Trame

Livia Bazu


Il colonnello guardò il ragazzo e si sentì di fronte a se stesso. Nello sguardo diritto che comprendeva il lontano e il vicino, c'era lo sguardo di sua madre, donna Lakota. Il suo popolo aveva i suoi territori originari non lontano dai Navaho, che popolavano la riserva posta sotto la sua sorveglianza. Era una posizione difficile la sua, come quella di tutti i mezzosangue. Luogotenente e poi colonnello nell'esercito degli Stati Uniti d'America, era stato mediatore nelle lunghe trattative che avevano portato alla creazione delle riserve nel deserto del Sud. Poi, aveva avuto l'incarico di dirigere questa riserva.
Quel ragazzo lo stimava, era l'unico lì a non guardarlo con timore e sfiducia. Era abbastanza piccolo per non avere paura della sua uniforme e abbastanza grande da capire che si trovava in difficoltà. E poi era curioso, per questo gli girava sempre intorno. Aveva voglia di scoprire quello che c'era oltre i confini della riserva in cui era sempre cresciuto, anche se era nato libero (sua madre lo aveva portato in braccio, molto piccolo, sul lungo sentiero delle lacrime che li aveva condotti in quel mondo ristretto).
Fu per quello che il colonnello gli regalò la conchiglia.
L'aveva raccolta un suo bisnonno inglese sulle spiagge dell'Africa. Un giorno di quasi cento anni prima, l'europeo era rimasto incuriosito da un gruppo di adolescenti, radunati sulla spiaggia. Portavano, anche senza la toga, una serie di ornamenti che li identificavano. Erano le insegne di quella che ancora era la classe aristocratica indigena del Benin. Perlustravano la spiaggia, con un certo ordine, percorsi circolari intrecciati, e richiami continui, in contrappunto reciproco. Senza capire il senso, capì infine il fatto materiale: stavano raccogliendo conchiglie. Erano conchiglie particolari, sorprendentemente tonde, lisce e dure, un altro avorio che l'Africa era riuscita a nascondere agli estranei. Lui chinò istintivamente la testa, imitando i ragazzi, e ne vide una, più grande delle altre. La prese e se la infilò in tasca con il senso di aver rubato, e un brivido personale. Quello rimase durante gli anni uno dei suoi pochi gesti di libertà, qualcosa fatto così, per farlo, e non per una qualsivoglia sorta di obbligo. La conservò per questo, e nessuno lo sospettò mai. La perfezione della forma bastò a incantare tutti e a giustificarlo. Quel suo piccolo momento di libertà rimase il suo segreto, e morì con lui.
La conchiglia però gli sopravvisse, fino ad arrivare nelle mani del colonnello.
Un giorno questi lasciò il suo incarico nella riserva ad un nuovo ufficiale, uno di quei veri uomini in blu dai capelli di paglia. Allora il ragazzo, ormai un giovanotto, regalò la conchiglia a colei che un sogno gli aveva predetta come moglie. Lei la fissò tra i capelli il giorno in cui si sposarono, in un modo così bello, da metter d'accordo tutti gli spiriti, e prima ancora degli spiriti, tutte le donne, che, si sa, sono ancora più esigenti. Quel piccolo pezzo d'altrove così armonicamente intrecciato alle cose di qui; sua moglie era una che sapeva intrecciare le cose, e la loro vita sarebbe stata un fiume ampio e morbido.
Così avrebbe dovuto essere. Ma la Storia si era intromessa ormai nelle decisioni degli spiriti e aveva decretato che il corso del loro fiume sarebbe stato sbarrato da un diga: sarebbero stati abbandonati da tutti i loro figli. Avevano ereditato dal padre l'attrazione per l'altrove; i genitori ne soffrirono, ma capirono che i figli appartenevano ormai a un altro scorrere del tempo, della vita, del mondo. La madre diede la conchiglia a sua figlia minore quando anche questa prese la via della città, a cercare altri spazi liberi, tra i bianchi che ormai possiedevano l'orizzonte.
Durante gli anni '60 del secolo scorso, ce l'aveva ancora sua nipote; la perse durante una manifestazione, per le libertà civili, per migliorare le condizioni di vita nelle Riserve, contro la guerra. Non appena se ne accorse la considerò subito una disgrazia e un cattivo presagio, e infatti fu arrestata e malmenata. Non la ritrovò più, e la sua famiglia dovette cercare la protezione di altri talismani, e altri modi per sognare mondi sconosciuti.

