Uno dei libri che
ultimamente mi hanno più coinvolto e stimolato riflessioni, sia sulla fase
storicosociale attuale, sia sul fare poesia oggi, non è di poesia. È
intitolato L'epoca delle passioni tristi, è di due psichiatri
francesi (Miguel Benasayag e Gerard Schmit), ed è stato pubblicato da qualche
mese da Feltrinelli1. Una delle idee portanti di questo libro è il
rilievo che l'orizzonte temporale e sociale di questi ultimi decenni da futuro-promessa
si è trasformato sempre più in futuro-minaccia.
Sembra una banalità scontata ed evidente, eppure è uno dei mutamenti epocali,
di cui la nostra cultura pare non abbia colto minimamente il segno e la
gravità: ogni "visione ottimistica è crollata. Dio è davvero morto e i
suoi eredi (scienza, utopia e rivoluzione) hanno mancato la promessa.
Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, disastri economici,
comparsa di nuove malattie, esplosione di violenza, forme di intolleranza,
radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra hanno fatto precipitare
il futuro dall'estrema positività della tradizione giudaico-cristiana
all'estrema negatività", dice in un suo commento al libro Umberto
Galimberti (La Repubblica del 7/8/04).
L'attuale contesto storicoculturale, dai caratteri tragici e grotteschi al
tempo stesso della fase globalizzata dell'estremo sviluppo capitalistico, è
dominata da un potere e un pensiero unico - fondati sull'utile
economico - rispetto ai quali ogni ipotesi elaborata dal pensiero sistematico
occidentale, religioso o laico che sia, appare collassata e incapace di
costruire alternative. La stessa scienza produce continue e contraddittorie
proliferazioni teoriche, di cui resta il trionfo tecnologico, crono
contemporaneo che mangia se stesso e noi in una incessante e (spesso)
insensata frenesia innovatrice.
L'incapacità della cultura occidentale di produrre una critica reale alle
dinamiche in atto, non fanno che renderle ancora più angoscianti e
minacciose, considerati i crescenti disegni e stati di guerra senza fine, la
sempre più folle e squilibrata distribuzione della ricchezza tra i popoli
della Terra, le derive apocalittiche annunciate da crepe e disastri
nell'equilibrio ambientale.
In relazione a tutto questo "la nostra società ha prodotto una specie di
ideologia della crisi, un'ideologia dell'emergenza", che "si è
insinuata a ogni livello, dallo spazio pubblico alle sfere più intime e
private…Questa ideologia di ripiego, però, non è una 'narrazione' o una
cosmogonia completa…, ma si rivela un 'patch-work', una sorta di stampella
che consente di fare 'come se le cose funzionassero ancora nonostante la
crisi." E "tra gli 'ideali patchwork' che si sostituiscono alle
speranze della modernità e che si sforzano di nascondere la crisi", c'è
in primo luogo la rimozione di questo "passaggio dal desiderio alla
minaccia".
Stampelle o toppe di vario tipo sono di volta in volta proposte da politici,
ambienti scientifici, vari gruppi di base, che tra denunce fondate o pretese
risibili provano a riprendere in mano la coperta a brandelli della storia
contemporanea. Purtroppo prevalgono tendenze disgreganti e differenzialismi,
di parti che pretendono di incarnare il tutto. La capacità di considerare il
molteplice senza subordinarlo agli interessi o alla visione di una parte,
resta utopica. Per cui è facile la ricaduta in derive ideologiche violente o
inconsistenti.
Appare un ribollio che non riduce perdita di senso e paure, che tendono a
produrre in tutti i soggetti - compresi quelli che si occupano di cultura e
di scrittura poetica in particolare - spinte regressive autocentrante, in cui
la pulsione epistemofilica, anziché sviluppare desiderio di conoscenza del
mondo esterno (quella che Freud chiama libido oggettuale), tende a
regredire verso una libido narcisistica. I corollari sono logiche
individualistiche, con chiusure, supponenze, spinte contraddittorie tra
frustrazioni e deliri di onnipotenza, che tendono a occupare il posto
lasciato vuoto da Dio, ma non cancellano quel dolore di fondo, come dice
Duchamp, "degli uomini quando non si sentono adeguati o non vedono
concrete corrispondenze con i propri sogni". Tutto tende a
regredire verso una cultura (che è sottocultura) della sopravvivenza, con
relazioni basate sullo scontro di tutti contro tutti, anziché sull'incontro,
nonostante i diluvi di discorsi sull'ascolto.
