Anno secondo della
rivoluzione fascista. È una trasparente mattinata di fine autunno, già quasi
in odore d'inverno.
L'aula scolastica sa di gesso e di legno impregnato d'inchiostro. Tutto
regolare, non fosse per Julka. Perché oggi ha occhi umidi di pianto la
piccola Julka, che il maestro si ostina a chiamare Giulia.
Il maestro: un omino dai capelli neri e lucidi come il catrame e il
distintivo con il fascio littorio bene in evidenza all'occhiello della
giacca. "Danilo, pej sem". Tre parole soltanto indirizzate a un
compagno.
Ma bastano all'omino del fascio littorio per una condanna senza possibilità
di appello.
Siamo nel 1924 e Julka ha parlato in sloveno. Perché nella sua ignoranza
etnica e caparbiamente sciava non ha ancora capito che si chiama
Giovanna e che deve parlare in italiano.
Non certo in quell'altra brutta lingua. È un reato grave, insomma, che
offende i patri confini, e la bandiera, e l'italico suolo.
Ora i piccoli piedi di Julka non toccano terra: rimane sospesa per le lunghe
trecce all'attaccapanni, dove l'omino l'ha trascinata mosso da educativo
furore.
Così forse le entrerà in testa che italiani, se non lo si nasce, lo si
diventa. Appesa come un vestito sgualcito Julka sembra una piccola farfalla
dalle ali spiegate.
Boris Pahor è il cantore di questa atroce novella, La farfalla
sull'attaccapanni, ed è il paradigma di tante altre atrocità, grandi e
piccole, di cui egli è stato testimone, suo malgrado, e che costituiscono la
trama di una prolifica vena letteraria che ancora non si è estinta, visto che
l'autore continua a scrivere, a produrre, a studiare.
Le sue narrazioni si intrecciano alla lunga memoria di una vita altrettanto
lunga, intensa, imprigionata dalle maglie di troppe libertà soffocate,
negate, sottratte. E dal bisogno esistenziale di affermare, al contrario, il
diritto di ogni essere umano alla sua inalienabile libertà. Questa è la
poetica che vivifica la sua letteratura.
"Hanno detto di me che Pahor è tutto memoria del campo di concentramento
o voce della minoranza slovena. Ma non è così. È un'affermazione riduttiva.
Il valore etico che anima la mia scrittura è l'insofferenza per la non
libertà, di qualunque genere essa sia". Protagonista vigile e
lucidissimo del "secolo breve", sloveno Triestino classe 1913, il
che significa novant'anni indossati con affilata e arguta intelligenza, Pahor
resta ancora quasi del tutto sconosciuto all'editoria e al mondo
intellettuale italiano, che lo hanno volutamente ignorato, a cominciare da
Primo Levi che stroncò fin da subito Necropoli, la dolorosa esperienza
del campo di concentramento di Struthof, nei Vosgi, in cui l'autore venne
internato dai nazifascisti nel 1944.
Un'opera che rimase anche per questo totalmente sconosciuta in Italia mentre
nel resto d'Europa riscuoteva ammirati consensi e critiche lusinghiere, che
definivano il suo autore come uno degli scrittori europei più interessanti,
certamente la migliore voce vivente nella lingua di Ljubljana.
Ci sono voluti ventitrè anni e il coraggio del Consorzio Culturale del
Monfalconese perché il romanzo - che nel 1995 vinse il premio Kosovel -
uscisse finalmente anche in lingua italiana. Oggi, per unanime consenso, è
considerato un capolavoro.
Eppure ancora Pahor rimane misconosciuto dalla cultura di casa nostra, sempre
più mondana e salottiera, così poco europea da rischiare la stigmate di un
sonnacchioso chic provincialismo fatto più di mode che di sostanza.
Unica gradita eccezione l'intelligente editore Claudio Nicolodi, che ha recentemente
acquistato i diritti d'autore per l'Opera omnia di Pahor, anche per quei
romanzi (quasi tutti) che ancora non sono stati tradotti in italiano.
E forse ha avuto buon fiuto, dal momento che da più parti giungono
segnalazioni per un Nobel alla letteratura che finalmente riconosca il valore
di questa voce tanto orgogliosa della sua "minorità".
Ma chi è in definitiva Boris Pahor? Ogni buona antologia slovena lo pone tra
le voci più rappresentative del Novecento. Nel 2001 la Germania ha inserito Necropoli
a pieno diritto nella famosa Bestenliste, il prestigioso elenco dei dodici
libri più belli pubblicati nell'anno.
