Marais Van der Vyver ha sparato a uno dei
suoi braccianti, l'ha ucciso. Un incidente, non passa giorno senza che
succeda qualche disgrazia per colpa delle armi - bambini che fanno giochi
fatali con la rivoltella del padre nelle grandi città dove le pistole al
giorno d'oggi sono oggetti di uso domestico, incidenti di caccia come questo,
in campagna - questi ultimi però non fanno il giro del mondo. Ma Van der
Vyver sa che il suo lo farà. Sa che la storia dell'agricoltore afrikaner -
leader del Partito in quella regione e Comandante dell'unità di sicurezza
locale - che spara a un suo lavorante, un nero, calzerà a pennello la loro
versione del Sudafrica, sembra fatta apposta per loro. La useranno per le
loro campagne di austerità e boicottaggi, costituirà un'ennesima prova della
loro verità sul paese. I giornali locali racconteranno la vicenda usando la
versione dei giornali stranieri, e a poco a poco lui e il nero combaceranno
con le figure semplicistiche degli slogan anti-apartheid, con le cifre delle
statistiche sulla brutalità dei bianchi nei confronti dei neri fornite dalle
Nazioni Unite - e lui sarà allegramente definito "un esponente di primo
piano" del Partito al governo.
La gente della comunità agricola sa quel che deve provare. Come se non
bastasse aver ucciso un uomo, ha pure reso un servizio ai nemici del Partito,
del governo, del paese. Si rendono tutti conto di questa verità. Leggendo i
giornali domenicali, quando arrivano al punto in cui Van der Vyver afferma di
essere "terribilmente scioccato", di "volersi prendere cura
della moglie e dei figli", sanno che nessun americano o inglese gli
crederà e neppure nessuno di coloro che in patria vogliono distruggere il
potere dei bianchi. E come lo scherniranno quando, parlando del boy (secondo
un giornale, se ci si può fidare di certi giornalisti), dichiara addirittura:
"Era un mio amico, lo portavo sempre a caccia con me". Quella gente
di città e d'oltremare non sa che è vero: gli agricoltori di solito hanno un
boy preferito, che amano portarsi dietro quando fanno il giro delle loro
terre; puoi definirlo una specie di amico, sì, amici non sono solo i bianchi
come te, quelli che inviti a casa tua, con cui preghi in chiesa e lavori nel
comitato del Partito. Ma come fanno gli altri a saperlo? Non vogliono
saperlo. Pensano che tutti i neri siano delle linguacce, come gli agitatori
delle città. E la faccia di Van der Vyver nelle foto, così singolarmente
dilatata dal dolore - tutti nella zona ricordano Marais Van der Vyver da
piccolo, se sorprendeva qualcuno a sorridergli scappava via a nascondersi, e
tutti sanno com'è ora, sanno che è un uomo che nasconde ogni cambiamento
d'espressione della bocca dietro un paio di baffi folti e morbidi, e ogni
mutamento degli occhi fissando sempre qualche oggetto che tiene tra le mani,
una foglia del raccolto, una penna o un sasso, mentre appare tutto concentrato
su quanto sta dicendo o intento ad ascoltarti. E la dimostrazione di cosa può
fare uno choc; quando si guardano quelle foto sui giornali ci si sente in
dovere di chiedere scusa, come se si fosse andati a curiosare in una stanza
in cui non si sarebbe dovuti entrare.
Ci sarà un'inchiesta; meglio così, per bloccare ogni tentativo di assimilarlo
a un ennesimo caso di brutalità contro i braccianti, anche se non ci sono
dubbi - è stato un incidente, e Van der Vyver ha pienamente ammesso lo
svolgersi dei fatti. All'arrivo al commissariato con il cadavere dell'uomo
sul suo camioncino ha fatto una deposizione. Il capitano Beetge lo conosce
bene, naturalmente; gli ha dato del brandy. Grande, calmo e intelligente
com'è, il figlio di Willem Van der Vyver, quello che ha ereditato la fattoria
migliore del vecchio, tremava. Il nero era ormai morto, non c'era più nulla
da fare. Beetge non dirà a nessuno che dopo il brandy Van der Vyver ha
pianto. Singhiozzava, il muco gli colava sulle mani come a un bambino sudicio.
Il capitano ha provato vergogna, per lui, ed è uscito dalla stanza per dargli
la possibilità di ricomporsi.