Ma il libro non si limita a fare un catalogo apocalittico dei circoli viziosi
che le "cose della logica" dominante inducono nella "logica
delle cose". Gli autori commentano a tale proposito che
"bisognerebbe forse ricordare il consiglio Karl Marx" (p.72) di non
confondere le prime con la seconda. E passa credo da tale lucida distinzione
la ricerca di ipotesi di prassi alternative, per resistere alla
"tentazione" di "farsi sedurre dal canto delle sirene della
disperazione, assaporare l'attesa del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte
apocalittica" (p.127). Di qui le proposte, non tanto di soluzioni (che
sarebbe risibile), di direzioni verso cui procedere, indicazioni pratiche più
che teoriche, a livello singolo e collettivo - dalle prassi cliniche alla
rete delle relazioni personali.
Che si tratti di sintomi di disagi ordinari relativi al cibo o al sesso
(anoressie, depressioni, impotenze), o patologie più o meno gravi (con
tendenze autodistruttive, ossessioni paranoiche, stati schizoidi), "la
nostra preoccupazione principale non sarà quella di eliminare al più presto i
sintomi, ma di tentare piuttosto di comprenderne il senso all'interno della
molteplicità della persona", del posto che in essa "vi occupa il
sintomo" (pp.82-83)
Gli autori sono psichiatri, che però non puntano a scorciatoie in pillole,
della felicità (Valium) o dell'ubbidienza (Ritalin) per normalilizzare o
ridurre il disturbo, prima di tutto alla macchina economico-sociale.
La scelta di "passare attraverso il riconoscimento della
molteplicità della persona" implica muoversi verso una clinica
del legame, nella convinzione che "lo schiavo è colui che non ha
legami", che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in
diversi modi. L'uomo libero è invece colui che ha molti legami…verso la città
e verso il luogo in cui vive". (p.101)
Molteplicità e legame implicano un concetto di libertà e autonomia della
persona, opposto a quello fondato "sul dominio", per il quale
"libero è colui che domina". Non possono che derivarne
solitudini armate, paure, tristezze e deliri di onnipotenza. La direzione
opposta sta in relazioni che rifondino il senso di una comunità, in cui il
rispetto e l'ascolto siano reali e non solo declamati o strumentali alla
propria affermazione individualistica. Sono tali relazioni che resistono alle
prevalenti tendenze disgreganti, generando pratiche gioiose e rinnovata
energia umana.
È nelle relazioni capaci di tale ri-creazione che sentiamo (prima di ogni
razionalizzazione) la profonda congiunzione di gioia e fragilità con senso
etico, del limite e del sacro, nodi fondati sui nostri limiti, in primo luogo
sul non sapere "mai di cosa è capace un corpo", come diceva
Spinoza. L'ammissione di "non-sapere" è umus di terreno di ricerca,
bisogno di "tempo condiviso…nel quale tutti dipendiamo dagli
altri"; che "non è una condanna né un limite", ma "la
base…delle passioni gioiose" (come diceva ancora Spinoza) e
dello sviluppo delle "mille e una potenzialità di ognuno di noi"
(pp.116-117). Non si tratta dunque di concettualizzare un atteggiamento politically
correct o buonista, ma di fare pratiche opposte a quelle derivanti
dall'ideologia imperante dell'utilitarismo e del successo, per la quale
"la sola cosa sacra è la merce" (p.97).
1 Traduzione dal francese di
Eleonora Missana - Titolo dell'opera in originale Le passion
tristes,souffranse psychique et crise sociale. Èditions La
Découverte, Paris 2003.
C'è ancora la
borghesia?
Le considerazioni fin
qui fatte richiamano in altri modi molti dei punti approfonditi da Donatella
Bisutti, nel suo bell'articolo sul numero di settembre-ottobre di Odissea.
Concordo sulla necessità di ripensare molte categorie mentali della cultura
occidentale; sia quelle più generali come spazio e tempo, sia quelle
diventate solo gusci ideologici, quali, libertà, democrazia ecc..
C'è solo un punto su cui non mi sono trovato d'accordo, e che credo sia
importante precisare, proprio per evitare ulteriori perdite della nostra
capacità di "leggere e reggere la realtà". Questo punto riguarda la
parola borghesia. Donatella dice: "la borghesia non
c'è più".
Credo che il vecchio Marx possa a tale proposito soccorrere. Se per borghesia
è valido, come credo, il riferimento alla detenzione di mezzi di produzione,
tramite i quali viene gestita forza-lavoro altrui, mi pare indubbio che tale
classe ci sia ancora. Lo sviluppo della fase attuale o estrema del
capitalismo (post-industriale o globalizzata che dir si voglia) ha solo
cambiato i caratteri delle varie classi. Nella sua fase iniziale, finché è
esistita una classe nobile, la borghesia è stata la classe rivoluzionaria, la
classe media che è diventata nell'arco di tre secoli quella dominante.
