La leggenda di Roma, come tutte le leggende che servono a nobilitare
la nascita di città famose, è stata il frutto di una lunga elaborazione. Il
suo nucleo originario era semplice: un figlio di Giove, un eroe, un tale
Romo, l'avrebbe fondata, dandole il suo nome. Era evidentemente una storia un
po' troppo povera. E quindi si arricchí progressivamente di racconti che
pretendevano, sia pure senza rinunciare all'origine divina, a radicarla in un
mito storico illustre: quello dei greci e dei troiani. Della grande tragedia
di Troia pochissimi erano gli eroi sopravvissuti. E di questi, due avevano
molto viaggiato, dopo la fine della guerra, Ulisse ed Enea. Ecco i magnifici
candidati a un approdo sulle coste laziali, per annodare le antiche alle
nuove glorie: Ulisse sul promontorio di Circe, Enea un po' piú su. Ad ambedue
fu attribuita una discendenza latina. Ne emerse vittorioso Enea, forse per la
sua piú diretta ascendenza divina (da Venere). Cosí, quel Romo o Romolo gli
fu prima attribuito come figlio; e poi, quando emerse una chiara
incompatibilità cronologica, come pronipote, attraverso una progenie di re
latini e albani. Cosí Virgilio, il rifinitore della leggenda, poté
allacciarsi felicemente a Omero, nel secolo aureo di Augusto.
Ma la leggenda aurea aveva un risvolto molto meno edificante e piú
psicanalitico, che il meno agiografico e piú scettico Plutarco raccontò senza
complessi. Secondo quella versione, del tutto ignara del pio Enea, il re
della città latina di Albalonga, Tarchezio, una notte è svegliato di
soprassalto dai famigli perché un orrendo membro si libra immenso e pulsante
nel tablino, giù da basso. Il re, che era un latino collaborazionista degli
etruschi, consulta i loro indovini. La risposta è chiara: quello è il grande
spirito del dio del fuoco latino, il grande Marte, che adirato per il
comportamento antinazionale del re, vuole generargli un successore autentico,
e ha scelto questo modo un po'anomalo. Il responso etrusco è astuto, come
erano gli etruschi: il re non frapponga ostacoli, ma, anzi, compiaccia il
grande intruso mandandogli una vergine. Il re è perplesso: forse gli etruschi
lo stanno abbandonando per venire a patti con il dio irato? E per salvare il
regno chiede alla giovane figlia di sacrificarsi per il bene della patria:
così diventerà nonno del nascituro, il che potrà ammorbidire il piano di
Marte. La giovane però non ne vuole sapere di quel coso solitario e
arrogante, e convince una schiava a sostituirla. La prova riesce tanto bene
che dopo nove mesi nascono non uno ma due maschietti. Il nonno è costernato,
e anche gli indovini. Chi dei due è il predestinato? Da chi bisogna
difendersi? Come si vede, Marte non è stato meno astuto degli indovini
etruschi. Per non recare offesa al dio, ma neppure correre rischi, Tarchezio
decide di lasciare la decisione al Tevere, facendo depositare i neonati in
una cesta galleggiante sul fiume. Qui le versioni collimano ma per divergere
subito dopo. Infatti, man mano che i due bimbi raccolti da una lupa (così si
chiamavano allora le prostitute) crescono, diventa sempre piú evidente che
Remo è il vero predestinato, è il campione latino, il vendicatore della
razza, il liberatore dei latini dal dominio etrusco, il prescelto a fondare
sulla riva sinistra del Tevere la città nuova, che dovrà chiudere agli
etruschi la porta della pianura laziale. Romolo è il piú debole ma anche il
piú astuto. Lascia che sia Remo a sbarazzarsi del re di Albalonga e si mette
d'accordo segretamente con gli etruschi per far fuori subdolamente l'onesto
Remo in una delle piú famose contese fraterne della storia. Ingannandolo
sull'esito della gara concordata (chi avesse visto per primo gli avvoltoi
nella Valle Murcia tra l'Aventino e il Palatino, dove piú tardi sorse il
Circo Massimo) ne provoca l'ira, il fatale passaggio del solco che lo sleale
vincitore sta tracciando e il successivo assassinio, perpetrato da un sicario
etrusco con un colpo di zappa sulla testa.
Come si può capire, questa non era una versione lusinghiera per le origini
della capitale del mondo. Tanto piú che Romolo, protetto dagli etruschi, fu
praticamente espulso dalla comunità delle altre città latine e costretto a
dare asilo, per popolare la nuova città, a ogni sorta di banditi. I romani si
inventarono un nuovo dio, il Dio Asilo, cui fu dedicato un tempio eretto
esattamente dove è ora la piazza michelangiolesca del Campidoglio, tra due
boschetti, che sono ora il palazzo capitolino e quello senatorio. E rapirono
le fanciulle sabine, perché nessuna ragazza era volontariamente disponibile a
vivere in quella città esecrata.
Lo stesso Romolo, secondo la leggenda, fu vittima di quella sua città
violenta e dissoluta. Insofferenti della sua prepotenza, gli anziani lo
fecero a pezzi; e temendo la reazione della sua gente, si divisero tra loro i
pezzi e li nascosero sotto le toghe, raccontando poi che il re era volato
via, assunto in cielo, dove il dio Marte lo aspettava.
Leggende così fosche tradiscono condizioni di particolare turbolenza. E
questa nasce forse dalla posizione nevralgica della nuova città, alle
frontiere di due civiltà - l'etrusca e l'italica - e all'incrocio di due
importanti vie commerciali, quella est-ovest del sale, tra il Tirreno e i
monti della Sabina; e quella nord-sud, dalla Toscana etrusca alla Campania
greca, sulla quale transitavano altre due preziose merci: il ferro e gli
schiavi.
(Tratto dal saggio Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi,
Torino, 2004.)
Giorgio Ruffolo (Roma, 1926) è stato segretario
generale della programmazione economica negli anni Sessanta e ministro
dell'Ambiente dal 1987 al 1992; deputato e senatore al Parlamento italiano, è
oggi deputato al Parlamento europeo. Dal 1994 è presidente del Centro Europa
Ricerche. È stato tra i fondatori della rivista "Micromega". Ha
pubblicato anche La grande impresa nella società moderna (1971) e Cuori
e denari (1999).
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