Stranamente, non era finita per terra. Nella confusione generale, si era andata a rifugiare tra le pieghe del foulard multicolore di un manifestante gay, che fu picchiato e inseguito anche lui, ma riuscì a svignarsela prima che la polizia lo caricasse su un furgoncino. Quando scoprì la conchiglia, a casa, togliendosi il foulard, non seppe che cosa pensare. Che fosse l'omaggio di un ammiratore sconosciuto, che avesse un significato politico, sociale, rivoluzionario, gli sembrava comunque evidente che, in un modo o in un altro, era significativa. Perciò, bella come'era, la mise insieme ad altri oggetti e soprammobili in soggiorno, a partecipare ai colloqui di casa sua.
Riposò lì per dieci anni. Poi, lui la regalò a una scrittrice-fotografa che lo venne ad intervistare proprio su quei momenti di contesta e sulla sua sua vita di "diverso", sui cambiamenti che c'erano stati dagli ultimi anni '50 ad allora. Era stato un vero incontro, di complicità, un dialogo speciale, perché entrambi erano persone-pellicola che restano impresse dagli eventi, che poi resistono e conservano, ed era venuto fuori infatti un bellissimo racconto-intervista-reportaje. Per racchiudere in qualche modo quel vissuto, dal momento che non si sarebbero forse più visti, le regalò la conchiglia.

A lei piacque e cominciò a portarsela sempre in tasca. Quando andò a Parigi, dove ovviamente si innamorò, tra le altre cose, anche di un certo regista (di documentari) norvegese, l'aveva con se. Insieme al suo innamorato viaggiò per qualche anno. Andarono in "Oriente", richiamati dai suoi colori, dai suoi millenni così fotogenici, a caccia di servizi e documentari per riviste e televisioni occidentali.
Invisibile, nella tasca della ragazza-pellicola, la conchiglia continuò il suo pellegrinaggio, lo possiamo ben chiamare così, perché la conchiglia un giorno era viva e conservava in se la memoria muta, muta forse anche a se stessa, ma cionondimeno presente, delle immensità dell'oceano e delle sue correnti.
Una volta, in India, i due documentaristi andarono a visitare una ricca famiglia di bramini - oggi, uomini d'affari e di accademia, donne di seta e di poesia filosofica - che si era offerta tramite comuni conoscenze di dare il suo appoggio per realizzare documentari e servizi sul subcontinente. Discutendo di bellezza e perfezione comparate, della natura e degli artefatti umani, la fotografa-scrittrice mostrò la conchiglia alla padrona di casa e alle sue figlie. Quando la vide, l'ospite cacciò un gridolino acuto, leggermente prolungato, sospeso, annunciando qualcosa da attendersi. E infatti si alzò, sparì dietro a una parete e poi ritornò con una statuetta in mano, di una ventina di centimetri di altezza. Rappresentava una ragazza cinese, di un centinaio, forse, di anni prima, portando sulle spalle il tradizionale bastone con i due secchi d'acqua appesi alle estremità. Una grazia e una vivezza sorprendente sembrava muovere i fianchi e i carichi, a seguire pensieri di una amiccante nostalgia. Soltanto poi lo sguardo si fermava, per fissarsi, sul cappellino della ragazza-statuetta: rotondo, leggermente concavo, era realizzato con una conchiglia, in tutto e per tutto simile a quella dell'americana.
La statuetta veniva di certo dalla Cina. L'avevano acquistata molto tempo prima, nel mercato raccolto intorno a un tempio buddista nel nordovest dell'India, alle falde dell'Himalaya. Il venditore aveva raccontato una storia romantica sulla sua origine: era, aveva detto, il ritratto d'addio alla sua amata fatto da un giovane, poi diventato monaco. La sua proprietaria aveva desiderato allora farle un compagno, e avrebbe potuto trovare o farsi fare un giovanotto di argilla perfetto, ma senza cappello, perché una conchiglia come quella non l'aveva trovata da nessuna parte. Si era informata, Atlante alla mano, conchiglie così popolano le coste dell'Africa occidentale, ed erano state una volta usate come monete dai regni del luogo. Un paio di anni prima erano stati in viaggio in Madagascar, e aveva provato a trovarne una, ma non c'era stato verso. Poi altre occupazioni l'avevano assorbita: figli, vacanze, circoli e associazioni, lunghe visite da ricevere e contraccambiare, ma ogni tanto all'improvviso la ritrovava con il pensiero e con l'occhio, e le dispiaceva, come di una promessa non mantenuta. Avrebbe potuto sempre fare un giovanotto con il cappello d'argilla, o toglierlo a lei, ma così bello e completo era il volto dai lunghi capelli corvini con quella cornice delicatamente lucente, che sarebbe stato un tradimento. Adesso però il destino era venuto incontro a quell'unione incompiuta. Implorò l'ospite di regalargliela o vendergliela e l'ottenne (i due documentaristi in cambio ottennero i finanziamenti e i permessi desiderati con minor impiego di tempo e formalità). E così, due conchiglie si ritrovarono dopo secoli di pellegrinaggi, come fratelli in una commedia antica. Rotte innumerevoli di mercanti, vagabondi e conquistatori, ebrei, arabi, europei avevano intrecciato imprevedibili sentieri d'acqua e di terra, in cui reincontrarsi è sempre una questione di tempo. Le due statuette diventarono finalmente due, per partecipare, simmetricamente, su un tavolino laterale, alla bellezza del salotto delle donne. Vegliarono lì per qualche stagione, fino a quando la proprietaria spedì sua figlia, al secondo anno di università, in una vacanza-studio in Australia e in Giappone, a sprovincializzare il suo inglese, fare esperienza del mondo, ma soprattutto a stemperare gli slanci di gioventù… perché la ragazza si era invaghita di un giovanotto e di idee politiche che avrebbero potuto nuocerle o allontanarla irrimediabilmente dalla potente sicurezza della famiglia. Le diede da portare con se la coppia d'argilla, per tenerle compagnia e perché la stimolassero a far pace con il suo destino.

