È stato riportato da una notizia a piè di pagina che il Principe
Walid Ibn Talal dell'Arabia Saudita ha donato 10 milioni di dollari
all'Università Americana del Cairo per istituire un centro studi
sull'America. Il giovane miliardario aveva offerto spontaneamente 10 milioni
di dollari alla città di New York poco dopo l'11 settembre 2001, con una
lettera che descriveva la donazione come un tributo alla città di New York e
suggeriva inoltre che gli Stati Uniti riconsiderassero la propria politica
nei confronti del Medio Oriente. Il Principe aveva in mente il totale,
incondizionato supporto americano a Israele, ma la sua educata proposta
sembrava anche includere la generale politica denigratoria, o quanto meno di
mancanza di rispetto, nei confronti dell'Islam.
Con rabbia, Rudolph Giuliani, allora sindaco di New York (che ha la più
numerosa popolazione ebrea di qualsiasi altra città al mondo), restituì
l'assegno, con un estremo, e direi razzista, disprezzo, deliberatamente
voluto come un insulto. Consono con una certa immagine di New York, il
rifiuto di Giuliani voleva affermare la coraggiosa resistenza di principio
della città verso qualsiasi tipo d'influenza esterna. E cercando di favorire,
piuttosto che cercare di educare, un collegio elettorale ebraico
presumibilmente unificato.
Il suo comportamento era in linea con il suo precedente rifiuto nel 1995,
molto dopo il trattato di Oslo, di ammettere Yasser Arafat ad un concerto al
Philharmonic Hall al quale tutti i rappresentanti delle Nazione Unite erano
stati invitati. Per questo la sua reazione verso il dono del giovane saudita
era prevedibile. Nonostante questi soldi, dei quali c'era particolare
bisogno, fossero stati donati come aiuto umanitario ad una città ferita da
una terribile atrocità, il sistema politico americano ed i suoi agenti hanno
messo Israele davanti a tutto il resto, senza porsi il problema se i ricchi e
ben mobilitati gruppi di pressione israeliani avrebbero fatto la stessa cosa
o meno.
Nessuno sa cosa sarebbe successo se Giuliani non avesse restituito quei soldi;
ma visto come sono andate le cose, egli ha praticamente anticipato i gruppi
di pressioni pro-israeliani. Come scrisse la scrittrice Joan Didion nel
"New York Review of Books (1)", un punto fermo della politica
americana, già articolata per primo da FD Roosevelt, è che contro ogni logica
l'America ha contemporaneamente cercato di appoggiare la monarchia saudita e
lo Stato d'Israele; al punto che "non è possibile discutere di qualunque
cosa che possa in quache modo toccare il nostro rapporto con l'attuale
governo d'Israele".
Questi resoconti sul Principe Wallid mostrano una continuità che è rara per
la visione che gli Arabi hanno degli Stati Uniti. Nelle ultime tre
generazioni i leader arabi, i politici e i consiglieri spesso addestrati
negli Stati Uniti hanno formulato politiche per i loro paesi basate su di una
visione degli Stati Uniti fantastica e quasi romanzesca. L'idea di base,
lungi dall'essere coerente, è che gli Americani controllano tutto; nei
dettagli, quest'idea include una vasta gamma di opinioni, che va dal vedere
gli Stati Uniti come una cospirazione di ebrei, al credere che si tratti di
un pozzo senza fondo di benevoli aiuti degli oppressi, o che siano in pratica
governati da un incontestato uomo bianco seduto, come su un Olimpo, nella Casa
Bianca.
