Crisi Globale

(Un articolo del 2003 sugli Stati Uniti d'America)

Edward Said

 

È stato riportato da una notizia a piè di pagina che il Principe Walid Ibn Talal dell'Arabia Saudita ha donato 10 milioni di dollari all'Università Americana del Cairo per istituire un centro studi sull'America. Il giovane miliardario aveva offerto spontaneamente 10 milioni di dollari alla città di New York poco dopo l'11 settembre 2001, con una lettera che descriveva la donazione come un tributo alla città di New York e suggeriva inoltre che gli Stati Uniti riconsiderassero la propria politica nei confronti del Medio Oriente. Il Principe aveva in mente il totale, incondizionato supporto americano a Israele, ma la sua educata proposta sembrava anche includere la generale politica denigratoria, o quanto meno di mancanza di rispetto, nei confronti dell'Islam.
Con rabbia, Rudolph Giuliani, allora sindaco di New York (che ha la più numerosa popolazione ebrea di qualsiasi altra città al mondo), restituì l'assegno, con un estremo, e direi razzista, disprezzo, deliberatamente voluto come un insulto. Consono con una certa immagine di New York, il rifiuto di Giuliani voleva affermare la coraggiosa resistenza di principio della città verso qualsiasi tipo d'influenza esterna. E cercando di favorire, piuttosto che cercare di educare, un collegio elettorale ebraico presumibilmente unificato.

Il suo comportamento era in linea con il suo precedente rifiuto nel 1995, molto dopo il trattato di Oslo, di ammettere Yasser Arafat ad un concerto al Philharmonic Hall al quale tutti i rappresentanti delle Nazione Unite erano stati invitati. Per questo la sua reazione verso il dono del giovane saudita era prevedibile. Nonostante questi soldi, dei quali c'era particolare bisogno, fossero stati donati come aiuto umanitario ad una città ferita da una terribile atrocità, il sistema politico americano ed i suoi agenti hanno messo Israele davanti a tutto il resto, senza porsi il problema se i ricchi e ben mobilitati gruppi di pressione israeliani avrebbero fatto la stessa cosa o meno.

Nessuno sa cosa sarebbe successo se Giuliani non avesse restituito quei soldi; ma visto come sono andate le cose, egli ha praticamente anticipato i gruppi di pressioni pro-israeliani. Come scrisse la scrittrice Joan Didion nel "New York Review of Books (1)", un punto fermo della politica americana, già articolata per primo da FD Roosevelt, è che contro ogni logica l'America ha contemporaneamente cercato di appoggiare la monarchia saudita e lo Stato d'Israele; al punto che "non è possibile discutere di qualunque cosa che possa in quache modo toccare il nostro rapporto con l'attuale governo d'Israele".

Questi resoconti sul Principe Wallid mostrano una continuità che è rara per la visione che gli Arabi hanno degli Stati Uniti. Nelle ultime tre generazioni i leader arabi, i politici e i consiglieri spesso addestrati negli Stati Uniti hanno formulato politiche per i loro paesi basate su di una visione degli Stati Uniti fantastica e quasi romanzesca. L'idea di base, lungi dall'essere coerente, è che gli Americani controllano tutto; nei dettagli, quest'idea include una vasta gamma di opinioni, che va dal vedere gli Stati Uniti come una cospirazione di ebrei, al credere che si tratti di un pozzo senza fondo di benevoli aiuti degli oppressi, o che siano in pratica governati da un incontestato uomo bianco seduto, come su un Olimpo, nella Casa Bianca.

Mi ricordo delle numerose volte, nei vent'anni che lo conosco, che ho cercato di spiegare ad Arafat che gli Stati Uniti sono una società complessa con molte correnti, interessi, pressioni, e storie di conflitti interni. Non sono governati allo stesso modo della Siria: un diverso modello di potere e di autorità che andrebbe studiato. Chiesi anche ad un amico, l'erudito e attivista politico Eqbal Ahmad, un esperto della società statunitense (e forse il più grande storico e teorico dei movimenti di liberazione nazionali anti-coloniali), di parlare ad Arafat insieme ad altri esperti per cercare di sviluppare un modello palestinese più sofisticato per i contatti preliminari con il governo americano alla fine degli anni '80. Senza successo. Ahmad aveva studiato i rapporti tra l'FLN (Front de libération nationale) algerino e la Francia durante la guerra del 1954-62, così come il modo in cui i nord vietnamiti avevano negoziato con Henry Kissinger negli anni '70. Il contrasto tra la scrupolosa e dettagliata conoscenza della società metropolitana, che questi insorti algerini e vietnamiti avevano, e la quasi caricaturale visione palestinese degli Stati Uniti (basata su sentiti dire e su frettolose letture di Time) era desolante. L'ossessione di Arafat era quella di andare alla Casa Bianca per parlare con il più bianco degli uomini bianchi, il Presidente Bill Clinton, e questo, pensava Arafat, sarebbe stato come trattare con Mubarak in Egitto o Hafez al-Assad in Siria.

