Ci sono passati più di dodici anni dell'arrivo a Trieste. Alla partenza di
Rio mia madre mi aveva regalato un gilè e un maglione di lana. Hanno servito
a poco. La Bora mi rideva in faccia mentre cercavo di parlare l'italiano
sbagliando due parole su tre.
Per vendicarmi mi sono fatto un'amante tedesca bellissima senza dire neanche
una parola di tedesco. Avevamo in comune l'italiano sconcio.
L'appartamento dove abitavo in Via San Marco 19 era buio di giorno. Di notte
piangevano i gabbiani annidati nei tetti della città vecchia. Con la chitarra
ho provato diverse volte ad accompagnarli nelle notti d'insonnia. Inutile.
C'è bisogno di un talento speciale per riuscire ad armonizzare sequenze di
accordi dietro a gabbiani piangenti. Soltanto i pazzi veri riescono a farlo
in maniera adeguata. Come il mio l'amico Ljubo che andavo a trovare nell'ex
ospedale psichiatrico.
Suonavo insieme a Ljubo lunghe improvvisazioni e alla fine, prima di andare
via, lui ogni tanto diceva: - Hai uno strano nome, Chicayban. Un giorno, col
viso illuminato, ha spalancato la porta di una stanza dov'ero in mezzo a una
riunione e detto in tono solenne: - Ascoltami bene, il tuo vero nome è
Chicaybancic. Sapevo che ti mancava qualcosa!
Quello veramente mi mancava. Oltre le quote di sangue portoghese, indio,
nero, libanese e armeno, avere il cognome slavizzato.
Ljubo è venuto ad accompagnarmi alla partenza del convoglio di aiuti
umanitari dell'OMS e siamo andati a prendere un caffè nel Posto delle Fragole
con Szulin, l'autista: - Sta attento Chicaybancic, stai per andare in guerra!
Già. Non avevo ancora realizzato che si trattava di andare in Bosnia armato
di chitarra, scortato da libri colorati per bambini e da uno stemma dipinto
sulla laterale del pulmino. Non parlavo l'italiano ed ero in mezzo agli
operatori italiani che non parlavano il bosniaco e andavano a mettersi in un
territorio nel quale combattenti irregolari e militari parlavano tutti la
stessa lingua mettendosi in testa di parlare lingue diverse. Eravamo partiti
da un ex ospedale psichiatrico per cacciarci in un enorme manicomio di
pulizie etniche e stupri pianificati il cui mentore era un psichiatra
criminale, Karazdic. Neanche Lewis Carroll avrebbe potuto immaginare una
Alice migliore di me per una storia così folle.
Il capo convoglio era Manlio, un medico psichiatra affabile che nelle feste
aveva il coraggio di ballare davanti ai suoi colleghi sempre sugli attenti.
Era vissuto anche a Mostar molto prima che facessero saltare il ponte con la
dinamite e mi ha assicurato che, a quei tempi, non avrebbe creduto
assolutamente all'odio etnico. Tempi dopo Manlio ha trovato la Clinica
Psichiatrica di Sarajevo deserta di medici e medicine ma brulicante di
pazienti appena fabbricati dalla guerra che non era guerra.
Szulin mi ha dato una pacca sulla spalla. Forza, andiamo. Al valico di
Fernetti la gentile polizia italiana ci ha fermato per un bel po'' di tempo
per controllare bene il pericoloso (contagioso?) passaporto brasiliano. Cosa
fa un brasiliano da queste parti? Cosa contiene quella custodia? La apra.
Facevano bene a insospettirsi di tutto, anche dei pulmini con lo stemma OMS e
la dicitura aiuti umanitari. Forse era perché tutti dicevano che armi e
rifornimenti per i paramilitari dell'odio etnico arrivavano incolumi dai
valichi triestini. I giornali italiani avevano detto che le razioni di
combattimento per i militari serbi arrivavano dalla Parmalat.
Prima c'era bisogno di andare in un campo profughi a Rijeka. Ogni tanto
incrociavamo un veicolo militare. In poco tempo siamo arrivati di fronte a un
recinto enorme con tante tende, circondato dal filo spinato e sentinelle
armate. Abbiamo parcheggiato i pulmini vicino a un piccolo autobus tedesco
colorato pieno di giochi e libri. Attorno c'erano bambini che giocavano a
qualcosa che non riuscivo capire. Il loro viso aveva un misto di stanchezza e
rassegnazione, come a dire: gioca e taci. Non erano profughi, erano
prigionieri. Nessuno poteva lasciare il campo in nessuna ipotesi. Anche la
tattica endemica degli stupri faceva vittime quasi ogni giorno.