Mi ricordo delle numerose volte, nei vent'anni che lo conosco, che ho cercato
di spiegare ad Arafat che gli Stati Uniti sono una società complessa con
molte correnti, interessi, pressioni, e storie di conflitti interni. Non sono
governati allo stesso modo della Siria: un diverso modello di potere e di
autorità che andrebbe studiato. Chiesi anche ad un amico, l'erudito e
attivista politico Eqbal Ahmad, un esperto della società statunitense (e
forse il più grande storico e teorico dei movimenti di liberazione nazionali
anti-coloniali), di parlare ad Arafat insieme ad altri esperti per cercare di
sviluppare un modello palestinese più sofisticato per i contatti preliminari
con il governo americano alla fine degli anni '80. Senza successo. Ahmad aveva
studiato i rapporti tra l'FLN (Front de libération nationale) algerino e la
Francia durante la guerra del 1954-62, così come il modo in cui i nord
vietnamiti avevano negoziato con Henry Kissinger negli anni '70. Il contrasto
tra la scrupolosa e dettagliata conoscenza della società metropolitana, che
questi insorti algerini e vietnamiti avevano, e la quasi caricaturale visione
palestinese degli Stati Uniti (basata su sentiti dire e su frettolose letture
di Time) era desolante. L'ossessione di Arafat era quella di andare alla Casa
Bianca per parlare con il più bianco degli uomini bianchi, il Presidente Bill
Clinton, e questo, pensava Arafat, sarebbe stato come trattare con Mubarak in
Egitto o Hafez al-Assad in Siria.
Se Clinton si rivelò la suprema creazione della politica americana,
sopraffacendo e confondendo i palestinesi con il suo fascino e le sue
manipolazioni del sistema, tanto peggio per Arafat e per i suoi seguaci. La
loro visione semplificata degli Stati Uniti restò immutata, ed è ancora così
oggi. Sia per quanto riguarda il saper resistere che il saper gestire il
gioco politico in un mondo con una sola superpotenza, le cose stanno come
sono state per più di mezzo secolo. La maggior parte delle persone alza le
mani per disperazione - "gli Stati Uniti sono senza speranza, e mai più
ci tornerò".
La storia che offre maggiore speranza per il futuro è quella del cambiamento
di direzione del Principe Walid, sul quale posso adesso solo fare ipotesi.
Esclusi i pochi corsi di letteratura e politica americana nelle università
del mondo arabo, non esiste un centro per la sistematica, scientifica analisi
degli Stati Uniti, del suo popolo, della sua società, e della sua storia.
Neanche in istituzioni come le Università Americane del Cairo e di Beirut.
Questo probabilmente vale per tutto il terzo mondo, e perfino per alcuni
paesi Europei.
Per vivere in un mondo attanagliato da una potenza incontrollata come gli
Stati Uniti c'è un vitale bisogno di tutta la conoscenza disponibile sul quel
turbine che sono le dinamiche di questo paese. E questo include un'eccellente
padronanza della lingua inglese, cosa che pochi leader arabi hanno. Gli Stati
Uniti sono il paese di McDonald's, di Hollywood, della CNN, dei jeans e della
Coca Cola, e tutte queste cose sono disponibili ovunque attraverso la
globalizzazione, le multinazionali, e l'appetito del mondo per articoli di
facile consumo. Ma dobbiamo essere coscienti della loro origine, e del come i
processi socio-culturali dai quali derivano possono essere interpretati, specialmente
perchè è ovvio il pericolo del pensare agli Stati Uniti in un modo troppo
semplicistico e statico.
Mentre io scrivo, la maggior parte del mondo è costretta con la forza ad una
passiva sottomissione agli Stati Uniti (o, nel caso dell'Italia e della
Spagna, ad un'opportunistica alleanza), mentre questi si preparano ad una
guerra profondamente impopolare contro l'Iraq. Se non fosse per le marce e le
proteste che sono scaturite a livello popolare in tutto il mondo, questa
guerra sarebbe uno sfacciato atto d'incontestato dominio. Il livello con cui
questa guerra è contestata da così tanti americani, asiatici, africani, e
latino americani che sono scesi nelle strade, suggerisce che qualcuno infine
si è reso conto del fatto che gli Stati Uniti, o piuttosto quei pochi bianchi
giudeo-cristiani che attualmente ne controllano il governo, sono tesi verso
l'egemonia mondiale. Che cosa possiamo fare?