Marais Van der Vyver lasciò la sua casa alle tre del pomeriggio per eliminare
un maschio della famiglia di cudù che vive nel bush della sua tenuta, nella
riserva di caccia. La conservazione di animali e uccelli selvatici gli sta
molto a cuore; è convinto che un agricoltore abbia il sacrosanto dovere di
allevare selvaggina insieme al bestiame. Passò come sempre dall'officina a
prendere Lucas, un bracciante ventenne che aveva dimostrato una certa
attitudine per la meccanica e a cui Van der Vyver in persona aveva insegnato
la manutenzione di trattori e di altri macchinari agricoli. Diede un colpo di
clacson e Lucas come al solito saltò sul cassone del camioncino. Gli piaceva
viaggiare stando in piedi là dietro, riusciva ad avvistare gli animali prima
del suo principale. Si curvava in avanti, sostenuto dalla cabina sotto di
lui.
Sul sedile accanto Van der Vyver aveva un fucile calibro 300 e dei
pallettoni. Era di suo padre, perché il suo era in città dall'armaiolo. Da
quando suo padre era morto (il sergente di Beetge aveva scritto
"deceduto"), nessuno lo aveva più usato e così quando lo aveva
preso dal mobile era sicuro che non fosse carico. Suo padre non aveva mai
permesso che si tenessero in casa armi cariche e sin dall'infanzia gli
avevano insegnato a non portarsi mai un'arma carica sul veicolo. Ma quel
fucile lo era. Su uno sterrato Lucas batté tre volte il pugno sul tetto della
cabina per fare una segnalazione: guarda a sinistra. Nel vedere il fianco di
un cudù con le sue strie bianche e le belle corna inclinate tra i cespugli
del bush in cui si mimetizzava, Van der Vyver passò a gran velocità su una
buca. Lo scossone fece partire il colpo. Il fucile era puntato proprio in
direzione della testa di Lucas, oltre il tetto della cabina. Il proiettile
perforò la lamiera e gli penetrò nel cervello attraverso la gola.
Questo fu il contenuto della deposizione sull'accaduto. Malgrado la sua
posizione nella zona, Van der Vyver dovette sottoporsi al rituale giuramento
che quanto detto corrispondeva a verità. La testimonianza sarà conservata
negli archivi del commissariato locale per tutta la vita di Van der Vyver, e
anche oltre, per tutta la vita dei suoi figli, Magnus, Helena e Karel - a
meno che le cose nel paese non precipitino, e il fenomeno dei tumulti neri
nelle città si allarghi alle aree rurali e qualcuno appicchi il fuoco anche a
quel commissariato come è successo a molti altri nelle città. Perché il
governo non può fare niente per pacificare gli animi degli agitatori e dei
bianchi che li incoraggiano. Nulla li soddisfa, nelle città: adesso i neri
possono sedersi a bere negli alberghi per i bianchi, la legge sull'immoralità
appartiene ormai al passato, i neri possono andare a letto con i bianchi...
Non è neppure più un crimine.
Van der Vyver ha un alto recinto di filo spinato tutt'attorno alla sua
fattoria e al giardino, recinto che sua moglie, Alida, ritiene rovini
completamente l'effetto prodotto dal ruscello artificiale con le sue felci
arborescenti dietro le jacarande. Nel cortile dietro la casa un'antenna
svetta come il pennone di una bandiera. Tutti i veicoli di Van der Vyver,
compreso il camioncino in cui è morto il nero, hanno antenne che sferzano
come scudisci quando si prende una buca: fanno parte del sistema di sicurezza
di cui dispone ogni agricoltore della zona, ogni fattoria è in contatto con
le altre via radio, ventiquattro ore su ventiquattro. E già successo che
degli infiltrati da oltre frontiera abbiano minato le strade di tenute fuori
mano, uccidendo alcuni agricoltori bianchi e le loro famiglie mentre facevano
un picnic domenicale sulle loro terre. La buca avrebbe potuto azionare una
bomba anticarro, e Van der Vyver sarebbe magari morto insieme al suo boy.
Quando i vicini, usando l'impianto, chiamano per dire quanto sono dispiaciuti
per "quella faccenda" del boy di Van der Vyver, implicito c'è anche
un: avrebbe potuto andare peggio.
