La mia vita cambiò
subito dopo l'8 settembre del '43. I tedeschi ci fecero prigionieri e perdemmo
così la libertà che credevamo di possedere.
Alberto rilesse quelle
poche parole, prima in silenzio, poi ad alta voce. Prese il foglio, lo
appallottolò e lo gettò nel secchio della spazzatura, a fianco alla finestra.
L'8 settembre del
'43 fu certamente il giorno in cui iniziò la nostra prigionia, ma anche
quello, per me, che mi diede modo di comprendere, come fino a quel momento,
mi fossi illuso di essere libero di scegliere cosa fare della mia vita.
Questa volta senza
neanche udire il suono della sua voce, appallottolò anche quel foglio e lo
lanciò. Guardò fuori, il sole, la fronda dell'albero che si muoveva appena.
Riportò di nuovo i suoi occhi a tutti quei fogli sistemati sul tavolo della
cucina. Sapeva che, prima di andare a dormire, avrebbe dovuto toglierli da
lì. La mattina seguente sarebbe venuta la signora Franca per le pulizie e non
poteva certo farle trovare quell'invasione. Sul piano di destra, aveva
sistemato le cose scartate e di nessuna importanza per quello che voleva
fare. Per tre giorni, all'ora consueta, aveva usato solo il lato sinistro,
quello del lavandino e della macchina del gas: si era preparato i pasti e poi
si era trasferito di là, nel salotto. Tutto preso dalle sue carte e dai
ricordi, aveva lasciato fissa, sul tavolino tra la poltrona e la televisione,
la tovaglia ripiegata in quattro. Così era proprio delle giuste dimensioni e
lo spessore evitava che la superficie, in qualche modo, risentisse dell'uso
improprio che doveva sopportare. Sarebbe bastato il segno di umidità lasciato
dal fondo di un bicchiere per far scattare il rimprovero - cortese, ma pur
sempre un rimprovero - della signora Franca. Non aveva voglia di sentirla.
Ora, con entrambi i gomiti appoggiati sul tavolo, sorreggeva la testa col
pollice e il medio della mano sinistra, tra il lobo dell'orecchio e la
tempia. Con la destra giocherellava con la matita tra le dita. Guardava i
fogli bianchi che si era messo davanti: aveva deciso di tornare ai vecchi
sistemi, dopo aver cercato di riordinare tutto il suo materiale, cominciando
a trascriverlo con il computer. Aveva apprezzato fin da subito quello
strumento e se ne era comprato immediatamente uno, vent'anni prima. Lo aveva
utilizzato durante l'ultimo periodo della sua professione, per i suoi
pazienti affezionati: a ognuno di loro aveva dedicato una cartella. Non si
era impegnato con data base. Gli era sembrato sufficiente seguire un semplice
schema, che si era organizzato secondo le proprie necessità. Anche quando si
era ritirato, aveva continuato a usarlo, per piccole cose e per quegli
strumenti che trovava fantastici: la posta elettronica e i collegamenti con
internet.
Aveva deciso di iniziare quel lavoro nauseato dalle foto e dai filmati sulle
torture in Irak che aveva visto sui giornali e in televisione. La prima volta,
l'immagine al centro della pagina lo aveva colpito con un pugno diretto allo
stomaco, facendolo poi rabbrividire. "Di nuovo!". Una settimana
dopo, prima di cena, di fronte allo schermo, quegli uomini umiliati lo
avevano chiamato a gridare con loro, soffocando la voce e trattenendo le
lacrime, ma non il dolore, la vergogna, la mortificazione. In quel momento
era stato costretto ancora una volta a credere che ciò che il mondo tanti
anni prima, finita la guerra, aveva messo al bando, adesso si era sottratto
alla condanna senza appello, protetto come sempre dalla sopraffazione
economica e delle armi, alimentato dal terrore e dal disprezzo per la vita,
affidato a ciechi sostenitori di pregiudizi scambiati per ideali.