Voglio ora delineare lo straordinario panorama degli Stati Uniti, visto da
uno che c'è dentro, un americano che ha confortevolmente vissuto qui per
anni, ma che, in virtù delle sue origini palestinesi, mantiene ancora la sua
prospettiva di osservatore esterno. È mio interesse suggerire modi per poter
comprendere, intervenire, e resistere a un paese che è lontano dall'essere
quel monolite che molti credono, specialmente nel mondo arabo e mussulmano.
La differenza tra gli Stati Uniti e gli imperi classici del passato è che,
nonostante ciascun impero storico abbia affermato la propria determinazione a
non ripetere le ambizioni espansioniste dei suoi predecessori, quest'ultimo
impero afferma incredibilmente il suo sacrosanto altruismo e la sua benevola
innocenza. Quest'allarmante illusione di virtù è affermata, cosa ancor più
allarmante, da quegli intellettuali un tempo di sinistra o liberali che nel
passato si erano opposti alle varie guerre statunitensi all'estero ma che
adesso sono pronti a giustificare l'impero virtuoso (la sentinella solitaria
è una delle immagini preferite), con uno stile che va dal raglio patriottico
al cinismo.
Gli eventi dell'undici settembre giocano sicuramente un ruolo in questo
voltafaccia. Ma è sorprendente che gli orribili attachi alle Torri Gemelle e
al Pentagono siano trattati come se fossero usciti dal nulla, piuttosto che
da un mondo dall'altra parte dell'oceano portato alla follia
dall'interventismo e dalla presenza americana. Con questo non voglio
giustificare il terrorismo islamico, che è odioso in tutti i sensi. Ma da
tutte le pie analisi della risposta americana in Afghanistan, e adesso in
Iraq, sono scomparsi la storia e il senso delle proporzioni.
I falchi liberali non fanno alcun riferimento alla destra cristiana (così
simile all'estremismo islamico per fervore e rettitudine) e alla sua
massiccia presenza negli Stati Uniti. La sua visione deriva principalmente
dal Vecchio Testamento, così come quella d'Israele, suo partner e analogo.
Esiste una peculiare alleanza tra gli influenti sostenitori neo-conservatori
americani d'Israele e l'estremismo cristiano, che appoggia il sionismo come
modo per portare tutti gli ebrei nella terra promessa in preparazione per la
seconda venuta del Messia, quando gli ebrei dovranno scegliere tra
convertirsi al cristianesimo o essere spazzati via. Raramente si fa
riferimento a queste rabbiose teologie antisemite, e certamente non da parte
delle falangi degli ebrei pro-Israele.
Gli Stati Uniti sono il paese più dichiaratamente religioso al mondo. I
riferimenti a Dio permeano la vita nazionale, dalle monete, agli edifici, ai
discorsi: in God we trust, God's country, God bless America. La base di
potere di George Bush è costituita da quei 60-70 milioni di cristiani
fondamentalisti che, come lui, credono di aver visto Gesù e sono convinti di
essere qui per compiere il lavoro di Dio nel paese di Dio. Alcuni
commentatori, incluso Francis Fukuyama, hanno sostenuto che la religione
contemporanea negli Stati Uniti è il risultato del desiderio di comunità e
del bisogno di stabilità, che scaturiscono dal fatto che il 20% della
popolazione si sposta in continuazione da una dimora all'altra. Ma questo è
vero solo fino ad un certo punto: ciò che è più importante è la natura della
religione - l'illuminazione profetica, la ferma convinzione di far parte di
una missione apocalittica, e la noncurante indifferenza verso le piccole
complicazioni. Un altro fattore è l'enorme distanza fisica degli Stati Uniti
dal turbolento resto del mondo, così come lo è il fatto che il Canada e il
Messico sono dei vicini a cui manca la capacità di stemperare l'entusiasmo
americano.