La Francia lo adora, lo coccola, lo sente quasi suo. Gli editori parigini
Phébus e Le Rocher hanno pubblicato gran parte dei suoi lavori. E in Francia
partecipa frequentemente a simposi e pubbliche letture. È infatti appena
rientrato da St. Malo, dove assieme ad altri 150 scrittori europei, in tre
giorni di intensa attività, ha vivacemente animato ben cinque tavole rotonde,
discutendo di letteratura, di appartenenza, di lingue minoritarie, di libertà
negate. La rassegna si intitola "Etonnants voyagers": viaggiatori
meravigliosi.
E davvero la vita di Pahor è stata un viaggio meraviglioso. Perché dolore e
meraviglia sono emozioni che fanno grande l'essere umano, tanto da renderlo
capace di letteratura.
"A St. Malo ho parlato del Fascismo, di quello che ha fatto. Dei suoi
tanti crimini che sono spesso stati sottaciuti. E questo per non dare troppa
materia al Comunismo, che in Italia era davvero forte dopo la seconda guerra
mondiale. Per questo hanno preferito che non si raccontasse mai la verità su
quello che i fascisti hanno fatto qui a Trieste, in Slovenia, in Croazia. E
non parlo della guerra, ma del periodo tra le due guerre mondiali. Ci hanno annientati.
Ci hanno trattato peggio degli schiavi neri. Quelli, almeno, parlavano la
loro lingua, mantenevano le loro tradizioni. A noi hanno negato tutto: la
lingua, la cultura, l'identità. Se parlavi in sloveno per strada a Trieste in
quegli anni rischiavi che qualcuno ti allungasse uno schiaffo!"
Eppure c'è stato un
tempo in cui Trieste era orgogliosa delle sue molte anime, delle sue
differenze...
No, a Trieste non è mai interessato un granchè delle sue anime. Ci credevano
gli intellettuali come Svevo e Joyce. Ma a Trieste Svevo e Joyce non sono mai
piaciuti davvero. Certo la città aveva un nome all'estero. Qui i bastimenti
andavano e venivano da ogni parte del mondo. E i commercianti sapevano bene
che passare all'Italia avrebbe significato la morte di tutto questo.
Eppure gli irredentisti andavano dicendo: cresca l'erba nel porto, ma
vogliamo Trieste italiana! Così noi sloveni e croati abbiamo dovuto
soccombere. Le nostre etnie, o per meglio dire le nostre nazioni, sono state
immolate ai sacri confini della regione orientale. L'Istria era a maggioranza
croata, c'è poco da fare.
C'erano gli italiani sulla costa, nessuno dice di no. Ma l'interno
dell'Istria era ed è croato.
Noi in quegli anni abbiamo pagato l'imperialismo interno dell'Italia, lo
stesso che si è espresso all'estero sui Balcani o sulla Libia, lo stesso che
Bretoni, Provenzali e Alsaziani hanno dovuto soffrire in Francia, o i
Catalani sotto il regime di Franco.
Ma come è cominciata
a Trieste la persecuzione?
Già nel 1920. In quell'anno vennero dati alle fiamme tre centri di cultura
sloveni, uno a Trieste città, uno a Barcola e uno a San Giovanni, assieme a
molti studi di nostri avvocati, a tipografie, teatri.
Ma l'incendio dei centri culturali è stato un atto molto forte, perché noi
sloveni siamo sempre stati legati ai nostri centri di cultura. In ogni borgo,
per quanto piccolo, sorge anche oggi una kulturni dom.
È questa consapevolezza della nostra identità che ci ha aiutato a
sopravvivere nei secoli.
Nel '30, a dieci anni dall'incendio, Francesco Giunta, uno dei fondatori
delle squadre d'azione triestine, celebrò in un libro l'evento come la prova
che la rivoluzione fascista era nata proprio a Trieste.
Lei ricorda quei
momenti nella sua opera Il rogo nel porto. Che impressione le resta di
quei giorni?
Ho personalmente vissuto la distruzione del teatro di San Giacomo. Era la
festa di San Nicolò e il Santo, accompagnato da diavoli, distribuiva piccoli
regali ai bambini. Poi sono arrivati i diavoli veri, quelli con il fez e i
manganelli. Avevo sette anni. Ero lì con mio padre e le mie due sorelline.
Hanno gettato tutto dalle finestre... appiccato il fuoco. Era un teatro coi
fiocchi... La città è rimasta neutra. Ha assistito senza esprimere alcun
parere.
E in casa quale
clima si era venuto a creare in conseguenza al fatto?
