Il vero Che
Enrique Oltuski
- Lei è Arsacio Vanegas,
il messicano che aiutò ad addestrare quelli che venivano sul "Granma"
per cominciare la lotta sulla Sierra Maestra?
- Sì, sono io. Come lo sa? - Me l'hanno detto amici comuni. Io ho lavorato
con il Che e mi dicono che lei lo ha conosciuto bene. Com'era il Che a quei
tempi?
- Io ero amico di Maria Antonia González e di suo marito, due cubani che
vivevano a Città del Messico la cui casa era il centro di contatto per i
giovani che si preparavano a entrare nella futura guerriglia. Quel giorno
María Antonia era malata e io là stavo assistendo quando suonò il campanello
della porta. Aprii e davanti a me apparve un giovane spettinato, di
bell'aspetto, i cui vestiti indicavano che la sua situazione economica non
era florida.
- Cerco Calixto Garcia e Nico López - disse.
- Chi li cerca?
- Il dottor Guevara. - Mi dispiace, ma non ci sono.
La voce di Maria Antonia arrivò dal fondo dell'appartamento.
- Chi è, Vanegas?
- Un giovane, un dottore che cerca Calixto e Nico.
- Be', che non rompa le scatole, se ne vada al diavolo, non è proprio il
momento di fare visite. - È la padrona di casa, Maria Antonia González, che è
malata e non si sente bene - cerca di attenuare Vanegas.
- Accidenti, che carattere... - disse il giovane, lasciò un messaggio e se ne
andò velocemente. Così il Che entrò nella mia vita.
Il giorno in cui il Che e Fidel si conobbero parlarono a lungo. Io aspettai
fuori, e quando uscirono dalla stanza in cui si erano riuniti, Fidel mi
disse:
- Amico Vanegas, il dottor Guevara da questo momento è membro del 26 Luglio.
Mettiti d'accordo con lui perché cominci il suo addestramento.
Dissi al Che che si portasse abiti adeguati, perché avremmo scalato delle
colline, e che ci saremmo incontrati vicino a Guadalupe, al cinema
Buenavista. Lì ci trovammo tutti e cominciammo a camminare verso il nord.
Mentre salivamo la collina facevamo pratica: come respirare, come orientarci,
dove si trovavano il nord, il levante e il ponente. Giorni dopo accelerammo
il passo. Era molto difficile salire la collina con i suoi pendii scoscesi.
Il Che si era staccato, rimanendo indietro, e all'improvviso sento un suono
strano, dico ai ragazzi di continuare a camminare e torno indietro dal Che.
- Che le succede, dottore?
Non mi parlava, mi fece segno di aspettare e io aspettai a lungo, finché non
passò il suo accesso di asma.
- Quello che è successo, Vanegas, non voglio che si sappia in giro, perché
potrebbe significare per me non partecipare alla spedizione a Cuba.
Il Che era molto attivo e benché fosse stabilito chiaramente che il suo ruolo
era quello di medico, cercava di non restare indietro nelle arti marziali,
nel tiro e nelle altre pratiche del combattente.
Dava una mano in tutto. Non faceva le cose per distinguersi, ma per essere
utile agli altri. Tutti venivano a trovarlo quando avevano qualche problema
di salute. Lui, immancabilmente, prescriveva un Mejoral.
- Che, perché prescrivi sempre Mejoral? Io voglio una ricetta come si deve.
- Vai al diavolo - rispondeva il Che. - Non vedi che il Mejoral ti fa stare
bene fisicamente e psicologicamente? In più, è la medicina meno cara.
C'erano pochi svaghi. Se qualcuno usciva, doveva tornare presto. In quei
giorni, e per dare un po' di respiro ai ragazzi, decidemmo di dare una festa
e dico a mia sorella:
-- Invita qualche ragazza del quartiere e compra qualcosa da bere.
Iniziò la festa e tutti bevevano e ballavano, e il Che non beveva né fumava
né ballava. Stava seduto con una bibita fresca e gli dico:
- Balla, Che, balla.
- Adesso, adesso - rispondeva.
Chiamo una delle ragazze e le dico:
- Fallo ballare. Vai, prendilo per un braccio e non lasciare che ti parli,
perché se ti parla ti confonde. Prendilo e non lo lasciare.
Fece così, lo prese per il braccio e gli disse:
- Su, dottore, andiamo a ballare - e lo fece alzare dalla sedia.
- No, no, io non ballo - sorrise. - Ho paura delle donne. Ma la verità era
che il Che non sapeva ballare.