Se Clinton si rivelò la suprema creazione della politica americana, sopraffacendo e confondendo i palestinesi con il suo fascino e le sue manipolazioni del sistema, tanto peggio per Arafat e per i suoi seguaci. La loro visione semplificata degli Stati Uniti restò immutata, ed è ancora così oggi. Sia per quanto riguarda il saper resistere che il saper gestire il gioco politico in un mondo con una sola superpotenza, le cose stanno come sono state per più di mezzo secolo. La maggior parte delle persone alza le mani per disperazione - "gli Stati Uniti sono senza speranza, e mai più ci tornerò".

La storia che offre maggiore speranza per il futuro è quella del cambiamento di direzione del Principe Walid, sul quale posso adesso solo fare ipotesi. Esclusi i pochi corsi di letteratura e politica americana nelle università del mondo arabo, non esiste un centro per la sistematica, scientifica analisi degli Stati Uniti, del suo popolo, della sua società, e della sua storia. Neanche in istituzioni come le Università Americane del Cairo e di Beirut. Questo probabilmente vale per tutto il terzo mondo, e perfino per alcuni paesi Europei.

Per vivere in un mondo attanagliato da una potenza incontrollata come gli Stati Uniti c'è un vitale bisogno di tutta la conoscenza disponibile sul quel turbine che sono le dinamiche di questo paese. E questo include un'eccellente padronanza della lingua inglese, cosa che pochi leader arabi hanno. Gli Stati Uniti sono il paese di McDonald's, di Hollywood, della CNN, dei jeans e della Coca Cola, e tutte queste cose sono disponibili ovunque attraverso la globalizzazione, le multinazionali, e l'appetito del mondo per articoli di facile consumo. Ma dobbiamo essere coscienti della loro origine, e del come i processi socio-culturali dai quali derivano possono essere interpretati, specialmente perchè è ovvio il pericolo del pensare agli Stati Uniti in un modo troppo semplicistico e statico.

Mentre io scrivo, la maggior parte del mondo è costretta con la forza ad una passiva sottomissione agli Stati Uniti (o, nel caso dell'Italia e della Spagna, ad un'opportunistica alleanza), mentre questi si preparano ad una guerra profondamente impopolare contro l'Iraq. Se non fosse per le marce e le proteste che sono scaturite a livello popolare in tutto il mondo, questa guerra sarebbe uno sfacciato atto d'incontestato dominio. Il livello con cui questa guerra è contestata da così tanti americani, asiatici, africani, e latino americani che sono scesi nelle strade, suggerisce che qualcuno infine si è reso conto del fatto che gli Stati Uniti, o piuttosto quei pochi bianchi giudeo-cristiani che attualmente ne controllano il governo, sono tesi verso l'egemonia mondiale. Che cosa possiamo fare?

Voglio ora delineare lo straordinario panorama degli Stati Uniti, visto da uno che c'è dentro, un americano che ha confortevolmente vissuto qui per anni, ma che, in virtù delle sue origini palestinesi, mantiene ancora la sua prospettiva di osservatore esterno. È mio interesse suggerire modi per poter comprendere, intervenire, e resistere a un paese che è lontano dall'essere quel monolite che molti credono, specialmente nel mondo arabo e mussulmano.

La differenza tra gli Stati Uniti e gli imperi classici del passato è che, nonostante ciascun impero storico abbia affermato la propria determinazione a non ripetere le ambizioni espansioniste dei suoi predecessori, quest'ultimo impero afferma incredibilmente il suo sacrosanto altruismo e la sua benevola innocenza. Quest'allarmante illusione di virtù è affermata, cosa ancor più allarmante, da quegli intellettuali un tempo di sinistra o liberali che nel passato si erano opposti alle varie guerre statunitensi all'estero ma che adesso sono pronti a giustificare l'impero virtuoso (la sentinella solitaria è una delle immagini preferite), con uno stile che va dal raglio patriottico al cinismo.

