Ho imparato molto presto che la guerra crea una sua cultura. La furia della
battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché anche la
guerra è una droga, un tipo di droga che ho mandato giù per molti anni. A
spacciarla sono coloro che ne creano il mito - storici, corrispondenti di
guerra, cineasti, romanzieri e Stati -, tutti pronti a conferirle qualità che
spesso possiede veramente: capacità di eccitare, gusto dell'esotismo, potere,
possibilità di migliorare il proprio modesto rango sociale, e un universo
bizzarro e fantastico dotato di una sua bellezza tetra e grottesca. La guerra
domina la cultura, altera la memoria, corrompe la lingua e infetta tutto ciò
che la circonda, persino l'umorismo, ossessionato da sinistre perversioni e
dalla pornografia della morte. I grandi interrogativi sul senso, o sulla
mancanza di senso, della nostra vita nel pianeta appaiono in tutta la loro
crudezza quando vediamo chi ci sta intorno sprofondare negli abissi più cupi.
La guerra mette a nudo il potenziale di malvagità che si annida appena sotto
la superficie in ciascuno di noi. Ed è per questo che molti, dopo, trovano
così difficile parlarne.
La guerra conserva la sua forza di attrazione perché, malgrado le distruzioni
e i massacri, può darci quello che veramente desideriamo. Può darci uno
scopo, un senso, una ragione di vivere. Solo stando in mezzo a un conflitto
la meschinità e l'insulsaggine di tanta parte della nostra vita ci appaiono
evidenti. La banalità domina le nostre conversazioni e spesso, sempre più
spesso, invade anche l'etere. E la guerra diventa un elisir inebriante. Ci
rende decisi, ci offre una causa. Ci permette un quarto di nobiltà. E quelli
che attribuiscono scarso significato alla loro esistenza - i profughi
impoveriti di Gaza, i nordafricani senza diritti che emigrano in Francia,
persino le schiere di giovani che vivono nella splendida indolenza e
sicurezza del mondo industrializzato - sono tutti molto sensibili al fascino
della guerra.
Chi fa la guerra lo fa per tante ragioni, anche se, pubblicamente, non si è
mai disposti a riconoscerne molte.
La rivolta palestinese non puntava soltanto ad allontanare gli israeliani da
Gaza e dalla Cisgiordania, ma anche a schiacciare l'élite urbana, i
negozianti e gli uomini d'affari di Gerusalemme Est e di Gaza città. Gli
"scioperi" organizzati dagli shabab, i giovani che istigarono la
rivolta dai campi profughi, danneggiarono la comunità palestinese molto più
di quella israeliana. In Bosnia successe lo stesso: la rabbia della gente era
rivolta contro una gerarchia comunista che conservava i suoi privilegi e le
sue prerogative persino quando il potere ormai le stava sfuggendo di mano in
uno Stato avviato verso la dissoluzione. I diseredati difficilmente perdonano
chi non riesce a esercitare il potere ma arraffa ricompense esorbitanti. I
despoti possono essere capiti, persino tollerati, ma i parassiti è difficile
che durino a lungo.
La guerra è una crociata. Il presidente George W. Bush non esita ad ammonire
gli altri paesi che devono schierarsi con gli Stati Uniti nella guerra al
terrorismo se non vogliono essere assimilati a coloro che ci sfidano. Anche
questo è un jihad. Eppure noi americani ci troviamo nella pericolosa
condizione di fare la guerra non a uno Stato ma a un fantasma. Lo jihad in
cui ci siamo imbarcati punta a sgominare un nemico sfuggente e proteiforme.
La battaglia che abbiamo iniziato è interminabile. Ma potrebbe essere troppo
tardi per fermare la sua retorica magniloquente. Abbiamo intrapreso una lotta
donchisciottesca così come lo è quella lanciata per distruggerci.
"Andiamo avanti", ci assicura il presidente Bush, "per
difendere la libertà e tutto ciò che è buono e giusto al mondo".
I vessilli patriottici e le bandiere americane proliferate sulla scia degli
attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono sono stati il nostro pilastro
nella guerra scatenata contro "l'asse del male". Funzionari scelti,
celebrità e conduttori televisivi si sono messi in fila per presentarsi
all'appello. Venerdì 14 settembre 2001, tre giorni dopo gli attacchi, il
Congresso ha riconosciuto al presidente il diritto di "usare tutta la
forza necessaria e appropriata contro paesi, organizzazioni o persone che a
suo giudizio hanno pianificato, autorizzato, compiuto o facilitato gli
attacchi terroristici". La risoluzione è stata approvata dal Senato
all'unanimità. Alla Camera dei Rappresentanti c'è stato un solo voto
contrario, quello di Barbara J. Lee, una democratica della California la
quale ha fatto sentire il suo monito ricordandoci che un'azione militare non
poteva garantire la sicurezza del paese e che "durante l'azione dobbiamo
sforzarci di non diventare noi stessi il male che deploriamo".
Quando assumiamo la droga della guerra proviamo esattamente ciò che provano i
nostri nemici, compresi quei fondamentalisti islamici che definiamo alieni,
barbari e incivili. E lo stesso narcotico che anch'io ho consumato per anni.
E come per ogni tossicodipendente in fase di recupero, una parte di me
continua ad avere nostalgia della semplicità e dell'euforia della guerra;
anche se lotto ancora con le cicatrici che ha lasciato dietro di sé, piango
le morti delle persone con cui ho lavorato e mi tormento per la ferocia che
avrei fatto meglio a non vedere di persona. C'è una parte di me - ma forse è
una parte di molti di noi - che in certi momenti avrebbe preferito morire
così, piuttosto che tornare al tran tran della vita quotidiana. Vivere per un
momento intenso ed esaltante, anche se significava dimenticarsi di tutto e di
tutti: sembrava che ne valesse la pena nell'ardore della guerra - e molto
stupido a guerra finita.
Chris Hedges è stato per quindici anni
corrispondente di diverse testate, tra cui il "New York Times" e il
"Dallas Morning Newsd". Insegna Giornalismo presso la New York
University e ha ottenuto vari riconoscimenti. L'ultimo,
nel 2002, è stato l'"Amnesty International Global Award for Human
Rights".
|