Emarginata e poi ridotta a residui insignificanti la classe nobile, erosi con
lo sviluppo tecnologico gli addetti all'agricoltura, la borghesia ha
conformato alle sue fasi di sviluppo, la struttura delle classi sociali. Al
proprio interno, si sono costituiti livelli diversi di piccola, media e
grande borghesia; all'esterno, una classe media impiegatizia o di addetti ai
servizi necessari alla macchina produttiva, cui seguiva la classe operaia,
anch'essa suddivisa in vari strati.
Questa struttura, qui rozzamente sintetizzata per ragioni di spazio, non è
mai stata stabile, ma negli ultimissimi decenni ha avuto trasformazioni, in
relazione alle accelerazioni della fase estrema in cui siamo. Fase che ha
accentuato il processo di concentrazione finanziaria, spostato interi settori
produttivi nel Sud del Mondo, accelerato la circolazione globalizzata di
risorse, forza lavoro e merci.
I Paesi più sviluppati dell'Occidente si sono trasformati sempre più in sedi
del terziario avanzato, con un padrone classico e una classe operaia sempre
meno visibili, e una classe media diventata prevalente. Tuttavia, sono forse
meno visibili nella parte di mondo in cui siamo noi, e all'interno dell'immagine
delle città industriali così come configurate fino agli anni '70. Ma che nome
dare ai detentori di mezzi finanziari e produttivi che decidono dove e come
collocarli nelle varie aree mondiali? Come chiamare i gruppi di potere
occidentale che decidono una guerra dietro l'altra - giustificate da
necessità umanitarie o da lotta al terrorismo - per continuare a garantirsi
il controllo di questa o quella risorsa?
La classe operaia, pur ridotta, esiste ancora anche da noi, magari con un
colore di pelle diverso dal nostro. Se altri sono stati spinti ad
attraversare mari, lo stesso sviluppo ha dilatato le funzioni sociali ed
economiche svolte dalla classe media. Ma non possiamo dire che quest'ultima è
la nuova borghesia. Se continuiamo a chiamarla, giustamente, classe media, media
rispetto a chi?
È invece giusto dire che la sua odierna dimensione quantitativa, la pone a
rischio nei momenti di crisi di "un progressivo livellamento verso il
basso", e le fa inevitabilmente contenere strati che sono - per livello
retributivo - proletari. Tendenze riscontrabili in Paesi del Sud del mondo,
come in quelli avanzati dell'Occidente.
Credo tuttavia che risieda in tali rischi e tendenze, la capacità di una
parte di classe media di rendersi culturalmente autonoma rispetto all'ideologia
del pensiero unico, o ideologia della fine delle ideologie,
anch'essa presente e dominante, e resa invisibile ai più al pari di chi la
produce, come l'aria o il pensiero più naturale del mondo.
Qualche estensione al fare poetico
Se collochiamo in tale
acme storicoculturale anche il fare poetico, si possono capire meglio alcuni
suoi aspetti e limiti, e forse aiutare a ripensarli e superarli. È utile
ricordare che il fare poetico in origine è congiungere, in primo
luogo suono ritmi immagini senso. Il poeta era colui che dava il nome alle
cose, soggetto sociale che riduceva le distanze tra cose e segni, facendo di
essi materia di conoscenza della realtà e legami tra i componenti di una
comunità. Un fare, dunque, tutt'altro che intimistico e teso ad appagarsi di
sé, o di una catarsi che lascia le cose come sono; che pone il problema della
comunità, della sua qualità, del desiderio di vita e di un futuro meno
minaccioso.
Gli sviluppi della struttura del potere e della filosofia rivendicarono la
Verità e del poeta venne fatto un emarginato, un cieco e un folle, un idiota
con senso spregiativo, dimenticando che tale termine ha la stessa radice di
idioma, acqua che lega i soggetti di una comunità e che può sprigionare la
sua energia creativa se ci si immerge in essa con l'atteggiamento (ecco il poiein)
di chi sa che non può avere una verità costruita a priori. Che, per questo
pone domande (più che dare risposte) e cerca relazioni disarmate, di
conoscenza e d'amore, di prassi gioiosa fuori da ogni logica utilitaria o di
potere.