La mattina appresso chiamò Alfredo, il portiere, e gli chiese di aiutarlo a
tirare giù dal soppalco dello studio le scatole. Sei mesi prima, con sua
nipote era stato estremamente vago. Lei gliene aveva chiesto notizie: avrebbe
voluto usare del materiale che contenevano per una ricerca con i suoi
studenti. Lo aveva saputo da sua madre, che le ricordava nei vari traslochi:
l'Archivio familiare, così le aveva chiamate! Lui aveva risposto che
neppure aveva ben presente dove le avesse riposte l'ultima volta. E, ormai,
erano passati tanti anni! La verità era che non aveva granché voglia di
ritornare indietro: sarebbe stata una cosa da nostalgici, o da malinconici.
Invece adesso le aveva tutte in fila davanti la libreria. Dapprima, se le
guardò; poi, con le forbici, tagliò il nastro adesivo con cui le aveva
sigillate. Di ciascuna alzò i lembi, quel poco sufficiente per dare uno
sguardo veloce. Andò in cucina e si preparò il caffè. Sul balcone attese che
uscisse: nel palazzo di fronte, al suo stesso piano, una donna filippina
stava stendendo il bucato. Sopra, un donnone biondo dell'Europa dell'est
puliva con estremo vigore i vetri di una porta-finestra. Nell'appartamento a
fianco, una ragazza somala passava l'aspirapolvere. La società multietnica,
pensò. Con la sua tazza di caffè doppio tornò nello studio e si sedette alla
scrivania. A tre metri di distanza c'erano le scatole. Ora che le aveva lì,
proprio davanti a lui, non sapeva bene che cosa fare, da dove cominciare.
Ricordava di averle riempite senza un particolare ordine: né cronologico, né
tanto meno di materia. Pur gustando lentamente il caffè, come faceva sempre,
l'ultimo sorso finì prima che avesse deciso una modalità di azione. Posò la
tazza. Fece un piccolo gesto di avvicinamento: si pose seduto sul bordo della
sedia, gomiti sulla scrivania, bocca posata sulle mani chiuse a pugno, l'una
contenente l'altra. Sospirò. Lì dentro c'erano i segni di circa dodici anni
della sua vita. Ma a lui, in quel momento, interessava estrarne solo alcuni.
Tirò indietro la schiena fino a raggiungere la spalliera, quindi si alzò.
"Coraggio, non c'è altro modo. Devi affondare le mani" disse ad
alta voce. Riandò in cucina, prese lo sgabello, quello con le rotelle.
Quindi, di nuovo nello studio, iniziò da quella più vicina alla porta. A
caso. Come a caso emersero le prime carte: fascicoli contenenti vecchie
ricette; buste di ritagli di giornali con recensioni di film e di libri;
dattiloscritti di interventi a seminari; pacchetti con biglietti di
partecipazione di matrimoni di amici; programmi di convegni. Si impose di non
soffermarsi su nulla, andando avanti, scorrendo verso le altre scatole, fino
a raggiungere il suo scopo. Nella terza, finalmente, trovò alcuni quaderni
dalla copertina nera legati con un nastro. Ne aprì uno. Erano quelli degli
anni successivi, quando era andato via da Roma. Ancora più sotto, ecco, due
pacchetti, anche loro legati: ma niente, di nuovo. Uno conteneva biglietti
ricevuti per le feste natalizie; l'altro, auguri di compleanno e alcune
cartoline spedite a casa dalla figlia. Erano tutti ordinati per anno: era
stata sua moglie a farlo, tanto tempo prima. Non rimaneva che l'ultima. Qui,
veramente, affondò le mani. In superficie trovò molte carte sparse. Neppure
le guardò, anzi, nemmeno le tirò fuori: si limitò a scavare tra quei fogli,
mentre alcuni cadevano sul pavimento. E, finalmente, eccoli lì: legati con
uno spago, i quaderni; avvolti in due buste gialle, i suoi appunti-diario.
Con tutto il materiale recuperato si andò a sedere di nuovo alla scrivania.