Mio padre bestemmiava, mia mamma piangeva... e poi piangeva anche perché mio
padre bestemmiava.
Era un uomo buonissimo mio padre, ma quando si scaldava... vendeva burro,
miele e ricotta a Ponterosso. Un mestiere molto duro.
D'inverno rischiavi che la bora buttasse tutto in canale. C'era tanto freddo
che mio padre si metteva un giornale sotto la giacca, per proteggersi in
qualche modo dal gelo. E d'estate invece il burro si scioglieva per il gran
calore. Pensi che sotto l'Austria era fotografo della polizia scientifica.
Poi il nuovo governo italiano pensò bene di allontanare tutti gli
amministrativi e lo trasferirono in Sicilia. Ma mio padre preferì mettersi in
pensione. E per vivere andò ad aiutare mio nonno su questo banco a Ponterosso.
Era tenace, ci teneva alla sua identità. Volle che sulla tomba di famiglia,
in cimitero, ci fosse una croce con su scritto Drusina Pahor, famiglia
Pahor, in sloveno. In quegli anni cambiavano i nomi anche ai morti.
Ma quella croce è rimasta lì... chissà, forse perché non eravamo importanti,
non ci conosceva nessuno e così nemmeno la notarono.
Lei allora era un
ragazzino...
Ho vissuto malissimo quegli anni. Il passaggio alla classe quinta elementare
è stato drammatico. Dopo quattro anni di scuola in sloveno dover diventare
improvvisamente italiano... È stato un disastro completo. Ovviamente andavo
malissimo a scuola. E mio padre lo visse come un fallimento personale. Tanto
che qualcuno suggerì in famiglia di farmi entrare in seminario.
Fui mandato così a Koper, Capodistria. Una città istriana, ma abitata da
lattaie e contadine croate e slovene, come Gorizia, come Trieste. E qui ho
incontrato moltissimi altri giovani croati e sloveni, come me. Sono stati
anni importantissimi. Ho preso coscienza di me stesso. Mi sono ricostruito
psicologicamente. Ma non era certo la mia strada, quella del seminario.
Così dopo altri due anni di teologia sono uscito e appena fuori mi hanno
arruolato: era la Campagna di Libia. Un'esperienza strana.
Facevo il militare per una nazione che voleva annullare la mia identità. Ho
combattuto per quella Nazione e ho guadagnato anche due medaglie.
È una situazione
paradossale davvero: scommetto che sulle medaglie l'iscrizione non era in
lingua slovena!
Oh no! Ma ero contento, in un certo senso, di essere lontano dal groviglio
Triestino. Il deserto poi mi suggeriva una vastezza di orizzonti che non
avevo mai potuto vivere prima.
E gli arabi: li sentivo a me molto vicini, una nazione oppressa dall'Italia,
come lo era anche la mia nazione. Dall'esperienza di quegli anni è nato un
libro Nomadi senza oasi. E poi in Libia ho potuto prendere il diploma
di maturità classica, al liceo Carducci di Bengasi. Mi ero portato dietro
tutti i libri che potevo, infilandoli in ogni tasca disponibile.
Il mio comandante infatti non mi poteva sopportare. Era uno che aveva
combattuto in Spagna per Franco... e dal momento che io non mi interessavo
proprio ai suoi cannoni, mi aveva fatto lasciare gran parte dei miei libri a
Tripoli... per ripicca.
Beh, un fatto singolare...
uno sloveno che in Libia consegue la maturità classica in un Liceo Italiano!
È stata una specie di riscatto. Dei trentacinque ufficiali italiani che hanno
sostenuto l'esame ne sono stati promossi soltanto sei.
E tra quelli l'unico otto in italiano è stato il mio, quello di Boris Pahor,
sloveno triestino!
E poi l'esperienza
terribile del campo di concentramento, dalla quale nasce il romanzo Necropoli...
Le mie simpatie per i partigiani erano evidenti. Assieme ad altri avevo
costituito nel 1944 un comitato triestino di opposizione ai nazifascisti. Ma
una settimana dopo ero già nelle loro mani. Trovarono in casa mia dei
documenti compromettenti.
Avevo scritto da qualche parte che i nazisti si sarebbero rotti la testa
sulle scogliere di Trieste. Questo è bastato.
Era il 28 febbraio del 1944. Assieme a me sono partiti altri seicento
disgraziati come me.
Ma la sua voce è
sempre stata pronta a condannare ogni tipo di non libertà, da qualunque parte
venisse l'oppressione...