E ovvio dalla qualità della bara e dei paramenti che l'agricoltore ha fornito
denaro per il funerale. E un funerale minuziosamente preparato è molto
importante per i neri; basti guardare come si privano del poco che hanno, nel
corso della loro vita, per poter versare le rate a un'impresa di pompe
funebri in modo da non compiere l'estremo viaggio in legno di bosso verso una
fossa anonima. La giovane moglie è incinta (naturalmente) e un altro
bimbetto, con un paio di scarpe rosse molto più grandi della sua misura, le
si stringe contro sotto il pancione sporgente. E troppo piccolo per capire
cos'è successo, quello di cui è testimone quel giorno, ma non piagnucola né
gioca; è solenne senza sapere perché. I neri espongono i bambini a tutto, non
li proteggono dal timore e dal dolore come fanno i bianchi con i loro. E la
giovane moglie a scuotere il capo e a piangere come una bambina,
singhiozzando sul petto di questo o quel parente.
Tutti i presenti lavorano per Van der Vyver oppure fanno parte delle famiglie
di chi lavora per lui; e nella stagione della sarchiatura e del raccolto
anche le donne e i bambini lavorano per lui, trasportati nei campi all'alba -
su un camion, avvolti nelle coperte, cantando. La madre del morto è una donna
che non avrà nemmeno una quarantina d'anni (cominciano a far figli nella
pubertà) ma ha un'aria decisamente matura nel suo vestito nero; è in piedi
tra i genitori, che già lavoravano per il vecchio Van der Vyver quando
Marais, come la loro figliola, era ancora piccolo. I genitori la sorreggono
come se fosse una detenuta o una pazza da rinchiudere. Ma non dice niente,
non fa niente. Non alza gli occhi; non guarda Van der Vyver, dal cui fucile è
partito un colpo - fissa la tomba. Nulla le farà alzare gli occhi; niente
paura, non li alzerà; verso di lui. Sua moglie, Alida, è accanto a lui. Per
mostrare il giusto rispetto, come fa al funerale di un bianco, indossa il
cappello blu e beige che quest'estate si mette per andare in chiesa. Lei è
sempre solidale, anche se lui pare non accorgersene; quella freddezza e quel
riserbo - sua madre dice che da piccolo se ne stava sempre per conto suo -
lei li accetta per sé ma si rammarica che gli abbiano impedito di essere
nominato, come sarebbe stato giusto, candidato del Partito alle politiche per
quella circoscrizione. Lui non permette che i vestiti della moglie, né quelli
di chiunque altro, lo sfiorino. Anche lui fissa la tomba. La madre del
giovane e Van der Vyver fissano la tomba, e tra loro c'è lo stesso tipo di
comunicazione che c'era tra il nero fuori e il bianco nella cabina l'attimo
prima dello sparo.
L'attimo prima dello sparo fu un attimo di grande eccitazione, condiviso
attraverso il tetto della cabina poco prima che il proiettile lo perforasse,
tra il giovane nero fuori e l'agricoltore bianco dentro il veicolo. Tra loro
c'erano già stati di quegli attimi, inspiegabili, anche se spesso quand'era
in giro per la tenuta, l'agricoltore passava accanto al giovane senza
rispondere al suo saluto, come se non lo riconoscesse. Quando partì il colpo,
quello che Van der Vyver vide fu il cudù che incespicava per lo spavento e
correva via al galoppo. Poi sentì il tonfo alle sue spalle, e dal finestrino
vide il giovane cadere giù dal veicolo. Era sicuro che fosse sobbalzato pure
lui e ruzzolato giù - per lo spavento, come l'animale. Quando aprì la
portiera, Van der Vyver era lì lì per ridere di sollievo, pronto a prenderlo
in giro; non era possibile che una pallottola che aveva perforato la lamiera
potesse fare del male.
Il giovane non rise con lui della propria paura. L'uomo lo prese tra le
braccia e lo riportò sul camioncino. Era sicuro, sicuro che non fosse morto.
Ma il sangue del giovane nero era ormai dappertutto sugli indumenti
dell'agricoltore, glieli inzuppò completamente mentre guidava.
Come faranno mai a sapere, quando archivieranno i ritagli di giornale, le
prove, le testimonianze, quando guarderanno le fotografie e vedranno il suo
volto - colpevole! colpevole! hanno ragione loro! - come faranno a sapere,
quando i commissariati bruceranno con tutte le prove di quanto è accaduto
ora, e di quanto accadde in passato, quello che per la legge era un crimine.
Come è possibile che non sappiano. Niente. Il giovane nero insensibilmente
ucciso dalla negligenza del bianco non era il suo boy: era suo figlio.
(Tratto dalla raccolta Il salto, Feltrinelli editrice, Milano, 1991,
traduzione di Franca Cavagnoli.)
Nadine Gordimer è Premio Nobel per la
Letteratura 1991
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