Decise subito quale metodo seguire. Aprì prima di tutto le buste gialle, che
contenevano piccoli block notes e alcuni fogli: mise tutto in ordine
cronologico. Scorse velocemente ciò che aveva scritto, indeciso se dedicarsi
a una lettura attenta o se trascrivere direttamente con il computer. Scelse la
seconda possibilità, convinto che le azioni contemporanee della lettura e
della scrittura gli avrebbero dato modo di riassaporare lentamente le frasi.
Attendendo l'accensione del pc accarezzò, quasi, quei blocchetti che lo
avevano accompagnato per mesi fin dalla sua partenza da casa. Li aveva
acquistati perché, piccoli, non avrebbero ingombrato il suo bagaglio di
ufficiale. Se li era portati per ogni evenienza. Non era abituato a scrivere
un diario in realtà, ma considerò l'opportunità che gliene venisse voglia.
Aprì Word e sulla pagina bianca cominciò a copiare. Mano a mano che scorreva
le cose descritte con la sua calligrafia ricordava particolari, sensazioni,
persone. Il luogo di internamento. Il luogo in cui da giovane medico appena
laureato, cresciuto in pieno regime fascista, aveva visto e sentito, compreso
e deciso. Era lì per fedeltà al suo giuramento al re! Dopo l'armistizio non
aveva voluto aderire alla Repubblica Sociale e, come molti altri, era stato
portato in un campo di concentramento in Germania.
Passò la prima ora a trascrivere le date, le descrizioni della baracca, i
nomi dei suoi compagni di prigionia, il cibo con cui avevano dovuto
sostenersi. Si interruppe e stampò quelle poche pagine. Le rilesse: c'era
qualcosa di strano, una sensazione di disagio. Ci pensò un po', poi andò a
prepararsi il pranzo. Trascorse le prime ore del pomeriggio come sempre:
telegiornale, riposino. Poi ritornò al computer e riprese a copiare. Alla
fine, stanco, aveva scritto solo tre pagine. Stampò anche l'ultima. Le
guardò. Con una media di quattro pagine al giorno, al massimo, chissà quando
avrebbe terminato! Il regalo che voleva fare alla nipote forse sarebbe
arrivato soltanto per il prossimo anno scolastico. Sempre che lui fosse
ancora in vita! Alla sua età ogni momento poteva essere quello giusto per
partire. Magari si era semplicemente illuso di poter portare a compimento
questa impresa! Uscì dallo studio, determinato per quella sera a pensare ad
altro. Ma a letto, invece, continuò a riandare con la mente a quei giorni.
Sorrise tra sé e sé quando gli tornarono in mente alcune annotazioni che
aveva letto, scorrendo quelle pagine, solo poche ore prima: magri ma vivi!
Oppure quel suo mettere in risalto che un suo compagno di prigionia, che
dormiva nella branda sotto la sua, aveva i piedi che emanavano un pessimo
odore! No, questo non poteva trascriverlo. Che importanza potevano avere, per
dei ragazzi, cose come queste. Tutt'al più si sarebbero fatti molte risate!
Erano anni ormai che dormiva nel suo letto comodo, ma quello di allora non
l'aveva mai dimenticato. Corto, stretto, duro. Un giaciglio sporco che
all'inizio avrebbe voluto rifiutare, ma che alla fine era diventato il suo
spazio. E le patate, che nei primi giorni si ostinava a sbucciare,
sprecandone una parte. La brodaglia, che chiamavano caffè. Gli insetti, che
entravano dalle feritoie.
Si alzò per andare a bere un bicchiere d'acqua. Uno se lo portò in camera.
Prese il libro sul comodino. Ne lesse una decina di pagine e poi si decise a
dormire.