Quando andarono a vivere negli accampamenti nella fase finale della loro
preparazione, i rapporti personali si fecero più stretti, divennero più
intimi. Il Che raccontava dei suoi viaggi in giro per l'America, delle visite
ai lebbrosari, e tutti che gli dicevano, scherzando: non ti avvicinare, mi
contagi. Erano giovani che amavano la vita, ma non una vita qualsiasi. Non
era la parte aneddotica dei suoi viaggi quella che il Che voleva mettere in
evidenza, ma la povertà, come viveva la gente, come vivevano gli indios maya
del Guatemala, la corruzione dei governi. Scriveva molto su questi argomenti.
Sul suo diario scriveva del suo passaggio da un paese a un altro, delle
persone che aveva conosciuto, ma, soprattutto, della povertà e della
schiavitù in cui viveva l'indio americano.
Fidel comprava molti libri che poi circolavano tra i giovani. Ognuno
sceglieva quello che gli piaceva. C'era di tutto, dalla Bibbia a libri su
marxismo, storia, biografie, poesia. Il Che era un lettore vorace, leggeva
molto velocemente e gli piaceva molto la poesia. Scriveva versi. Poi venne
l'azione di polizia, l'occupazione dell'esercito e la gente imprigionata.
Passarono più di un mese nel carcere di Miguel Schultz.
Dal matrimonio del Che con Hilda Gadea era nata Hildita. Nei giorni di visita
Hilda portava la bambina. Il Che, disperato, aspettava che arrivassero.
Quando arrivavano, abbracciava Hildita, la baciava e la faceva vedere a
tutti.
Quando lei aveva fame cominciava a piangere, voleva mangiare e mentre Hilda
la nutriva, su una coperta che il Che stendeva per terra, lui si sedeva
accanto a lei, baciando e accarezzando in continuazione la bambina, con un
orgoglio e una tenerezza che attirava l'attenzione di tutti i suoi compagni.
- Aleida, ti ricordi quando ti incaricai di portare al Che il denaro che mi
aveva chiesto per sostenere la guerriglia? Non mi hai mai raccontato nei
dettagli come vi siete conosciuti e innamorati.
- Sono cose molto intime di cui ritengo di non dover parlare.
- Ma Aleida, l'amore tra il Che e te fu qualcosa di molto speciale che credo
tu debba far sapere a tutti noi che ammiriamo e seguiamo il suo esempio.
- Va bene, te lo racconterò, ma non prendere appunti.
Ebbi la notizia che il Che arrivava al fronte da una colonna guerrigliera
vicino alla nostra provincia. Ricevetti il tuo ordine di incontrarmi con lui
per consegnargli dei soldi per il sostegno alla guerriglia.
Martha Luiyoyo e io andammo al Pedrero. Arrivammo al calar della notte. Fummo
circondate dai ribelli, e il Che stava seduto su una collinetta. Io portavo,
fissati alla vita con del cerotto, cinquantamila pesos che dovevo
consegnargli. Martha mi chiese: che te ne pare? Io le risposi: niente male.
Ciò che mi impressionò maggiormente furono i suoi occhi, lo sguardo. In quel
momento mi sembrò un uomo più vecchio di quello che era in realtà. Non lo
guardai come un uomo: era troppo forte l'impressione della figura che già
era.
Quella notte rimanemmo nella sua casetta e dormii su un'amaca. Lo sèntivo che
parlava fuori con qualcuno, finché non fui vinta dal sonno. Il giorno dopo si
discusse se sarei rimasta come maestra o come infermiera. Io dissi: come
guerrigliera.
Eravamo partiti dal Pedrero il 18 dicembre ed era la sera del 2 gennaio.
Santa Clara era caduta e ci dirigevamo verso L'Avana.
Quando arrivammo a La Cabana, alloggiammo nella stessa casa, ma in stanze
diverse. Nella camera del Che c'era un letto enorme, dove dormivano lui e
diversi altri compagni. Io fungevo da sua segretaria. Il 12 gennaio, mentre
andavamo all'aeroporto a ricevere i suoi genitori, mi diede da leggere una
lettera per Hilda Gadea in cui la informava che tra loro era finita e le
chiedeva di non venire perché stava per sposarsi con una ragazza cubana. Io
gli chiesi:
- Con chi, Che?
- Con te - mi rispose.
Di nuovo, come quella notte in cui marciavamo verso l'Avana, restammo in
silenzio, davanti al peso di quella possibilità. A partire da quel momento il
Che mi perseguitò. Mi prendeva le mani alla sprovvista. Quando capii che
anch'io lo amavo, come un uomo e non solo come l'eroe che tutti ammiravano,
gli diedi il mio amore per sempre.