La mia letteratura si è sempre interessata alle storie semplici della povera
gente. La mia poetica è e resterà l'insofferenza per la mancanza di libertà.
Sono stato sempre un non allineato. Per questo non ho mai riscosso grandi
simpatie, né da una parte né dall'altra.
La lotta di liberazione partigiana è stata pluralistica, animata da un
fortissimo valore etico: comunisti, liberali e cristiani-sociali hanno
lottato assieme per la libertà. Poi le cose sono cambiate.
Pensi a quello che è accaduto a Edvard Kocbek: un cristiano-sociale che ha combattuto
assieme a Tito, un intellettuale di grande levatura e apertura culturale,
autore tra l'altro di un libro importantissimo e non adeguatamente
valorizzato, La Compagnia (ed. Cseo, Bologna 1979, n.d.r.), che
andrebbe rivalutato; uno che è diventato vicepresidente del Parlamento
iugoslavo... beh, è stato liquidato politicamente perché non allineato con le
scelte della Iugoslavia di allora.
E gli eccidi compiuti nel '45 contro gente disarmata non possono essere
considerati lotta di liberazione!
Io non potevo non pronunciarmi su tutto questo. Per questo la mia è ancora
oggi considerata una voce scomoda.
E poi la fine della
guerra, il ritorno a casa...
E ancora il dramma della non libertà: in quegli anni Trieste, oltre a
Berlino, è il luogo in cui si è giocato con maggiore ferocia lo scontro tra
Oriente e Occidente.
Due delle opere che compongono la mia trilogia, come l'hanno chiamata i
critici, Labirinto e Primavera difficile (la terza opera della
trilogia è Oscuramento; nessuna delle tre è ancora stata tradotta in
italiano, n.d.r.), sono ambientate in quegli anni così difficili.
Si parla di un amore contrastato, della malattia di TBC contratta dal
protagonista, delle difficoltà di adattamento di un ex deportato.
Dunque ancora
gabbie, ancora confini. Confini che forse l'Europa che sta nascendo potrà
cancellare.
Crede che l'Europa unita, di cui anche la Slovenia entrerà a far parte,
permetterà di abbattere queste barriere?
Il Presidente della Repubblica Slovena mi ha invitato a partecipare come
ospite gradito alla celebrazione della festa dell'Indipendenza della
Repubblica, il 25 giugno scorso.
Ma non ci sono andato perché la comunicazione mi è giunta troppo tardi. La
lettera ci ha messo sette giorni per arrivare da Ljubljana a Trieste.
Sette giorni per attraversare una distanza di sessanta chilometri. Come vede
l'Europa dei confini resta.
E la Slovenia, cosa
potrà portare all'Europa?
Per prima cosa l'esempio di come si possa restare fedeli alla propria
identità senza armate, senza generali e senza ammiragli. Un'identità bastata
sulla cultura. E questo gli sloveni hanno imparato a farlo sopravvivendo a
una storia che da sempre ha cercato di assorbirli, di omologarli: prima la
germanizzazione dell'Impero Asburgico, poi il Fascismo e l'Italianizzazione
forzata e infine gli anni iugoslavi, serbizzanti, orientalizzanti.
L'internazionalismo di Tito è sempre stato contrario alla salvaguardia delle
identità nazionali. Una posizione molto lontana da quella del Partito
Comunista Italiano, che appunto è sempre stato fiero della sua identità
nazionale: prima comunisti ma poi anche italiani.
E poi la Slovenia ha una grande tradizione letteraria. Una letteratura di
valore, per quanto espressione di un piccolo popolo, è sempre motivo di
ricchezza per tutti.
E dedicandosi a questa
ricchezza lei continua a pensare, a scrivere, a raccontare...
L'ultimo libro che ho scritto si intitola Zibelka sveta (La culla del
mondo), che in Francia è stato edito da Le Rocher nel 2002. Qui in Italia
è edito da Nicolodi. È uscito quest'anno con il titolo Il petalo giallo.
È la storia di un incesto perpetrato per anni da un padre sulla propria
figlia. La protagonista si innamorerà di un sessantenne sopravvissuto ai
campi di sterminio.
E i loro dolori, le loro prigionie, così diverse ma tanto simili, si
incontreranno nella ricerca di se stessi attraverso un sentimento molto forte
che dalla conoscenza passa alla convivenza, quindi alla comprensione per
sbocciare infine nell'amore.
La donna che redime
il dolore attraverso l'amore dunque? La donna è la culla del mondo.
(Tratto dalla
rivista quadrimestrale Pagina Zero, dicembre 2005, n°8, Trieste,
Italia)
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