La droga della guerra

Chris Hedges


 


Ho imparato molto presto che la guerra crea una sua cultura. La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché anche la guerra è una droga, un tipo di droga che ho mandato giù per molti anni. A spacciarla sono coloro che ne creano il mito - storici, corrispondenti di guerra, cineasti, romanzieri e Stati -, tutti pronti a conferirle qualità che spesso possiede veramente: capacità di eccitare, gusto dell'esotismo, potere, possibilità di migliorare il proprio modesto rango sociale, e un universo bizzarro e fantastico dotato di una sua bellezza tetra e grottesca. La guerra domina la cultura, altera la memoria, corrompe la lingua e infetta tutto ciò che la circonda, persino l'umorismo, ossessionato da sinistre perversioni e dalla pornografia della morte. I grandi interrogativi sul senso, o sulla mancanza di senso, della nostra vita nel pianeta appaiono in tutta la loro crudezza quando vediamo chi ci sta intorno sprofondare negli abissi più cupi. La guerra mette a nudo il potenziale di malvagità che si annida appena sotto la superficie in ciascuno di noi. Ed è per questo che molti, dopo, trovano così difficile parlarne.
La guerra conserva la sua forza di attrazione perché, malgrado le distruzioni e i massacri, può darci quello che veramente desideriamo. Può darci uno scopo, un senso, una ragione di vivere. Solo stando in mezzo a un conflitto la meschinità e l'insulsaggine di tanta parte della nostra vita ci appaiono evidenti. La banalità domina le nostre conversazioni e spesso, sempre più spesso, invade anche l'etere. E la guerra diventa un elisir inebriante. Ci rende decisi, ci offre una causa. Ci permette un quarto di nobiltà. E quelli che attribuiscono scarso significato alla loro esistenza - i profughi impoveriti di Gaza, i nordafricani senza diritti che emigrano in Francia, persino le schiere di giovani che vivono nella splendida indolenza e sicurezza del mondo industrializzato - sono tutti molto sensibili al fascino della guerra.
Chi fa la guerra lo fa per tante ragioni, anche se, pubblicamente, non si è mai disposti a riconoscerne molte.
La rivolta palestinese non puntava soltanto ad allontanare gli israeliani da Gaza e dalla Cisgiordania, ma anche a schiacciare l'élite urbana, i negozianti e gli uomini d'affari di Gerusalemme Est e di Gaza città. Gli "scioperi" organizzati dagli shabab, i giovani che istigarono la rivolta dai campi profughi, danneggiarono la comunità palestinese molto più di quella israeliana. In Bosnia successe lo stesso: la rabbia della gente era rivolta contro una gerarchia comunista che conservava i suoi privilegi e le sue prerogative persino quando il potere ormai le stava sfuggendo di mano in uno Stato avviato verso la dissoluzione. I diseredati difficilmente perdonano chi non riesce a esercitare il potere ma arraffa ricompense esorbitanti. I despoti possono essere capiti, persino tollerati, ma i parassiti è difficile che durino a lungo.
La guerra è una crociata. Il presidente George W. Bush non esita ad ammonire gli altri paesi che devono schierarsi con gli Stati Uniti nella guerra al terrorismo se non vogliono essere assimilati a coloro che ci sfidano. Anche questo è un jihad. Eppure noi americani ci troviamo nella pericolosa condizione di fare la guerra non a uno Stato ma a un fantasma. Lo jihad in cui ci siamo imbarcati punta a sgominare un nemico sfuggente e proteiforme. La battaglia che abbiamo iniziato è interminabile. Ma potrebbe essere troppo tardi per fermare la sua retorica magniloquente. Abbiamo intrapreso una lotta donchisciottesca così come lo è quella lanciata per distruggerci.
"Andiamo avanti", ci assicura il presidente Bush, "per difendere la libertà e tutto ciò che è buono e giusto al mondo".
I vessilli patriottici e le bandiere americane proliferate sulla scia degli attacchi alle Torri gemelle e al Pentagono sono stati il nostro pilastro nella guerra scatenata contro "l'asse del male". Funzionari scelti, celebrità e conduttori televisivi si sono messi in fila per presentarsi all'appello. Venerdì 14 settembre 2001, tre giorni dopo gli attacchi, il Congresso ha riconosciuto al presidente il diritto di "usare tutta la forza necessaria e appropriata contro paesi, organizzazioni o persone che a suo giudizio hanno pianificato, autorizzato, compiuto o facilitato gli attacchi terroristici". La risoluzione è stata approvata dal Senato all'unanimità. Alla Camera dei Rappresentanti c'è stato un solo voto contrario, quello di Barbara J. Lee, una democratica della California la quale ha fatto sentire il suo monito ricordandoci che un'azione militare non poteva garantire la sicurezza del paese e che "durante l'azione dobbiamo sforzarci di non diventare noi stessi il male che deploriamo".
Quando assumiamo la droga della guerra proviamo esattamente ciò che provano i nostri nemici, compresi quei fondamentalisti islamici che definiamo alieni, barbari e incivili. E lo stesso narcotico che anch'io ho consumato per anni. E come per ogni tossicodipendente in fase di recupero, una parte di me continua ad avere nostalgia della semplicità e dell'euforia della guerra; anche se lotto ancora con le cicatrici che ha lasciato dietro di sé, piango le morti delle persone con cui ho lavorato e mi tormento per la ferocia che avrei fatto meglio a non vedere di persona. C'è una parte di me - ma forse è una parte di molti di noi - che in certi momenti avrebbe preferito morire così, piuttosto che tornare al tran tran della vita quotidiana. Vivere per un momento intenso ed esaltante, anche se significava dimenticarsi di tutto e di tutti: sembrava che ne valesse la pena nell'ardore della guerra - e molto stupido a guerra finita.

 


Chris Hedges è stato per quindici anni corrispondente di diverse testate, tra cui il "New York Times" e il "Dallas Morning Newsd". Insegna Giornalismo presso la New York University e ha ottenuto vari riconoscimenti. L'ultimo, nel 2002, è stato l'"Amnesty International Global Award for Human Rights".


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