Tutto questo va a sommarsi a quei concetti americani di giustezza, bontà,
libertà, promessa economica e avanzamento sociale così intessuti nella vita
di tutti i giorni che non sembrano essere ideologici ma piuttosto un fatto
naturale. L'America è un sinonimo di bontà, e la bontà richiede totale
fedeltà e amore per l'America. Vi è una reverenza incondizionata per i padri
fondatori, e per la costituzione - un documento eccezionale, ma sempre una
creazione umana. L'America degli inizi è il punto fermo dell'autenticità.
Non conosco altro paese dove una bandiera che sventola giochi un ruolo
iconografico così centrale. La si vede dappertutto, sui taxi, sui risvolti
delle giacche, sulla facciata, alle finestre, e sui tetti delle case. La
bandiera è la principale personificazione dell'immagine nazionale, che
simbolizza la resistenza eroica e il senso di essere assediati da nemici
indegni. Il patriottismo rimane la virtù principale, legata alla religione,
al senso d'appartenenza, e al fare la cosa giusta a casa e nel resto del
mondo. Adesso anche le spese dei consumatori sono una questione di
patriottismo: gli americani furono incoraggiati a fare lo shopping come sfida
ai cattivi terroristi dopo l'11/9.
Bush, e Donald Rumsfeld, Colin Powell, Condoleezza Rice e John Ashcroft,
hanno sfruttato questo patriottismo per mobilitare i militari per una guerra
a 7.000 miglia da casa "per prendere Saddam". E dietro a tutto
questo c'è la macchina del capitalismo, che sta adesso subendo un radicale e
destabilizzante cambiamento. L'economista Julie Schor ha mostrato che gli
americani lavorano oggi molte più ore rispetto a tre decenni fa, e guadagnano
relativamente meno (2). Ma non vi è alcuna contestazione politica al dogma
delle "opportunità del libero mercato". È come se a nessuno importasse
di domandarsi se la struttura corporativa, in alleanza con il governo
federale (il quale non è ancora stato capace di fornire alla maggior parte
degli americani una sanità pubblica decente e una solida educazione), abbia
bisogno di essere cambiata. Le notizie della borsa sono più importanti di
qualsiasi riesame del sistema.
Questo è un crudo riassunto del consenso americano, che i politici sfruttano
e semplificano attraverso l'uso di slogan e di frasi fatte. Ma ciò che uno
può scoprire in questa società complessa è quante correnti contrarie al
consenso scorrono in continuazione. La crescente resistenza alla guerra, che
il presidente ha minimizzato e ha preteso di ignorare, deriva da quell'altra
America più informale che i principali mezzi d'informazione (giornali di
riferimento come il New York Times, i network televisivi, e l'industria della
stampa) cercano continuamente di sopprimere. Non vi è mai stata una così
spudorata e scandalosa complicità tra i notiziari radiotelevisivi e il
governo: i giornalisti della CNN e degli altri network parlano con
eccitazione delle malefatte di Saddam e di come "noi" dobbiamo
fermarlo prima che sia troppo tardi. L'etere è pieno di ex-militari, di
esperti di terrorismo e di analisti di politica mediorientale che non
conoscono nessuna delle lingue in oggetto, che probabilmente non sono mai
stati in Medio Oriente, e la cui cultura è così carente da non poter essere
esperti di nulla; e tutti quanti parlano con il rituale gergo del
"nostro" bisogno di fare qualcosa sull'Iraq, e intanto di preparare
le nostre finestre con il nastro isolante contro un attacco di gas nervino.
Perchè è gestito, il consenso opera in un presente atemporale. La storia è il
suo anatema. Nel modo di parlare pubblico persino la parola storia è sinonimo
del nulla, come nella sprezzante frase "tu sei storia". La storia è
ciò che noi, da americani, dovremmo credere per quanto riguarda gli Stati
Uniti (non per il resto del mondo, che è "vecchio" e perciò
irrilevante) - acriticamente, astoricamente. Vi è qui un'incredibile
contraddizione. Nella memoria sociale gli Stati Uniti dovrebbero essere al di
sopra o finanche oltre la storia. Ma in America esiste un generale interesse
per la storia di tutto, dai fatti di rilevanza regionale agli imperi mondiali.