Il Che passava pochissimo tempo in casa, soltanto la notte del sabato e
qualche pomeriggio della domenica, dopo il lavoro volontario. Non c'è mai
stato molto tempo per parlare. Lui mi diceva di studiare la storia, che un
giorno ci saremmo seduti di fronte al fuoco a parlare di questo che era il
suo argomento preferito, e così feci quando partì per la Bolivia. Volle dei
figli. I bambini erano più legati a me, perché vedevano poco il padre. Lui mi
diceva: approfittane adesso, che quando saranno grandi saranno miei.
Non pensavo che il Che un giorno se ne sarebbe andato da Cuba, finché non
tornò dall'Africa e mi disse che stavolta la partenza per la Bolivia sarebbe
stata definitiva. Non pensò alla morte, fu sempre un ottimista. Pensò che
avrebbe vinto e che poi ci saremmo riuniti.
Gli piaceva la poesia. Ai figli, ai genitori, ai compagni più vicini, lasciò
delle lettere. A me, un nastro registrato con la sua voce, con le poesie che
più amava.
Harry Villegas aveva diciassette anni quando decise di entrare nella lotta
rivoluzionaria con un gruppo di compagni nelle vicinanze della valle del
Cauto, ai piedi della Sierra Maestra. Ricordo la sera in cui io e Harry
Villegas ci incontrammo dopo il suo ritorno dalla Bolivia. Era uno dei pochi
sopravvissuti della guerriglia del Che.
- Harry, si è parlato molto della Bolivia, dell'organizzazione della
guerriglia, dei combattimenti, ma vorrei che tu, che hai partecipato
dall'inizio, mi raccontassi del Che. Come si sentiva, a cosa pensava, di cosa
parlava, come furono quegli ultimi istanti?
- Mi sono formato accanto al Che, sono cresciuto come guerrigliero nelle
faccende quotidiane, nelle azioni di combattimento, nella ricerca perenne del
cibo. E lo accompagnavo quasi dappertutto. Oltre a fungere da intermediario,
l'aiutavo a caricare i suoi libri e l'attrezzatura che portava sempre con sé.
Imparai molte cose dal Che, non solo quando ci dava lezioni di matematica, di
spagnolo o di tattica, ma nella vita quotidiana, con il suo esempio. Il suo
senso della giustizia, il suo essere esigente, il suo coraggio. Era sempre in
prima linea, bisognava quasi trattenerlo.
I miei rapporti col Che cominciarono come rapporti di capo e subalterno. Fu
sempre il nostro capo, la nostra guida, e come tale lo rispettavamo e,
inoltre, si faceva rispettare. Ma gradualmente, in modo molto sottile, quei
rapporti si trasformarono fino a creare vincoli e sentimenti più fraterni, di
compagni, di amici. Vedevamo come si preoccupava per noi, come se fosse
nostro padre. Voleva prepararci perché, quando la Rivoluzione avesse
trionfato, potessimo essere utili nella costruzione della nuova società.
Ci furono momenti molto difficili durante le azioni di combattimento in cui
il Che ci dimostrò che per lui eravamo qualcosa di più che compagni di lotta.
Ricordo come esaltò il valore del Tuma quando cadde in combattimento. Come
me, il Tuma trascorse molto tempo accanto a lui. Il Che disse che aveva perso
uno degli esseri che più amava. Vivevamo insieme, combattevamo insieme,
eravamo presenti in tutte le attività che il Che svolgeva.
Sulla Bolivia si potrà parlare molto, ma ciò che soprattutto voglio
sottolineare è che non si perse la guerra, soltanto una battaglia, perché la
lotta del Che per l'indipendenza dei nostri paesi e la liberazione dall'uomo
americano continuerà, o meglio, è continuata.
Io non posso parlare degli ultimi istanti del Che, perché non ero accanto a
lui quando fu ferito, ma fui con lui fino al giorno 8, che fu l'ultima volta
che lo vidi. In quell'occasione ci espose la sua idea di come combattere nel
caso venissimo scoperti. Irradiava la fiducia che sempre gli ho riconosciuto,
la fiducia nel fatto che dovessimo uscire da lì, la fiducia che la lotta
sarebbe continuata. In quegli ultimi giorni c'era bisogno di molta serenità,
che al Che non mancò mai. Erano giorni in cui rischiavamo di scontrarci con
l'Esercito in qualunque momento. Nelle loro incursioni giornaliere, le
pattuglie ci passavano a pochi metri di distanza. Qualunque rumore, uno
sparo, potevano scatenare una reazione sbagliata, bisognava avere molto
controllo e cercare il momento e il luogo che ci fosse favorevole.
Io mi trovavo a meno di cento metri da dove stava il Che, cosa che in quei
momenti non sapevo. Di fronte avevamo una gola molto ripida, e poi, sotto la
gola, c'era la scuola di La Higuera. Vedevamo il movimento, sentivamo i
soldati che parlavano, il che dà un'idea di quanto fossimo vicini.
