Alain Joxe, maggiore
esperto francese di studi strategici e presidente di un centro di ricerche
sulla pace, in un saggio apparso nel primo numero della rivista Conflitti
globali espone un'interpretazione della guerra in Iraq: Joxe non
utilizza criteri militari ma identifica nella spesa pubblica per gli
armamenti il metodo adottato delle amministrazioni Usa per
"regolare" il sistema capitalistico in presenza di una crisi
economica: "si scatena con il governo Bush una nuova fase di rilancio
attraverso la corsa agli armamenti e la guerra". È ciò che Joseph Halevi
ha chiamato "Keynesismo (militare) in un paese solo". Ma la spesa
militare deve essere giustificata da una minaccia esterna, e poiché Iraq e
Corea del Nord, secondo Joxe, "sono casi rari, risulta necessario, e si
procede in tal senso, produrre continuamente zone di intervento per creare una
regolazione militare globale permanente" dell'economia
capitalistica.
Per verificare questa tesi, possiamo rifarci ad un'osservazione di John
Keegan, il maggiore storico militare inglese, che ha definito il conflitto in
Iraq "una guerra misteriosa", cioè militarmente priva di senso,
nella quale la "grande armata della stampa" è diventata più
importante degli uomini e donne in armi veri e propri. Una valutazione che,
superando i criteri militari, permette di porre una prima questione: se la giustificazione
della guerra sia più importante della guerra stessa.
Fucilati per un lapsus
Proviamo quindi a considerare la guerra nei paradigmi dell'industria
culturale e della produzione capitalistica di informazioni. La guerra ci
appare allora come un evento endemico, retorico, seriale, riproducibile,
confezionato dai comandi militari Usa e dagli embeded per coinvolgere
spettatori già predisposti ai resoconti ufficiali, che non debbono esercitare
nessuno sforzo intellettuale per capirne di più - per questo vengono
perseguitati i giornalisti indipendenti. Gli spettatori vengono incalzati
quotidianamente da un'ininterrotta serie di effetti, dal caos organizzato dai
servizi dallo stillicidio di una minaccia esterna che si riproduce con
caratteristiche sempre uguali.
Ma avere paura "significa essere d'accordo", far parte di un
sentire collettivo, che è però la parodia della "difesa della
patria". Da una parte una minaccia diluita deve far presa di continuo,
non si deve poter pensare che sia svanita. Dall'altra, come ha scritto il
filosofo tedesco Theodor Adorno, si può essere "fucilati per un
lapsus": la gestione militare dell'economia, che non può funzionare
senza limitare i diritti fondamentali, è la vera ragione dell'attacco alla
democrazia. Per questo, più che al rapporto guerra-potere, il conflitto
militare in Iraq rinvia al rapporto guerra-economia.
La sicurezza viene dunque presentata dall'amministrazione statunitense come
una condizione che può essere garantita con l'ingente spesa pubblica
militare, ma nello stesso tempo viene organizzata preventivamente perché
eternamente minacciata. La sicurezza, come qualsiasi altra merce, deve quindi
consumarsi rapidamente perché se ne possa produrre sempre di più. Il riarmo
illimitato rivela così la sua affinità con i profitti capitalistici. La
sicurezza, a cui l'amministrazione Usa promette di provvedere, si riduce ad
una promessa indefinitamente prorogata, fatta di giorno e disfatta di notte.
Si producono così sicurezza e condizioni per produrre sicurezza, per evitare
le lunghe depressioni tra una guerra e l'altra come avvenne dopo la crisi del
'29, in attesa che le spese militari della seconda guerra mondiale
rilanciassero finalmente l'economia Usa. A questo fine sono state eliminate
le attese, abolite le pause, colmati gli interstizi, attenuate le differenze
tra pace e guerra.
Ma la produzione di occasioni per intervenire militarmente - la produzione
del nemico - costituisce anche il risultato più avanzato della produzione
capitalistica di informazioni, in qualche modo il suo "lato
magnifico", perché si ottengono gli stessi effetti benefici
sull'economia che ebbero le guerre mondiali, ma in tempi brevi, in qualsiasi
momento, con una diversa dimensione del massacro.