Parecchi culti esistenti in America scaturiscono dal bilanciamento di questi
due opposti, dalla xenofobia allo spiritualismo e alla reincarnazione. Dieci
anni fa ci fu una grande battaglia intellettuale su che tipo di storia si
sarebbe dovuta insegnare nelle scuole americane. Coloro che promuovevano
l'idea della storia americana come una narrazione unificata con risonanze
interamente positive, vedevano la storia come una parte essenziale di quella
rappresentazione ideologica convenzionale che dovrebbe modellare gli studenti
in docili cittadini, pronti ad accettare certe basilari tematiche come
costanti dei rapporti all'interno degli Stati Uniti e tra gli Stati Uniti e
il resto del mondo. Secondo questa prospettiva essenzialista gli elementi di
postmodernismo e di divisione (minoranze, donne e schiavi) andavano
eliminati. Ma il risultato, cosa interessante, fu il fallimento del tentativo
di imporre certi risibili standard.
Linda Symcox scrisse che l'approccio neo-conservatore nei confronti della
"conoscenza culturale era un tentativo non particolarmente mascherato
per inculcare negli studenti una visione consensuale della storia
relativamente libera da conflitti. Ma alla fine il progetto si mosse in una
direzione diversa. Nelle mani degli studiosi della storia del mondo e della
società, coloro cioè che stilarono i curriculum per l'insegnamento, tali
curriculum diventarono un veicolo di quella visione pluralista che il governo
cercava di combattere. La storia consensuale fu combattuta da quegli storici
che pensavano che la giustizia sociale e la redistribuzione del potere
richiedono un maniera più complessa di raccontare il passato" (3).
Nella sfera pubblica presieduta dai principali mezzi d'informazione di massa
esistono ciò che chiamerò "narratemi" che strutturano, confezionano
e controllano il dialogo, nonostante l'apparenza di varietà e diversità.
Discuterò di quelli che considero ora pertinenti. Uno è che esiste un
"noi" collettivo, un'identità nazionale rappresentata senza la
minima obiezione dal Presidente, il Segretario di Stato alle Nazioni Unite,
le forze armate nel deserto, e i "nostri" interessi, visti come
autodifesa, senza ulteriori motivazioni, e "innocenti", così come
una donna tradizionale dovrebbe essere - pura e senza peccato.
Un altro narratema è l'irrilevanza della storia, e l'inammissibilità di
collegamenti illegittimi: per esempio, qualsiasi menzione del fatto che gli
Stati Uniti hanno in passato armato e incoraggiato Saddam Hussein e Osama Bin
Laden, o che il Vietnam è stato "negativo" per gli Stati Uniti o,
come ha detto una volta il Presidente Jimmy Carter, "mutualmente
autodistruttivo". O un esempio ancor più impressionante, l'irrilevanza
istituzionale di due importanti, persino costitutive, esperienze americane,
la schiavitù degli afro-americani e la deprivazione e il quasi sterminio dei
nativi americani. Queste devono ancora essere integrate nel consenso
nazionale. Esiste un importante museo sull'Olocausto a Washington DC, ma non
esiste da nessuna parte nel Paese alcun memoriale del genere sugli
afro-americani o sui nativi americani.
C'è poi la non esaminata convinzione secondo la quale qualsiasi tipo di
opposizione è da considerarsi come anti-americana, e basata sulla gelosia nei
confronti della "nostra" democrazia, libertà, ricchezza e grandezza
o (come dicono quelli ossessionati dalla resistenza francese verso una guerra
americana contro l'Iraq) sulla cattiveria degli stranieri. Agli europei viene
ricordato in continuazione che sono stati salvati due volte dagli Stati Uniti
nel ventesimo secolo, con l'implicazione che gli europei stavano seduti a
guardare mentre le truppe americane combattevano.