Ha scelto di tornare a casa per nave. E' più bello, le dà la possibilità di sognare ancora prima di tornare a casa, nella solidità, di immergersi per un po' in quel luogo di mezzo dove la Grande Anima non ha avatar umani, quel luogo che non è di nessuno ed è di tutti, che si muove costantemente ma è così grande da essere allo stesso tempo immobile, che contiene la vita, i suoi principi molto prima degli umani, e allo stesso tempo le rotte che hanno irretito i continenti degli uomini. Che culla e può distruggere, come le madri.
Pensando queste ed altre cose, il giorno prima di attraccare le viene un tremore, un impeto di passione senza sbocco così forte che deve esorcizzarlo. Allora prende le due statuette e le butta in acqua, come un dono d'addio, di comunione e nostalgia per qualcosa che forse non conoscerà mai.
Le onde si increspano, in un cerchio di spruzzi per accogliere il dono.
L'Oceano, finalmente Pacifico, scioglie poi rapidamente le sue creature dal vincolo della creta, e le riassorbe, figliuole prodighe, ritornate nel suo grembo di ere ricorsive, tramando trame tra terre lontane.



Livia Claudia Bazu nasce a Bucarest nel 1978, da madre traduttrice e padre pianista. Nel 1990, a 12 anni, si trasferisce con la famiglia in Italia, a Montecatini Terme. Durente l'adolescenza pubblica sporadicamente sulla rivista per ragazzi UTOPIA. Nel 1997 si trasferisce ancora, questa volta da sola, a Roma, per seguire l'Università. La necessità di mantenersi agli studi e la passione per Roma le fa esplorare la città in nelle sue molteplici dimensioni, native e migranti. Nel 2003 si laurea in Letteratura comparata. Nello stesso anno si classifica quinta al concorso letterario Eks&Tra, con la poesia "Autobiografia". Attualmente sta conseguendo il dottorato di Ricerca presso l'Università per Stranieri di Siena, con una tesi dal titolo: "SIGNIFICARE ALTROVE. Contaminazione e creatività linguistica nelle realtà interculturali italiane." E' inoltre presidente dell'Asociazione interculturale "Roma Porto Franco", che opera organizzando eventi interculturali. Ha in preparazione il suo primo volume di poesie.

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