La situazione prevalente, da un lato è frontalmente opposta a tali pretese,
tanto da farle facilmente apparire ingenue, ridicole o fuori dalla realtà;
dall'altro è arrivata a soglie talmente gravi che spiega forse il notevole
aumento nell'ultimo decennio di scriventi poesia - un mare affollato
quanto frammentato e spesso rissoso al proprio interno. È un intreccio di
necessità contrapposte, in cui anche il fare poetico è spinto in circoli
viziosi di logiche autocentrate, di supponenze ossessionate di sé e della
propria visibilità, di circuiti che tendono a essere autoreferenziali, perché
senza una crescita di lettori, chi scrive è portato ad appagarsi di referenti
che sono sostanzialmente altri scriventi. Lo scambio con l'altro da sé c'è
poco, e questo riduce o finisce per porre su un piano secondario la
possibilità di dire il nuovo che attende di essere messo in comune, da voci
capaci di parlare a scriventi e non scriventi.
Per dire la verità di questo nuovo non basta evidentemente agire sulla
pagina. Questa mette in comune quanto più fa sentire il grido della mancanza
o il respiro di ripresa della nostra globalità, degli attimi orgasmatici di
rinascita, che le relazioni gioiose ci regalano. La loro memoria ed
esperienza sono fonte di poesia-di-carne, che spinge a inventare parole di un
grido che non potrà mai essere tra-dotto senza essere tradito.
È il nodo del rapporto verità-finzione della poesia, la quale più che verità
stabile o (ricordando Rimbaud) illuminazione di luoghi del mondo, è
testimonianza di un mondo che "rende percepibile
l'irrappresentabile"2, quale è la nostra totalità. È
questo l'indicibile e la verità inseguiti, la realtà che non può essere
rappresentata, ma che chiede di essere. In una forma che implica qualità non
esauribili e definibili solo da un punto vista letterario. Detto in altri
termini, la crisi che viviamo dona a chi la sa cogliere, la necessità di
coinvolgere altre discipline e, pur in modi nuovi, la responsabilità
etico-civile del gesto di scrivere.
2 C. Viviani, Pensieri di
poetica, in "Gradiva", Nr 25, Spring 2004.
Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise
nel 1940, vive a Milano. Ha pubblicato: La vita nonostante, Studio
d'Autore, Milano 1978; Strappi e frazioni, Libroitaliano, Ragusa
1997; La casa sospesa, Novi Ligure 2003; e la raccolta antologica La
piuma e l'artiglio, Editoria&spettacolo, Roma 2006. Tra le
pubblicazioni d'arte: Spazi e tempi del fare, con acrilici di Romolo
Calciati e prefazioni di Eleonora Fiorani e Gio Ferri, Studio Karon, Novara
2002; Sontuosi accessi - superbo sole, con disegni di Ibrahim Kodra,
Signum edizioni d'arte, Milano 2003; Labirinti e capricci della passione,
con acrilici e tecniche miste di Romolo Calciati e prefazione di Mario
Lunetta, Milanocosa, Milano 2005. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, che
hanno scritto brani ispirati da sue poesie, ha realizzato concerti di musica
e poesia.
È presente in molti Siti on-line e raccolte antologiche e collabora a riviste
e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest'ultimo versante, ha
pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi Terziaria, Milano
2001, Premio nel 2001 del Laboratorio delle Arti di Milano, sez. saggistica.
È tra i saggisti del Gruppo redazionale che ha curato, insieme a Gabriela
Fantato, Sotto la superficie - quaderno di approfondimento sulla
poesia contemporanea de "La Mosca di Milano", Bocca Editori, Milano
2004.
Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it),
Associazione Culturale con cui ha realizzato numerose iniziative. Tra queste:
"Scritture/Realtà - Linguaggi e discipline a confronto",
di cui ha curato con Rosemary L. Porta gli Atti, Milanocosa 2003;
"Bunker Poetico" in collaborazione con M. N. Rotelli alla
49a Biennale d'Arte di Venezia, giugno 2001, di cui ha curato con G. Guidetti
la raccolta Poesia in azione, Milanocosa, Milano 2002; la 1^
Carovana Nazionale di Poesia e Musica (21-31 marzo 2003), promossa e
coordinata con Anna Santoro e Maria Jatosti; evento col patrocinio del
presidente della Repubblica e dell'UNESCO in corrispondenza della Giornata
Mondiale della Poesia del 2003. Ha curato con F. Squatriti 7 parole del
mondo contemporaneo, libro di Poesia, Arti visive, Musica e altre
discipline, Milanocosa ed ExCogita, Milano 2005.
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