Per quanto riguarda quelle zone del mondo dove gli Stati Uniti sono stati
imbrigliati per almeno 50 anni, come il Medio Oriente e l'America Latina, il
narratema degli Stati Uniti come agenti onesti, aggiudicatori imparziali e
forza del bene ben intenzionata non ha seri competitori. Questo narratema non
può prendere in considerazione qualsiasi questione di potere, beneficio
economico, appropriazione delle risorse, appoggio di specifiche etnie, o
forzati o segreti cambiamenti di regime (come in Iran nel 1953 e in Cile nel
1973); questo narratema resta indisturbato eccetto quando occasionalmente
qualcuno faccia riferimento alle situazione specifiche. Il massimo con cui
uno possa avvicinarsi alla realtà di queste questioni è attraverso quegli
idiomi eufemistici dei gruppi di pensiero e del governo, idiomi che discutono
del potere morbido, della proiezione e della visione americana. È ancor meno rappresentata
né si fa allusione alle poco invidiabili politiche di cui gli Stati Uniti
sono direttamente responsabili: le sanzioni contro l'Iraq che causano vittime
civili, l'appoggio alla campagna di Ariel Sharon contro la vita civile
palestinese, l'appoggio ai regimi turchi e colombiani e alle crudeltà di
questi nei confronti dei propri cittadini. Queste cose sono inaccettabili in
qualsiasi seria discussione sulla politica statunitense.
Vi è, infine, il narratema dell'incontenstata saggezza morale rappresentata
dalle figure dell'autorità ufficiale (Henry Kissinger, David Rockefeller, o
qualunque rappresentante ufficiale della corrente amministrazione), che è
reiterato senza alcuna possibilità di dubbio. Il fatto che a due malfattori
condannati dell'era di Richard Nixon, Elliott Abrams e John Poindexter, sono
stati recentemente assegnati incarichi di governo dà adito a pochi commenti,
e ad ancor meno obiezioni. Questa cieca deferenza nei confronti delle
autorità passate o presenti, pura o reticente, è visibile nei rispettosi,
persino abbietti, appellativi usati dai commentatori nei loro confronti, e
nel non voler prender nota di qualsiasi altra cosa sulle autorità eccetto la
loro lustra apparenza, non macchiata da qualsiasi attestata incriminazione.
Dietro a questo comportamento c'è, penso, la fede americana nel pragmatismo
come giusta filosofia per gestire la realtà - un pragmastimo che è
anti-metafisico, anti-storico e, curiosamente, anti-filosofico.
L'antinominalismo postmoderno, che riduce tutto alla struttura del periodo
grammaticale e al contesto linguistico è legato a questo; nelle università
americane questo modo di pensare ha un'influenza pari a quella della
filosofia analitica. Nella mia università, Hegel e Heidegger sono insegnati
nei dipartimenti di lettere e di storia dell'arte, raramente in quelli di
filosofia. Lo sforzo informativo americano recentemente organizzato
(specialmente nel mondo islamico) è disegnato a divulgare queste principali e
persistenti teorie. Le ostinate tradizioni del dissenso degli Stati Uniti -
l'ufficiosa contro-memoria di una società d'immigrati - che fiorisce ai
margini o nel profondo dei narratemi sono completamente oscurate. Pochi
commentatori all'estero notano questa foresta di dissenso. In questa foresta,
un osservatore esperto può notare i collegamenti tra i vari narratemi che non
sono altrimenti visibili.
Se esaminiamo le varie componenti della notevole resistenza alla proposta
guerra contro l'Iraq, vediamo emergere un quadro degli Stati Uniti molto
diverso, un paese cioè più disponibile alla cooperazione internazionale, al
dialogo e all'azione. Tralascerò i molti che si oppongono alla guerra per
motivi di costo in termini di sangue e di risorse, e per i disastrosi effetti
su di un'economia già disastrata. Tralascerò anche quell'opinione di destra
che considera gli Stati Uniti come il bersaglio di stranieri traditori,
dell'ONU, e di comunisti senza Dio.