Gli eventi dell'undici settembre giocano sicuramente un ruolo in questo voltafaccia. Ma è sorprendente che gli orribili attachi alle Torri Gemelle e al Pentagono siano trattati come se fossero usciti dal nulla, piuttosto che da un mondo dall'altra parte dell'oceano portato alla follia dall'interventismo e dalla presenza americana. Con questo non voglio giustificare il terrorismo islamico, che è odioso in tutti i sensi. Ma da tutte le pie analisi della risposta americana in Afghanistan, e adesso in Iraq, sono scomparsi la storia e il senso delle proporzioni.

I falchi liberali non fanno alcun riferimento alla destra cristiana (così simile all'estremismo islamico per fervore e rettitudine) e alla sua massiccia presenza negli Stati Uniti. La sua visione deriva principalmente dal Vecchio Testamento, così come quella d'Israele, suo partner e analogo. Esiste una peculiare alleanza tra gli influenti sostenitori neo-conservatori americani d'Israele e l'estremismo cristiano, che appoggia il sionismo come modo per portare tutti gli ebrei nella terra promessa in preparazione per la seconda venuta del Messia, quando gli ebrei dovranno scegliere tra convertirsi al cristianesimo o essere spazzati via. Raramente si fa riferimento a queste rabbiose teologie antisemite, e certamente non da parte delle falangi degli ebrei pro-Israele.

Gli Stati Uniti sono il paese più dichiaratamente religioso al mondo. I riferimenti a Dio permeano la vita nazionale, dalle monete, agli edifici, ai discorsi: in God we trust, God's country, God bless America. La base di potere di George Bush è costituita da quei 60-70 milioni di cristiani fondamentalisti che, come lui, credono di aver visto Gesù e sono convinti di essere qui per compiere il lavoro di Dio nel paese di Dio. Alcuni commentatori, incluso Francis Fukuyama, hanno sostenuto che la religione contemporanea negli Stati Uniti è il risultato del desiderio di comunità e del bisogno di stabilità, che scaturiscono dal fatto che il 20% della popolazione si sposta in continuazione da una dimora all'altra. Ma questo è vero solo fino ad un certo punto: ciò che è più importante è la natura della religione - l'illuminazione profetica, la ferma convinzione di far parte di una missione apocalittica, e la noncurante indifferenza verso le piccole complicazioni. Un altro fattore è l'enorme distanza fisica degli Stati Uniti dal turbolento resto del mondo, così come lo è il fatto che il Canada e il Messico sono dei vicini a cui manca la capacità di stemperare l'entusiasmo americano.

Tutto questo va a sommarsi a quei concetti americani di giustezza, bontà, libertà, promessa economica e avanzamento sociale così intessuti nella vita di tutti i giorni che non sembrano essere ideologici ma piuttosto un fatto naturale. L'America è un sinonimo di bontà, e la bontà richiede totale fedeltà e amore per l'America. Vi è una reverenza incondizionata per i padri fondatori, e per la costituzione - un documento eccezionale, ma sempre una creazione umana. L'America degli inizi è il punto fermo dell'autenticità.

Non conosco altro paese dove una bandiera che sventola giochi un ruolo iconografico così centrale. La si vede dappertutto, sui taxi, sui risvolti delle giacche, sulla facciata, alle finestre, e sui tetti delle case. La bandiera è la principale personificazione dell'immagine nazionale, che simbolizza la resistenza eroica e il senso di essere assediati da nemici indegni. Il patriottismo rimane la virtù principale, legata alla religione, al senso d'appartenenza, e al fare la cosa giusta a casa e nel resto del mondo. Adesso anche le spese dei consumatori sono una questione di patriottismo: gli americani furono incoraggiati a fare lo shopping come sfida ai cattivi terroristi dopo l'11/9.

Bush, e Donald Rumsfeld, Colin Powell, Condoleezza Rice e John Ashcroft, hanno sfruttato questo patriottismo per mobilitare i militari per una guerra a 7.000 miglia da casa "per prendere Saddam". E dietro a tutto questo c'è la macchina del capitalismo, che sta adesso subendo un radicale e destabilizzante cambiamento. L'economista Julie Schor ha mostrato che gli americani lavorano oggi molte più ore rispetto a tre decenni fa, e guadagnano relativamente meno (2). Ma non vi è alcuna contestazione politica al dogma delle "opportunità del libero mercato". È come se a nessuno importasse di domandarsi se la struttura corporativa, in alleanza con il governo federale (il quale non è ancora stato capace di fornire alla maggior parte degli americani una sanità pubblica decente e una solida educazione), abbia bisogno di essere cambiata. Le notizie della borsa sono più importanti di qualsiasi riesame del sistema.