Si svegliò all'improvviso alle sei e venti. Fu come se avesse sentito una
suoneria. Nella sua testa era entrata un'idea. Ora sapeva chiaramente perché
il giorno prima aveva provato quella strana sensazione di fronte alle pagine
stampate. Andò immediatamente nello studio. Le rilesse e confermò a se stesso
il pensiero che lo aveva svegliato. In quel momento aveva l'impressione di
avere tra le mani una cosa morta. Come se fossero semplici dati. Freddi,
senza vita. Invece: quei block notes, i foglietti, che con difficoltà era
riuscito a procurarsi; la matita, che temperava con cura e parsimonia; il
rapporto che aveva instaurato con quel giovane soldato che gli ricordava il
cugino Giorgio, il suo preferito, che avendolo visto scrivere gli aveva fatto
capire che lui voleva diventare uno scrittore, così che era stato disposto a
portargli di nascosto un po' di carta e una matita nuova; quelle frasi,
compresa quella riguardante il suo vicino; tutto, in quei mesi, era stato il
suo legame con la vita. Non si era abbattuto, aveva continuato a riflettere e
ad annotare i suoi pensieri. Li aveva prodotti come un filato, sottile, ma
non fragile. Le aveva scritte per questo tutte quelle parole: per la sua
esistenza. Era costretto a vivere in prigionia, ma le parole fluivano da lui
alla carta; e dalla carta al mondo. Ogni foglio scritto gli aveva mostrato il
tempo: era stato il segno che la vita, con il suo passo, andava comunque
verso altri giorni. Una sensazione fisica che il computer non gli
trasmetteva. Il computer avrebbe contenuto, chiuso, come la scatola in cui
erano rimaste per anni le sue carte. La nipote e i ragazzi avrebbero potuto
leggere la trascrizione, certamente. Ciò che lui temeva, però, era la
mancanza di sensazione, di emozione. Quelle pagine manoscritte contenevano le
sue riflessioni: frasi che aveva formulato dentro di sé, che per lui avevano
un senso profondo. Rivedendo le prime, se le era sentite riecheggiare dentro.
Come le avrebbero interpretate? Un documento parlante: ma avrebbero detto
loro la verità?
Seduto sulla poltrona non si era accorto che erano già le otto. Aveva
oltrepassato i suoi orari abitudinari. Fece colazione, si preparò e, come
sempre, andò a comprarsi il giornale. A casa, però, non lo lesse. Lo lasciò
sul mobile all'ingresso. Si tolse la giacca e andò subito nello studio. Il
breve tratto di strada fino all'edicola gli aveva chiarito le idee: avrebbe
riletto tutto il materiale, quindi, dopo averlo selezionato, lo avrebbe usato
personalmente per scrivere, ripensando, ricostruendo, collegando. Prese fogli
e blocchetti e, volendo avere spazio - la sua scrivania era carica di carte e
di libri - si trasferì in cucina, in cerca di ispirazione.
Erano passati tre giorni.
Sul tavolo aveva sistemato tutto quello che gli serviva, diviso per mesi, in
tre file. Aveva messo in ordine le cose, i suoi compagni, i discorsi. Aveva
ripercorso i suoi sentimenti, le impressioni, i ragionamenti. Aveva
considerato lo stato di prigionia nelle varie fasi della vita, così come
l'aveva incontrata negli altri e in se stesso: prigionieri, perché rinchiusi
e controllati; ma anche prigionieri di sentimenti o paure; di carenza di
risorse economiche, costretti ad accettare situazioni che, mai, si
sceglierebbero; prigionieri in un letto, per una grave malattia; ma anche, di
convinzioni mai confrontate con la realtà, con il mondo diverso da quello in
cui si è abituati a vivere. La convivenza obbligata con persone di
provenienza diversa aveva, in qualche modo, fatto entrare nella baracca i
colori. Era avviato a una brillante carriera di medico nella clinica dello
zio, ma in quei mesi le sue convinzioni cominciarono a destabilizzarsi.