Per verificare le tesi di Joxe c'è una seconda questione che non si ferma ai
criteri militari e può fondare materialisticamente questo tipo di approccio:
l'analisi della spesa per la sicurezza. Qualcosa come 800 miliardi di
dollari, calcolando tutte le voci, che col moltiplicatore al 2,5
assicurerebbero un quinto del Pil degli Stato uniti. Si vedano i recenti dati
Ocse sul business dell'antiterrorismo in forte crescita e il documentatissimo
saggio di Vladimiro Giacchè nel volume collettivo Escalation (Derive
Approdi). Anche Karl Kraus - ci ricorda Giacchè in un altro saggio su questo
autore - ha trattato del rapporto tra militarismo e economia: "Fanno
quadrare i propri bilanci con le bombe". Per Frederic Lane è l'
"industria produttrice di protezione".
Industria della protezione
Anche il movimento operaio, analizzando la funzione economica del
militarismo, aveva sostenuto che le spese per gli armamenti non servono solo
per il dominio di classe all'interno e per le guerre di rapina all'esterno,
ma anche per assicurare un mercato addizionale alla produzione capitalistica
sempre sull'orlo della crisi di sovrapproduzione. E che qualunque
rallentamento di questo flusso di domanda aggiuntiva avrebbe aumentato
l'incidenza della crisi per l'intero sistema.
Oggi ogni funzionario dell'amministrazione Usa sa bene - e lo si legge nei Reports
presidenziali al Congresso - che aumenti o diminuzioni della spesa militare
determinano la crescita o il rallentamento di tutta l'economia. Una leva
importante per la politica economica Usa. Il ciclo economico, ha osservato in
passato lo studioso Paul Mattick, è diventato un ciclo di guerre.
Questa gestione militare dell'economia, che si avvale di numerose
istituzioni, coinvolge soprattutto i generali del Pentagono, che per
assecondare il mondo degli affari conducono guerre interminabili o guerre di
rapina alla rovescia - dopo aver rapinato tutto, sottraggono al mercato
grandi riserve di petrolio per triplicarne il prezzo. Interventi che li
espongono al sarcasmo degli storici militari: "incapaci,
incompetenti" scrive sul Washington Post (luglio 2005) Eliot
Cohen che insegna Studi strategici alla John Hopkins University. E John
Keegan, che ha insegnato alla Royal Academy Sandhurst, ha ironizzato sugli
strateghi del Pentagono come solo un inglese poteva fare. Anche il comandante
dell'aggressione Usa in Vietnam, Westmoreland - ironia dei cognomi - fu
definito dallo storico Arthur Schlesinger "il nostro generale più
disastroso dai tempi di Custer".
Una terza questione dunque - il ricorrente "impantanarsi" dei marines
- se letta semplicemente con criteri militari, appare da un lato agli
analisti militari come indeterminazione di generali incapaci. Ma appare
d'altro lato come vittoria della sinistra che considera la lotta
antimperialista soprattutto come una questione militare. È difficile
determinare - e perfino ammettere - il grado di manipolazione e di
utilizzazione delle lotte di resistenza dei popoli aggrediti con i quali si
solidarizza.
Michael Hardt invece, sulla rivista "Posse", ritiene che il mancato
cambiamento della disastrosa strategia militare Usa in Iraq sia
"l'elemento di maggior interesse e il più meritevole di analisi".
Mancato cambiamento che Hardt attribuisce a motivi non militari ma
"ideologici o di altro genere".
Ma se, ritenuti insufficienti i criteri militari, diamo anche una risposta al
perché di queste guerre - volte non solo al mantenimento di un impero
facilmente sfruttabile ma ormai soprattutto, come sostiene Joxe, alla
"regolazione" del sistema economico - diventa possibile accorgersi
che gli Usa non tendono alla vittoria ma al prolungamento dei conflitti.
Continuano a devastare con metodo interi paesi - utilizzando i conflitti
interetnici o la resistenza dei popoli aggrediti - per alimentare ciò che
Seymour Melman ha chiamato permanent war economy, cioè la dipendenza
dell'economia Usa dalla produzione dell'industria bellica.
Dal terrore nucleare al terrorismo, dall'anticomunismo all'antislamismo, il
film di George Clooney arriva a proposito - si ripete lo stesso copione.
(Tratto da "Il manifesto" del 4 novembre 2005)
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