Questo è un crudo riassunto del consenso americano, che i politici sfruttano e semplificano attraverso l'uso di slogan e di frasi fatte. Ma ciò che uno può scoprire in questa società complessa è quante correnti contrarie al consenso scorrono in continuazione. La crescente resistenza alla guerra, che il presidente ha minimizzato e ha preteso di ignorare, deriva da quell'altra America più informale che i principali mezzi d'informazione (giornali di riferimento come il New York Times, i network televisivi, e l'industria della stampa) cercano continuamente di sopprimere. Non vi è mai stata una così spudorata e scandalosa complicità tra i notiziari radiotelevisivi e il governo: i giornalisti della CNN e degli altri network parlano con eccitazione delle malefatte di Saddam e di come "noi" dobbiamo fermarlo prima che sia troppo tardi. L'etere è pieno di ex-militari, di esperti di terrorismo e di analisti di politica mediorientale che non conoscono nessuna delle lingue in oggetto, che probabilmente non sono mai stati in Medio Oriente, e la cui cultura è così carente da non poter essere esperti di nulla; e tutti quanti parlano con il rituale gergo del "nostro" bisogno di fare qualcosa sull'Iraq, e intanto di preparare le nostre finestre con il nastro isolante contro un attacco di gas nervino.

Perchè è gestito, il consenso opera in un presente atemporale. La storia è il suo anatema. Nel modo di parlare pubblico persino la parola storia è sinonimo del nulla, come nella sprezzante frase "tu sei storia". La storia è ciò che noi, da americani, dovremmo credere per quanto riguarda gli Stati Uniti (non per il resto del mondo, che è "vecchio" e perciò irrilevante) - acriticamente, astoricamente. Vi è qui un'incredibile contraddizione. Nella memoria sociale gli Stati Uniti dovrebbero essere al di sopra o finanche oltre la storia. Ma in America esiste un generale interesse per la storia di tutto, dai fatti di rilevanza regionale agli imperi mondiali. Parecchi culti esistenti in America scaturiscono dal bilanciamento di questi due opposti, dalla xenofobia allo spiritualismo e alla reincarnazione. Dieci anni fa ci fu una grande battaglia intellettuale su che tipo di storia si sarebbe dovuta insegnare nelle scuole americane. Coloro che promuovevano l'idea della storia americana come una narrazione unificata con risonanze interamente positive, vedevano la storia come una parte essenziale di quella rappresentazione ideologica convenzionale che dovrebbe modellare gli studenti in docili cittadini, pronti ad accettare certe basilari tematiche come costanti dei rapporti all'interno degli Stati Uniti e tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Secondo questa prospettiva essenzialista gli elementi di postmodernismo e di divisione (minoranze, donne e schiavi) andavano eliminati. Ma il risultato, cosa interessante, fu il fallimento del tentativo di imporre certi risibili standard.

Linda Symcox scrisse che l'approccio neo-conservatore nei confronti della "conoscenza culturale era un tentativo non particolarmente mascherato per inculcare negli studenti una visione consensuale della storia relativamente libera da conflitti. Ma alla fine il progetto si mosse in una direzione diversa. Nelle mani degli studiosi della storia del mondo e della società, coloro cioè che stilarono i curriculum per l'insegnamento, tali curriculum diventarono un veicolo di quella visione pluralista che il governo cercava di combattere. La storia consensuale fu combattuta da quegli storici che pensavano che la giustizia sociale e la redistribuzione del potere richiedono un maniera più complessa di raccontare il passato" (3).

Nella sfera pubblica presieduta dai principali mezzi d'informazione di massa esistono ciò che chiamerò "narratemi" che strutturano, confezionano e controllano il dialogo, nonostante l'apparenza di varietà e diversità. Discuterò di quelli che considero ora pertinenti. Uno è che esiste un "noi" collettivo, un'identità nazionale rappresentata senza la minima obiezione dal Presidente, il Segretario di Stato alle Nazioni Unite, le forze armate nel deserto, e i "nostri" interessi, visti come autodifesa, senza ulteriori motivazioni, e "innocenti", così come una donna tradizionale dovrebbe essere - pura e senza peccato.