Pensava ancora che, finita la guerra, tutto sarebbe andato come previsto
durante la sua adolescenza e il periodo dell'università, ma il dubbio si
stava affacciando. Entrò veramente nella sua vita quando, con la pace,
trascorse qualche mese in ospedale. Il dottor Pallotti, che lo curava, lo
aveva preso in gran simpatia, e magari aveva intuito il tarlo nella sua
coscienza. Comunque sia, tornò a casa e annunciò a tutti che sarebbe partito
per il sud dell'Italia con Pallotti, che era stato incaricato di realizzare
una ricerca epidemiologica in alcune aree interne, povere, dove il lavoro dei
campi a malapena bastava a garantire la sopravvivenza dei braccianti. Quello
fu l'inizio del suo cambiamento di rotta. Non se ne era mai pentito, anche se
gli era costato un lungo periodo di allontanamento dalla famiglia, difficoltà
finanziarie, incomprensioni. L'intensità delle sue esperienze lo aveva
rinvigorito e la sua vita, a questo punto pensava, era valsa la pena di
essere vissuta.
Seduto di fronte alle sue carte voleva finalmente scrivere, trasferire con
razionalità le sue emozioni, oltre che le vicende che le avevano fatte
scaturire. Aveva provato anche la sera prima. Più che un incipit aveva preso
alcuni appunti. Ora, però, si rendeva conto delle difficoltà che stava
incontrando. Pensò che sarebbe stato meglio muoversi per qualche secondo.
Fece il giro della casa. Poi tornò in cucina e aprì il frigorifero: doveva
ricordarsi di fare la lista per la signora Franca. Verso le sei sarebbe
passata a prenderla per la spesa di domani, che avrebbe fatto prima di
arrivare per le pulizie.
Tornò a sedersi. Decise di mettere sulla carta innanzitutto quello che gli
serviva. Mentre elencava pane, prosciutto, petto di pollo, zucchine, caffè,
tovaglioli di carta, fece uno strano paragone: come i suoi foglietti e
appunti scritti durante la prigionia, anche quella lista della spesa era una
specie di legame con l'esterno, con la vita, con i giorni che dovevano
seguire a quel semplice atto di elencazione. Si rese conto del perché di
tanta difficoltà nello scrivere intorno alle sue vicende. Temeva di
scomparire nelle parole scritte: anche davanti ai propri occhi, alla propria
sensibilità. Aveva paura di non riuscire veramente trasmettere ciò per cui
aveva incominciato quell'impresa. Come se scrivendo impacchettasse le
sensazioni: trovando la bella forma, lo stile adeguato gli sembrò di
confezionare le proprie emozioni con carta da regalo. Come se preparasse le
sue ultime memorie. Questo gli fece pensare a una fine. Non era ciò che lo
aveva mosso: non gli interessa scrivere l'autobiografia di quegli anni. Non
aveva mai amato molto scrivere: aveva sempre preferito l'azione. Bene, aveva
deciso, ne era certo: aveva cambiato idea. Avrebbe raccontato tutto a sua
nipote, permettendole anche di registrare la sua voce. Sarebbe stata questa
stavolta il legame con il mondo: la sua voce, una cosa viva, con la quale
trasmettere i suoi sentimenti di allora, i suoi ideali, i suoi entusiasmi.
Quelli stessi in cui ancora credeva, che lo avevano sempre spinto ad agire.
Sarebbe stato lui a iniziare: sottolineando subito ciò che gli stava più a
cuore, ma lasciando poi che la sua voce venisse fatta scorrere sul nastro,
sotto la guida delle domande di lei: sarebbe stato un bel gioco. Le avrebbe
consegnato spunti e suggerimenti, stuzzicando la sua curiosità; lei avrebbe
posto le domande secondo la sua logica, il suo tempo. Desiderò che si
realizzasse un continuo rimando di entusiasmi, uno stimolo per entrambi. La
sua voce, il suo tono, la commozione, la malinconia o il disagio, ma anche
l'euforia e l'ironia avrebbero costituito il suo stile di comunicazione.
Era rilassato, ora. Persino soddisfatto. Tamburellava appena con le dita sul
tavolo. Sospirò con sollievo. Poi guardò l'orologio sopra la porta. A
quest'ora lei stava forse preparandosi per la palestra, ma non ci sarebbe
voluto molto. Solo il tempo di accordarsi per un appuntamento. Allungò il
braccio alle sue spalle e prese il cordless.
|