I bambini del campo di concentramento si sono seduti e hanno ascoltato i miei
strumenti. Avevo le dita intorpidite di freddo e facevo fatica a suonare
perché mi vergognavo davanti a quei visi maturati in fretta. Mi hanno chiesto
poi di vedere gli strumenti come tutti i bambini che avevo conosciuto. Da
lontano gli adulti miravano la distanza delle assenze. Manlio mi ha detto poi
che nel passato era stato un popolo di ballerini di gioia portata quasi
all'estasi.
Ho mangiato un panino seduto sulla porta dell'autobus in compagnia degli
operatori tedeschi e ho aspettato il tramonto.
Siamo ripartiti di mattina. Dopo un po' di strada ho cominciato a vedere
delle case con il tetto saltato. Ancora un po' di strada e tutte le case
avevano raggiunto la stessa disarchitettura. Manlio ha detto che eravamo
arrivati alla Krajna. Una prima pattuglia ci ha fermato e circondato i
pulmini. A me sembravano serbi perché portavano le mimetiche grigie come le
fotografie pubblicate nelle riviste italiane. Ci guardavano con sospetto e
Manlio è sceso per parlamentare con il tipo che sembrava comandare il
manipolo. A quel punto ho capito a cosa serviva la bella scorta di bottiglie
di whisky che Manlio aveva piazzato nel pulmino.
Dopo aver pagato il pedaggio al capo, il convoglio ha proseguito fino alla
prossima pattuglia. A ogni blocco i militari erano apparentemente meno
inquadrati e disciplinati e la quantità di bottiglie lasciate aumentava.
Finché esteriormente si sono trasformati in civili armati e le bottiglie sono
finite tutte in una sola volta, probabilmente perché i membri del branco
erano tutti candidati al comando. Infatti, parlavano fra di loro come se
ringhiassero. Non ci hanno rapinato forse perché avevano delle istruzioni
molto precise rispetto alle operazioni da realizzare. Forse erano
paramilitari soltanto in apparenza.
Ogni tanto vedevamo dei veicoli militari con delle diciture in bianco e i
caschi blu che non scendevano mai per controllarci. Forse non avevano sete.
Durante un percorso relativamente lungo non ricordo di aver visto un'unica
persona in giro per le strade. Le case erano tutte abbandonate e portavano,
senza eccezione, un vistoso buco al tetto combinato dalle bombe serbe.
Attraversata la Krajna siamo arrivati a un altro campo di concentramento per
profughi. C'era un silenzio, fra di loro, che mi ha ammutolito la chitarra.
Ho tirato fuori il cavaquinho, uno strumento piccolo a quattro corde, simbolo
del samba in Brasile. È apparso un brillo di curiosità negli occhi dei bimbi
seduti per terra. Dopo aver suonato ho allungato loro lo strumento per farli
provare il suono delle piccole corde. Erano bambini molto educati e attenti
come poche volte ho trovato nelle situazioni di normalità.
Esiste un videogioco di nome Grand Theft San Andreas, di moda fra i ragazzini
dei paesi industrializzati, il cui obiettivo è vincere una sorta di gara di
uccisioni e stupri. Gli abitanti della Bosnia sono finiti in una specie di
realtà virtuale simile, costruita da odio etnico e nazionalismo delirante,
nella quale violentare e assassinare era parte delle regole del gioco
condotto da personaggi al di fuori del campo visivo e condizionata dalla
volontà dei fabbricanti.
Il viaggio di ritorno non ve lo racconterò. Mi sono rifugiato nel sonno senza
sogni fino a Trieste.
Sono passati dodici anni. Ljubo è morto in un incidente stradale alla
Costiera. Szulin continua a guidare pulmini su e giù per Trieste. Manlio è
spesso in televisione a parlare di ex manicomi e Chicaybancic si è trasferito
a Udine dove non ci sono gabbiani piangenti nella notte.
Lo psichiatra Karazdic gode di perfetta salute nella latitanza e il gioco
folle si è trasferito in altre regioni del pianeta.
(Tratto dalla rivista Pagina Zero, Letterature di fontiere, Numero 7
- Luglio 2005)
Alberto
Chicayban è nato a Rio de Janeiro. Laurea in Composizione Musicale e
Laurea in Linguistica. Musicista (chitarrista e arangiatore): concerti
realizzati in Italia, Francia. Austria, Germania, Portogallo, Messico e
Brasile. Con un Lp inciso in Brasile e due Cd incisi in Italia. Autore di
colonne sonore per cinema e televisione con lavori realizzati per la tv Globo
canale 4 di Rio de Janeiro e tv Fuji canale 8 di Tokio. Musicoterapeuta: in
questo ambito ha realizzato lavori per aziende sanitarie e scuole del FVG.
Partecipa all'organizzazione del Forum Sociale Mondiale, con workshops
riguardo alla Stimolazione Musicale realizzati a Porto Alegre nel 2001, 2002,
2003, 2005, e Mumbai (India) nel 2004.
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