CONTRO NAIPAUL

 

 

Pascale Casanova

 

 

 

Il premio Nobel per la letteratura, conferito a Stoccolma il 10 dicembre scorso a Viadiahar Surajprasad Naipul, è un po’come il premio Nobel per la pace assegnato qualche anno fa a Henry Kissinger: il crollo di un mito. Quello di un’assemblea illuminata e illuminante, coraggiosa, indipendente, intrepida. Un’assemblea che in un piccolo paese del Nord dell’Europa, una sorta di Svizzera della letteratura, designava i “classici della modernità” con la sicura padronanza di cui solo i grandi esperti sanno dar prova.

Fin dal 1945, l’Accademia svedese non aveva mai cessato di premiare gli autori che a suo parere svolgevano un ruolo di “pionieri della letteratura(1)”: da T.S Elliot, prescelto nel 1948 “per aver rinnovato in modo eminente la poesia contemporanea”, a William Faulkner, insignito del premio nel 1950 , quando era ancora un poco noto al grande pubblico e praticamente sconosciuto nel suo paese  ( a Stoccolma fu definito “il più grande sperimentatore e narratore epico del nostro secolo”); e quindi a Samuel Beckett ( 1969), Claude Simon (1985), e così via.

Questa magistrale attività critica, che non di rado aveva privilegiato le avanguardie internazionali, senza concessioni alle mode né ai successi frettolosi e infondati, è andata di pari passo con l’indipendenza nei confronti dei pubblici poteri. Tranne pochissime eccezioni, il Comitato Nobel è sempre riuscito a non cedere alle istanze e alle pressioni diplomatiche nazionali, europee o internazionali. E ha sempre rivendicato l’adozione di criteri esclusivamente letterari, pur mantenendo tacitamente una linea che potremmo definire progressista.

La prova eclatante di questo orientamento è la distinzione conferita nel 2000 a Gao XingJian: uno scrittore dissidente, naturalizzato francese - il che non poteva non dispiacere alle autorità politiche di Pechino. In altri termini, l’Accademia Svedese ha rifiutato di sottomettersi ai condizionamenti della bassa cultura politica e diplomatica (cosa di cui a volte è stata ingiustamente rimproverata), per prendere in considerazione esclusivamente le prese di posizione letterarie e politiche delle opere e degli autori. In questo senso, ha privilegiato finora piuttosto le posizioni degli esponenti dei ceti dominanti, dei “resistenti”, quali ad esempio il poeta nero Derek e Walcott, anglofono dei Caraibi (1992);la scrittrice nera americana Toni Morrison, (1993); Kenzaburô Oé, romanziere giapponese impegnato (1994); Dario Fo, esponente del teatro italiano sovversivo (1997), o Günter Grass (1999).

Il conferimento del premio Nobel a V.S. Naipaul si pone dunque in contraddizione flagrante con la storia e la tradizione del più importante premio letterario del mondo. È un controsenso, un tradimento dello spirito di questo premio, tanto sul piano letterario che su quello politico. dal punto di vista letterario, lo scrittore prescelto quest’anno non ha mai inventato nulla; si è attenuto alla riproduzione pedissequa di modelli narrativi ereditati dal XIX secolo, distinguendosi per un conformismo letterario mai smentito. Ha battuto tutti i record contemporanei della produzione di libri di taglio giornalistico, di “inchieste” dal vivo, allo scopo dichiarato di descrivere “oggettivamente” la situazione politica e religiosa di vari paesi del terzo mondo. Ma è in ritardo di circa centocinquant’anni sulle ultime innovazioni in materia di estetica letteraria (il suo autore preferito è Balzac, e ovviamente definisce “incomprensibile” l’opera di James Joyce). Il suo stile letterario è accademico, e corrisponde perfettamente alle sue prese di posizione pubbliche, conservatrici e nazionaliste in campo politico.

Di fatto, Naipaul si identifica totalmente con i valori britannici, e si dedica senza riserve a difenderli e a illustrarne la grandezza, come se avesse rinnegato il proprio percorso e rotto qualsiasi legame con il passato. Nato a Trinidad nel 1932 da una famiglia indiana immigrata, di casta elevata ma povera, Naipaul, che si è potuto trasferire a Londra nel 1950 grazie ad una borsa di studio, si sente a tutti gli effetti uno scrittore inglese; e il titolo nobiliare ottenuto nel 1991 rappresenta in qualche modo il corollario di un’assimilazione fervente.