Un altro narratema è l'irrilevanza della storia, e l'inammissibilità di collegamenti illegittimi: per esempio, qualsiasi menzione del fatto che gli Stati Uniti hanno in passato armato e incoraggiato Saddam Hussein e Osama Bin Laden, o che il Vietnam è stato "negativo" per gli Stati Uniti o, come ha detto una volta il Presidente Jimmy Carter, "mutualmente autodistruttivo". O un esempio ancor più impressionante, l'irrilevanza istituzionale di due importanti, persino costitutive, esperienze americane, la schiavitù degli afro-americani e la deprivazione e il quasi sterminio dei nativi americani. Queste devono ancora essere integrate nel consenso nazionale. Esiste un importante museo sull'Olocausto a Washington DC, ma non esiste da nessuna parte nel Paese alcun memoriale del genere sugli afro-americani o sui nativi americani.

C'è poi la non esaminata convinzione secondo la quale qualsiasi tipo di opposizione è da considerarsi come anti-americana, e basata sulla gelosia nei confronti della "nostra" democrazia, libertà, ricchezza e grandezza o (come dicono quelli ossessionati dalla resistenza francese verso una guerra americana contro l'Iraq) sulla cattiveria degli stranieri. Agli europei viene ricordato in continuazione che sono stati salvati due volte dagli Stati Uniti nel ventesimo secolo, con l'implicazione che gli europei stavano seduti a guardare mentre le truppe americane combattevano.

Per quanto riguarda quelle zone del mondo dove gli Stati Uniti sono stati imbrigliati per almeno 50 anni, come il Medio Oriente e l'America Latina, il narratema degli Stati Uniti come agenti onesti, aggiudicatori imparziali e forza del bene ben intenzionata non ha seri competitori. Questo narratema non può prendere in considerazione qualsiasi questione di potere, beneficio economico, appropriazione delle risorse, appoggio di specifiche etnie, o forzati o segreti cambiamenti di regime (come in Iran nel 1953 e in Cile nel 1973); questo narratema resta indisturbato eccetto quando occasionalmente qualcuno faccia riferimento alle situazione specifiche. Il massimo con cui uno possa avvicinarsi alla realtà di queste questioni è attraverso quegli idiomi eufemistici dei gruppi di pensiero e del governo, idiomi che discutono del potere morbido, della proiezione e della visione americana. È ancor meno rappresentata né si fa allusione alle poco invidiabili politiche di cui gli Stati Uniti sono direttamente responsabili: le sanzioni contro l'Iraq che causano vittime civili, l'appoggio alla campagna di Ariel Sharon contro la vita civile palestinese, l'appoggio ai regimi turchi e colombiani e alle crudeltà di questi nei confronti dei propri cittadini. Queste cose sono inaccettabili in qualsiasi seria discussione sulla politica statunitense.

Vi è, infine, il narratema dell'incontenstata saggezza morale rappresentata dalle figure dell'autorità ufficiale (Henry Kissinger, David Rockefeller, o qualunque rappresentante ufficiale della corrente amministrazione), che è reiterato senza alcuna possibilità di dubbio. Il fatto che a due malfattori condannati dell'era di Richard Nixon, Elliott Abrams e John Poindexter, sono stati recentemente assegnati incarichi di governo dà adito a pochi commenti, e ad ancor meno obiezioni. Questa cieca deferenza nei confronti delle autorità passate o presenti, pura o reticente, è visibile nei rispettosi, persino abbietti, appellativi usati dai commentatori nei loro confronti, e nel non voler prender nota di qualsiasi altra cosa sulle autorità eccetto la loro lustra apparenza, non macchiata da qualsiasi attestata incriminazione.

Dietro a questo comportamento c'è, penso, la fede americana nel pragmatismo come giusta filosofia per gestire la realtà - un pragmastimo che è anti-metafisico, anti-storico e, curiosamente, anti-filosofico. L'antinominalismo postmoderno, che riduce tutto alla struttura del periodo grammaticale e al contesto linguistico è legato a questo; nelle università americane questo modo di pensare ha un'influenza pari a quella della filosofia analitica. Nella mia università, Hegel e Heidegger sono insegnati nei dipartimenti di lettere e di storia dell'arte, raramente in quelli di filosofia. Lo sforzo informativo americano recentemente organizzato (specialmente nel mondo islamico) è disegnato a divulgare queste principali e persistenti teorie. Le ostinate tradizioni del dissenso degli Stati Uniti - l'ufficiosa contro-memoria di una società d'immigrati - che fiorisce ai margini o nel profondo dei narratemi sono completamente oscurate. Pochi commentatori all'estero notano questa foresta di dissenso. In questa foresta, un osservatore esperto può notare i collegamenti tra i vari narratemi che non sono altrimenti visibili.

