parte. Si era
informata, Atlante alla mano, conchiglie così popolano le coste dell'Africa
occidentale, ed erano state una volta usate come monete dai regni del luogo.
Un paio di anni prima erano stati in viaggio in Madagascar, e aveva provato a
trovarne una, ma non c'era stato verso. Poi altre occupazioni l'avevano assorbita:
figli, vacanze, circoli e associazioni, lunghe visite da ricevere e
contraccambiare, ma ogni tanto all'improvviso la ritrovava con il pensiero e
con l'occhio, e le dispiaceva, come di una promessa non mantenuta. Avrebbe
potuto sempre fare un giovanotto con il cappello d'argilla, o toglierlo a
lei, ma così bello e completo era il volto dai lunghi capelli corvini con
quella cornice delicatamente lucente, che sarebbe stato un tradimento. Adesso
però il destino era venuto incontro a quell'unione incompiuta. Implorò
l'ospite di regalargliela o vendergliela e l'ottenne (i due documentaristi in
cambio ottennero i finanziamenti e i permessi desiderati con minor impiego di
tempo e formalità). E così, due conchiglie si ritrovarono dopo secoli di
pellegrinaggi, come fratelli in una commedia antica. Rotte innumerevoli di
mercanti, vagabondi e conquistatori, ebrei, arabi, europei avevano
intrecciato imprevedibili sentieri d'acqua e di terra, in cui reincontrarsi è
sempre una questione di tempo. Le due statuette diventarono finalmente due,
per partecipare, simmetricamente, su un tavolino laterale, alla bellezza del
salotto delle donne. Vegliarono lì per qualche stagione, fino a quando la
proprietaria spedì sua figlia, al secondo anno di università, in una
vacanza-studio in Australia e in Giappone, a sprovincializzare il suo
inglese, fare esperienza del mondo, ma soprattutto a stemperare gli slanci di
gioventù… perché la ragazza si era invaghita di un giovanotto e di idee
politiche che avrebbero potuto nuocerle o allontanarla irrimediabilmente
dalla potente sicurezza della famiglia. Le diede da portare con se la coppia
d'argilla, per tenerle compagnia e perché la stimolassero a far pace con il
suo destino.
Ha scelto di tornare a
casa per nave. E' più bello, le dà la possibilità di sognare ancora prima di
tornare a casa, nella solidità, di immergersi per un po' in quel luogo di
mezzo dove la Grande Anima non ha avatar umani, quel luogo che non è di
nessuno ed è di tutti, che si muove costantemente ma è così grande da essere
allo stesso tempo immobile, che contiene la vita, i suoi principi molto prima
degli umani, e allo stesso tempo le rotte che hanno irretito i continenti
degli uomini. Che culla e può distruggere, come le madri.
Pensando queste ed altre cose, il giorno prima di attraccare le viene un
tremore, un impeto di passione senza sbocco così forte che deve esorcizzarlo.
Allora prende le due statuette e le butta in acqua, come un dono d'addio, di
comunione e nostalgia per qualcosa che forse non conoscerà mai.
Le onde si increspano, in un cerchio di spruzzi per accogliere il dono.
L'Oceano, finalmente Pacifico, scioglie poi rapidamente le sue creature dal
vincolo della creta, e le riassorbe, figliuole prodighe, ritornate nel suo
grembo di ere ricorsive, tramando trame tra terre lontane.
Livia Claudia Bazu nasce a Bucarest nel 1978, da
madre traduttrice e padre pianista. Nel 1990, a 12 anni, si trasferisce con
la famiglia in Italia, a Montecatini Terme. Durente l'adolescenza pubblica
sporadicamente sulla rivista per ragazzi UTOPIA. Nel 1997 si trasferisce
ancora, questa volta da sola, a Roma, per seguire l'Università. La necessità
di mantenersi agli studi e la passione per Roma le fa esplorare la città in
nelle sue molteplici dimensioni, native e migranti. Nel 2003 si laurea in
Letteratura comparata. Nello stesso anno si classifica quinta al concorso
letterario Eks&Tra, con la poesia "Autobiografia". Attualmente
sta conseguendo il dottorato di Ricerca presso l'Università per Stranieri di
Siena, con una tesi dal titolo: "SIGNIFICARE ALTROVE. Contaminazione e
creatività linguistica nelle realtà interculturali italiane." E' inoltre
presidente dell'Asociazione interculturale "Roma Porto Franco", che
opera organizzando eventi interculturali. Ha in preparazione il suo primo
volume di poesie.
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