Ne L’Enigma dell’arrivo, lo scrittore parla della sua “seconda nascita”, che fa coincidere con il suo insediamento nel Wiltshire; e descrive la nostalgica avvenenza dei paesaggi di quella regione, le stagioni, i fiori, e soprattutto i castelli, testimoni dell’antica potenza britannica. Questa volontà quasi patetica di far dimenticare la sua origine e il colore della sua pelle spiegano da un lato la sua adesione ai valori dominanti, e il suo simmetrico disprezzo per tutti coloro con i quali con i quali non vuole essere confuso: lavoratori immigrati e abitanti dei paesi più poveri. Di fatto, in uno dei suoi celebri discorsi, pronunciato al Manhattan Institute di New York nel 1991, ha rinnegato pubblicamente e deliberatamente le proprie origini. Ciascuna delle tre parole che compongono il titolo di questa conferenza, “La nostra civiltà universale”, dà l’esatta misura della sua ingenua identificazione con l’Occidente.

Con una sorta di inversione tipica degli immigrati iperintegrati, Sir V. S. Naipaul adotta nei riguardi delle popolazioni del Sud un atteggiamento sprezzante, spianando così la strada alle opinioni più conservatrici e alle posizioni nazionaliste (o differenzialiste) più estreme, in Inghilterra come altrove. In ciascuno dei suoi libri ribadisce questa sorte di tradimento, e sembra sentirsi autorizzato dalla sua duplice appartenenza a parlare in termini nettamente spregiativi dei popoli diseredati in generale, e da quello da cui proviene in particolare.

un procedimento che appare anche più condannabile per la pretesa di obiettività con cui porge ai lettori occidentali (sentendosi ormai “uno di loro”) una descrizione cinica e crudele delle miserie del mondo, spiegando il sottosviluppo in termini “naturalistici” anzichè ricalcarne le causa storiche. Secondo la su tesi, non ci sarebbe via di scampo per le vittime: ogni tentativo di lottare contro la loro condizione sarebbe destinato al fallimento. Questo l’atteggiamento definito da Salman Rushdie “l’olimpico disgusto di Naipaul”, che ha fatto dire ad un altro premio Nobel per la letteratura, Derek Walcott, anche lui di origine caraibica, “Naipaul doesn’t like negroes”.

Ma c’è di peggio. Non contento di diffondere un’ideologia essenzialista ammantata di letteratura, da molti anni Naipaul professa con insistenza il suo odio per l’Islam, che cerca di giustificare con argomenti storici e politici. E, partendo da una tesi inconsistente ma ripetuta e commentata infinite volte nei suoi libri, sostiene ad esempio che “chi si converte [all’Islam] si trasforma in un essere trasparente e culturalmente vuoto”; oppure che “non c’è mai stata colonizzazione più profonda di quella islamica e araba”. Attraverso la religione, le popolazioni colonizzate sarebbero “private di ogni vita intellettuale”, poichè la loro identità è “contenuta nella loro fede”; è perciò che si dovrebbe parlare di un “isterismo musulmano” e di una “tirannia” dell’Islam. E, anzichè denunciare le colpe del sistema coloniale inglese, spiega il declino dell’India con l’imperialismo musulmano, che avrebbe “distrutto il passato”.

Recentemente, Naipaul ha spiegato che in quanto indù appartenente all’elevata casta dei brahmani, aveva incominciato a comprendere la necessità del sistema delle casta in India; e a proposito del partito fascistizzante indù di Shiv Sena ha affermato: “Provo una profonda simpatia per questo tipo di movimenti che provengono dalla base”.

Il conferimento, del tutto inaspettato del premio Nobel per la letteratura a questo scrittore, sarebbe stato difficilmente giustificabile in qualsiasi momento: l’assenza di creatività e di invenzione letteraria dei suoi libri avrebbe dovuto escluderlo a priori dalla rosa dei candidati. Ma in questo tragico momento storico, quando c’è chi non trova di meglio che invocare lo “scontro tra civiltà”, il conferimento del più prestigioso premio letterario del mondo ad un propagandista dell’odio e del disprezzo per l’Islam costituisce uno scandalo insopportabile.