La costituente libertaria e isolazionista, una strana combinazione di destra
e sinistra, non necessita commenti. Tra le categorie non esaminate includo
anche quella larga popolazione studentesca ispirata dall'idealistismo e
profondamente sospettosa della politica estera americana, specialmente per
quanto riguarda la globalizzazione economica: i principi di questo gruppo, a
volte quasi-anarchici, hanno mantenuto sensibili le università contro la
guerra in Vietnam, l'apartheid in Sud Africa, e la lotta per diritti civili
in patria.
A questo punto rimangono alcune costituenti importanti sia dal punto di vista
della loro esperienza che per la loro coscienza. Queste appartengono, in
termini europei e afro-asiatici, alla sinistra, anche se un organizzato
movimento di sinistra o socialista a livello parlamentare non è mai veramente
esistito nel lungo periodo negli Stati Uniti del dopo seconda guerra
mondiale, così forte è il controllo dell'apparato bi-partitico. Il partito
Democratico è in una situazione di caos dalla quale non si riavrà presto.
Dovrei includere quella disaffezionata e abbastanza radicale ala della comunità
afro-americana - i gruppi urbani che si agitano contro la brutalità della
polizia, la discriminazione sul lavoro, il problema degli alloggi e
dell'educazione, e che sono guidati e rappresentati da figure carismatiche
come il reverendo Al Sharpton, Cornel West, Muhammad Ali, Jesse Jackson (per
quanto leader eclissato) e altri che si riconoscono nella tradizione di
Martin Luther King Jr.
A questo movimento sono associati attivisti di altre collettività etniche,
inclusi i latini, i nativi americani, e i mussulmani. Tutti questi hanno
dedicato considerevoli energie al tentativo di penetrare la corrente
principale, cercando così di procurarsi posizioni di rilievo politico nel
governo, una presenza nei dibattiti televisivi, e una rappresentanza nei
gruppi che governano le fondazioni, le università, e le corporazioni. Ma
molti di questi gruppi sono ancora più motivati dal senso d'ingiustizia e di
discriminazione piuttosto che dall'ambizione, e non sono pronti ad accettare
completamente il sogno americano (principalmente bianco e di classe media).
La cosa interessante di Sharpton, o di Ralph Nader e dei suoi fedeli
sostenitori del partito dei Verdi, che lotta per la sua affermazione, è che
nonostante questi abbiano una certa visibilità e una certa accettazione, rimangono
comunque degli outsiders, intransigenti, e non sono sufficientemente
interessati ai benefici correnti della società americana.
Un'ala importante del movimento delle donne, attivo sulle questioni
dell'aborto, della violenza e della discriminazione e della parità
professionale, è anche parte importante del dissenso nella societa americana.
Gruppi professionali normalmente sonnecchianti, mirati all'interesse e
all'avanzata sociale (medici, avvocati, scienziati e accademici, così come
alcuni sindacati e una parte del movimento per l'ambiente) alimentano la
dinamica delle contro-correnti, nonostante il fatto che, in quanto gruppi
corporativi, mantengono un forte interesse nell'ordinato funzionamento della
società e nelle agende che ne derivano.
Le chiese organizzate non possono mai essere sottovalutate come terreno
fertile per il cambiamento e il dissenso. L'appartenenza a queste va distinta
dai movimenti fondamentalisti e tele-evangelici. I vescovi cattolici, i laici
e il clero della chiesa Episcopale, i Quaccheri e il sinodo Presbiteriano -
nonostante quei travagli che includono gli scandali sessuali cattolici e il
calo di partecipanti nella maggior parte delle chiese - si sono rivelati
sorprendentemente liberali sulla guerra e sulla pace, e si sono mostrati
disposti a prendere posizione contro la negazione dei diritti umani, i
bilanci militari iper-inflazionati, e le politiche economiche neo-liberiste.
Storicamente c'è sempre stata una parte della comunità ebraica organizzata
che è stata attiva sulle cause progressiste per i diritti delle minoranze sia
qui che all'estero. Ma dall'era Reagan l'ascesa del movimento
neo-conservatore, l'alleanza tra Israele e la destra religiosa americana, e
l'attività organizzata dei sionisti che equiparano la critica di Israele
all'antisemitismo, ha considerevolmente ridotto la sua azione positiva.