Se esaminiamo le varie componenti della notevole resistenza alla proposta guerra contro l'Iraq, vediamo emergere un quadro degli Stati Uniti molto diverso, un paese cioè più disponibile alla cooperazione internazionale, al dialogo e all'azione. Tralascerò i molti che si oppongono alla guerra per motivi di costo in termini di sangue e di risorse, e per i disastrosi effetti su di un'economia già disastrata. Tralascerò anche quell'opinione di destra che considera gli Stati Uniti come il bersaglio di stranieri traditori, dell'ONU, e di comunisti senza Dio.

La costituente libertaria e isolazionista, una strana combinazione di destra e sinistra, non necessita commenti. Tra le categorie non esaminate includo anche quella larga popolazione studentesca ispirata dall'idealistismo e profondamente sospettosa della politica estera americana, specialmente per quanto riguarda la globalizzazione economica: i principi di questo gruppo, a volte quasi-anarchici, hanno mantenuto sensibili le università contro la guerra in Vietnam, l'apartheid in Sud Africa, e la lotta per diritti civili in patria.

A questo punto rimangono alcune costituenti importanti sia dal punto di vista della loro esperienza che per la loro coscienza. Queste appartengono, in termini europei e afro-asiatici, alla sinistra, anche se un organizzato movimento di sinistra o socialista a livello parlamentare non è mai veramente esistito nel lungo periodo negli Stati Uniti del dopo seconda guerra mondiale, così forte è il controllo dell'apparato bi-partitico. Il partito Democratico è in una situazione di caos dalla quale non si riavrà presto. Dovrei includere quella disaffezionata e abbastanza radicale ala della comunità afro-americana - i gruppi urbani che si agitano contro la brutalità della polizia, la discriminazione sul lavoro, il problema degli alloggi e dell'educazione, e che sono guidati e rappresentati da figure carismatiche come il reverendo Al Sharpton, Cornel West, Muhammad Ali, Jesse Jackson (per quanto leader eclissato) e altri che si riconoscono nella tradizione di Martin Luther King Jr.

A questo movimento sono associati attivisti di altre collettività etniche, inclusi i latini, i nativi americani, e i mussulmani. Tutti questi hanno dedicato considerevoli energie al tentativo di penetrare la corrente principale, cercando così di procurarsi posizioni di rilievo politico nel governo, una presenza nei dibattiti televisivi, e una rappresentanza nei gruppi che governano le fondazioni, le università, e le corporazioni. Ma molti di questi gruppi sono ancora più motivati dal senso d'ingiustizia e di discriminazione piuttosto che dall'ambizione, e non sono pronti ad accettare completamente il sogno americano (principalmente bianco e di classe media). La cosa interessante di Sharpton, o di Ralph Nader e dei suoi fedeli sostenitori del partito dei Verdi, che lotta per la sua affermazione, è che nonostante questi abbiano una certa visibilità e una certa accettazione, rimangono comunque degli outsiders, intransigenti, e non sono sufficientemente interessati ai benefici correnti della società americana.

Un'ala importante del movimento delle donne, attivo sulle questioni dell'aborto, della violenza e della discriminazione e della parità professionale, è anche parte importante del dissenso nella societa americana. Gruppi professionali normalmente sonnecchianti, mirati all'interesse e all'avanzata sociale (medici, avvocati, scienziati e accademici, così come alcuni sindacati e una parte del movimento per l'ambiente) alimentano la dinamica delle contro-correnti, nonostante il fatto che, in quanto gruppi corporativi, mantengono un forte interesse nell'ordinato funzionamento della società e nelle agende che ne derivano.

Le chiese organizzate non possono mai essere sottovalutate come terreno fertile per il cambiamento e il dissenso. L'appartenenza a queste va distinta dai movimenti fondamentalisti e tele-evangelici. I vescovi cattolici, i laici e il clero della chiesa Episcopale, i Quaccheri e il sinodo Presbiteriano - nonostante quei travagli che includono gli scandali sessuali cattolici e il calo di partecipanti nella maggior parte delle chiese - si sono rivelati sorprendentemente liberali sulla guerra e sulla pace, e si sono mostrati disposti a prendere posizione contro la negazione dei diritti umani, i bilanci militari iper-inflazionati, e le politiche economiche neo-liberiste.

