VINCENZO
CERAMI
Recentemente,
nel sud della Francia, è stata scoperta una caverna abitata dagli uomini
primitivi più di trentamila anni fa. Su una parete sono raffigurate tre
immagini uguali e successive di una belva feroce. È evidente che l'autore del
graffito ha voluto evocare il movimento dell'animale; ha coniugato lo spazio
con il tempo mimando la velocità. L'illusione dello spostamento è data dalla
somma delle istantanee.
Verrebbe voglia di dire che il cinema è nato prima della letteratura. Ma la
questione più intrigante è un'altra e riguarda la ragione per cui l'uomo, fin
da quando era ancora ominide, ha sentito il bisogno di «rappresentare», di
raccontare il mondo che lo circonda. Capire perché si scrive ci aiuta a capire
perché si legge. Quella belva cattiva, inquadrata nel momento del suo balzo
felino, descrive un momento di estrema emotività, di terrore, dell'uomo.
Fissare quell'immagine contro una parete serviva a molte cose.
Prima di tutto era un modo per portare fuori di sé la paura, per prendere una
distanza critica dalle insidie del mondo e cristallizzarle in una cornice. In
secondo luogo quella raffigurazione era strumento pedagogico per i bambini che
imparavano a riconoscere, nelle immagini spaventose, i nemici, i pericoli. Quel
graffito ci mostra il primo atto autenticamente intellettuale dell'essere
umano, il quale descrive il mondo per capirlo nella sua complessità, e
razionalizzarlo.
Io credo che l'arte conservi ancora oggi queste due funzioni: da un lato tenta
di raccontare la realtà per quello che è dietro le apparenze, e dall'altro
aiuta le nuove generazioni a capire dove sono nate, per vivere meglio. Uno
scrittore usa la lingua della sua epoca e quindi non può non parlare che della
sua epoca, anche quando vuol sottrarsi a quest'obbligo ricorrendo alla metafora
più rocambolesca.
Leggere la letteratura del Novecento è vivere l'emozione di un'epoca di grandi
invenzioni e di grandi tragedie che cerca di raccontare se stessa. I suoi
capolavori sono riusciti a verbalizzare, a dare immagini e parole a un'epoca a
noi così vicina e così presente. Nella mia vita ho incontrato e conosciuto
molti scrittori e poeti. Alcuni di loro sono considerati pilastri della nostra
letteratura. Erano molto diversi uno dall'altro.
Calvino era schivo e timidissimo, Moravia discolo e accigliato, Elsa Morante
tenerissima e risoluta, Sandro Penna vispo e gracidante, Giorgio Caproni,
ironico e metafisico... Tutti si costruivano i loro mondi immaginari cercando
lo stile più congruo a quel che volevano raccontare. Ognuno aveva le sue manie,
piccole e grandi, la vita sciolta nella quotidianità. Lavoravano ciascuno per
proprio conto, ma erano al servizio del Novecento, che li aveva scelti come
umili e pazienti biografi della sua anima. Gli scrittori di questo secolo sono
consapevoli di portare luce solo su un angoletto del mondo.
Il romanzo del Novecento è in gran parte segnato dalla scoperta dell'inconscio,
cioè della necessità della menzogna e dell'illusione ottica. Ogni concezione
totalizzante della realtà è di colpo cancellata. La prima persona vince sulla
terza. Allo sguardo oggettivo subentra la proiezione culturale e psicologica
dei protagonisti. L'universo non ha più un centro e gli scrittori si perdono
nelle sue vaste periferie.
Gli artisti che ho conosciuto nella mia vita ora li vedo come operai di
un'officina che quando possono vanno a giocare a carte all'osteria. Il
Novecento infatti è un gigantesco laboratorio in perenne fermento, alla ricerca
di quelle forme del racconto che ancora oggi possano mettere in scena il
movimento delle belve selvagge e i fantasmi della nostra epoca.
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(Tratto dal giornale La Reppublica, del 13 Gennaio 2002)