Molti altri gruppi e individui che hanno preso parte a comizi, marce di
protesta, e dimostrazioni per la pace hanno resistito al barbiturico
patriottismo del dopo 11/9. Questi hanno fatto cerchio intorno a quei diritti
civili, inclusa la libertà di parola, minacciati dal "USA Patriot
Act". Le proteste contro la pena di morte e contro gli abusi
rappresentati dai campi di detenzione a Guantanamo Bay, combinate con la
diffidenza delle autorità civili nelle forze armate, e col disagio nei
confronti del sistema carcerario americano privatizzato che imprigiona il
maggior numero di persone pro capite al mondo - tutto ciò disturba l'ordine
sociale della classe media. Un correlato di questo è la lotta senza regole
nel ciberspazio, condotta da organi ufficiali e ufficiosi americani.
Nell'attuale forte declino dell'economia, temi deleteri come le differenze
tra i ricchi e i poveri, la dissolutezza e la corruzione degli alti gradi corporativi,
e il pericolo proveniente dai rapaci piani di privatizzazione per il sistema
pensionistico, dannneggiano seriamente le celebrate virtù del sistema
capitalista unicamente americano.Sono gli Stati Uniti uniti dietro Bush, la
sua bellicosa politica estera, e la sua pericolosa visione economica
semplicistica? L'identità americana è fissata stabilmente o esiste, in un
mondo costretto a convivere con il potere militare americano, un qualcosa
d'altro rappresentato dagli Sati Uniti con cui possono rapportarsi quelle
zone del mondo non rassegnate alla passività?
Ho cercato di suggerire un diverso modo di vedere gli Stati Uniti come un
paese problematico con una realtà contestata. Penso sia più rispondente
pensare agli Stati Uniti come un paese che sta attraversando un serio
conflitto d'identità, simile ad altre lotte nel resto del mondo. Gli Stati
Uniti possono aver vinto la guerra fredda, ma nel loro interno i risultati di
questa vittoria sono lontani dall'esser chiari e la lotta non è ancora
finita. Troppa attenzione verso i poteri militari e politici centralizzati
nell'esecutivo ignora le dialettiche interne che continuano, e che sono
lontane dall'essersi stabilizzate. Il diritto all'aborto e l'insegnamento
dell'evoluzionismo sono tutt'ora questioni irrisolte.
L'errore della tesi di Fukuyama sulla fine della storia, o dello scontro di
civiltà di Samuel Huntington, è che entrambi assumono erroneamente che la
storia culturale possa avere dei confini delineati, o un inizio, una metà e
una fine, quando invece il campo politico-culturale è un campo di battaglia
sull'identità, auto-definizione e proiezione nel futuro. Entrambi questi
teorici utilizzano un approccio fondamentalista verso culture fluide e in
costante turbolenza, e cercano di imporre limiti statici e ordine interno
dove nulla del genere può esistere.
Le culture, e specialmente le culture degli immigrati degli Stati Uniti, si
sovrappongono l'una sull'altra; una delle forse non intenzionali conseguenze
della globalizzazione è la comparsa di comunità trasnazionali di interessi
globali - i movimenti per i diritti civili, delle donne e contro la guerra.
Gli Stati Uniti non sono immuni da tutto questo, ma c'è bisogno di andare
oltre la loro intimidatoria e unificata superficie per riuscire a vedere le battaglie
in cui sono coinvolte molte persone nel resto del mondo. Vi è, in questo,
speranza e incoraggiamento.
Note
(1) 16
gennaio 2003.
(2) "The Overworked American: the Unexpected Decline of Leisure"
Basic Books, New York, 1991.
(3) Linda Symcox, "Whose history: the Struggle for National Standards in
American Classrooms" Teachers College Press, New York, 2002.
(Tratto dal sito Internet zmag . org)
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