Storicamente c'è sempre stata una parte della comunità ebraica organizzata che è stata attiva sulle cause progressiste per i diritti delle minoranze sia qui che all'estero. Ma dall'era Reagan l'ascesa del movimento neo-conservatore, l'alleanza tra Israele e la destra religiosa americana, e l'attività organizzata dei sionisti che equiparano la critica di Israele all'antisemitismo, ha considerevolmente ridotto la sua azione positiva.

Molti altri gruppi e individui che hanno preso parte a comizi, marce di protesta, e dimostrazioni per la pace hanno resistito al barbiturico patriottismo del dopo 11/9. Questi hanno fatto cerchio intorno a quei diritti civili, inclusa la libertà di parola, minacciati dal "USA Patriot Act". Le proteste contro la pena di morte e contro gli abusi rappresentati dai campi di detenzione a Guantanamo Bay, combinate con la diffidenza delle autorità civili nelle forze armate, e col disagio nei confronti del sistema carcerario americano privatizzato che imprigiona il maggior numero di persone pro capite al mondo - tutto ciò disturba l'ordine sociale della classe media. Un correlato di questo è la lotta senza regole nel ciberspazio, condotta da organi ufficiali e ufficiosi americani. Nell'attuale forte declino dell'economia, temi deleteri come le differenze tra i ricchi e i poveri, la dissolutezza e la corruzione degli alti gradi corporativi, e il pericolo proveniente dai rapaci piani di privatizzazione per il sistema pensionistico, dannneggiano seriamente le celebrate virtù del sistema capitalista unicamente americano.Sono gli Stati Uniti uniti dietro Bush, la sua bellicosa politica estera, e la sua pericolosa visione economica semplicistica? L'identità americana è fissata stabilmente o esiste, in un mondo costretto a convivere con il potere militare americano, un qualcosa d'altro rappresentato dagli Sati Uniti con cui possono rapportarsi quelle zone del mondo non rassegnate alla passività?

Ho cercato di suggerire un diverso modo di vedere gli Stati Uniti come un paese problematico con una realtà contestata. Penso sia più rispondente pensare agli Stati Uniti come un paese che sta attraversando un serio conflitto d'identità, simile ad altre lotte nel resto del mondo. Gli Stati Uniti possono aver vinto la guerra fredda, ma nel loro interno i risultati di questa vittoria sono lontani dall'esser chiari e la lotta non è ancora finita. Troppa attenzione verso i poteri militari e politici centralizzati nell'esecutivo ignora le dialettiche interne che continuano, e che sono lontane dall'essersi stabilizzate. Il diritto all'aborto e l'insegnamento dell'evoluzionismo sono tutt'ora questioni irrisolte.

L'errore della tesi di Fukuyama sulla fine della storia, o dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, è che entrambi assumono erroneamente che la storia culturale possa avere dei confini delineati, o un inizio, una metà e una fine, quando invece il campo politico-culturale è un campo di battaglia sull'identità, auto-definizione e proiezione nel futuro. Entrambi questi teorici utilizzano un approccio fondamentalista verso culture fluide e in costante turbolenza, e cercano di imporre limiti statici e ordine interno dove nulla del genere può esistere.

Le culture, e specialmente le culture degli immigrati degli Stati Uniti, si sovrappongono l'una sull'altra; una delle forse non intenzionali conseguenze della globalizzazione è la comparsa di comunità trasnazionali di interessi globali - i movimenti per i diritti civili, delle donne e contro la guerra. Gli Stati Uniti non sono immuni da tutto questo, ma c'è bisogno di andare oltre la loro intimidatoria e unificata superficie per riuscire a vedere le battaglie in cui sono coinvolte molte persone nel resto del mondo. Vi è, in questo, speranza e incoraggiamento.



Note

(1) 16 gennaio 2003.
(2) "The Overworked American: the Unexpected Decline of Leisure" Basic Books, New York, 1991.
(3) Linda Symcox, "Whose history: the Struggle for National Standards in American Classrooms" Teachers College Press, New York, 2002.

 




(Tratto dal sito Internet zmag . org)

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