La notizia ci giunse per radio. Diedero dettagli di come era vestito, dei
suoi due orologi, poiché portava anche l'orologio che il Tuma gli aveva
lasciato prima di morire perché lo consegnasse a suo figlio. Tutto ciò ci
convinse che davvero il Che era morto.
Per noi fu un colpo mortale, in un primo momento ci sentimmo abbattuti, ma
eravamo figli del Che, eravamo l'argilla che lui aveva modellato e
comprendemmo che bisognava superare quello stato d'animo e riuscimmo a
superarlo. Giungemmo alla conclusione che la guerra non era terminata, che il
Che sarebbe stato presente tra noi con le sue idee e il suo esempio, che
bisognava continuare la lotta fino alla vittoria finale e che gli uomini
potevano farcela, perché l'insegnamento principale che il Che ci trasmise era
che lui era un paradigma raggiungibile.
Conservo i miei ricordi personali:
- Che...
- Dimmi.
- Devo chiederti un favore.
- Dimmi. - Riguarda mio padre, sta molto male.
- Che succede?
- Tu sai che è di origine polacca e religione ebraica. Era un calzolaio in
Polonia. Si sposò con mia madre quando aveva diciannove anni ed emigrarono a
Cuba e io sono nato qui.
Il Che seguiva con attenzione le mie parole.
- Tu sai come sono questi immigrati, fanno soldi velocemente, poiché
ritengono che questa sia la miglior difesa in un ambiente ostile. A Cuba non
hanno mai osteggiato gli ebrei, ma loro si considerano sempre come un'altra
nazione, il popolo scelto da Dio.
- Non era quello che pensava Hitler - mi interruppe il Che.
- Be', il fatto è che mio padre si stabilì a Santa Clara e aprì una propria
bottega di calzolaio. Poi ne aprì un'altra e un'altra ancora... vendeva
scarpe in tutta Cuba. Poi aprì magazzini per vendere materiali e alla fine
mise su una conceria per fabbricarsi da solo la materia prima. Riassumendo, è
diventato ricco. Era usanza a quei tempi che gli uomini ricchi mandassero i
propri figli a studiare negli Stati Uniti e fu così che mi trovai
all'Università di Miami.
- Bene, e poi? - cominciò a spazientirsi il Che.
- Lui si è sempre tenuto al margine della politica e pertanto della
Rivoluzione. Non ha mai saputo delle mie attività clandestine, soltanto dopo
il trionfo. Quando abbiamo nazionalizzato l'industria abbiamo nazionalizzato
anche le sue proprietà. Tutti gli ebrei di Santa Clara se ne andarono da Cuba,
tranne lui, che rimase per me, senza che io glielo avessi chiesto, rimase non
per i nostri ideali, che non capì fino a più tardi, rimase perché capì che
era suo dovere di padre appoggiarmi con la sua presenza, poiché io ero uno
dei capi rivoluzionari.
- E cosa vuoi da me?
- Tu lo interessi, ti ammira, voglio che parli con lui, che lo tratti come
merita, perché lui, che è un uomo d'azione, sisente vuoto, senza obiettivi
nella vita, si sente inutile e sospetto che segretamente voglia far parte
delle nostre file. - Buona idea! Portalo domani. Quando dissi a mio padre che
il Che voleva parlare con lui si stupì.
- Con me?
- Sì, con te, andiamo.
Il Che ci ricevette nel suo ufficio, non di fronte alla scrivania ma su
quella specie di salottino che c'era all'ingresso, dove c'era un'atmosfera
più familiare.
Dopo le strette di mano ci sedemmo sulle poltrone, mio padre visibilmente
teso.
- Desideravo molto conoscerla - iniziò il Che. - So della sua vita, del suo
lavoro, da suo figlio, e vorrei che mi par-lasse della sua esperienza nel
settore delle scarpe, perché si tratta di un prodotto necessario al popolo
come i vestiti, il cibo e la casa. Cosa crede che dovremmo fare per
incrementare la produzione, essere efficienti, produrre noi stessi la materia
prima?
Mio padre cominciò a parlare, all'inizio nervoso, ma subito si rasserenò fino
a raggiungere una chiarezza espositiva che mi sorprese. Ma capii che era
logico che fosse così, poiché parlava del suo lavoro come se fosse
un'avventura.
Il Che lo ascoltava affascinato e raramente lo interrompeva. Quando mio padre
terminò la sua esposizione ci fu il silenzio. Il Che meditava.
All'improvviso il Che disse:
- Ho una proposta da farle. Accetterebbe di essere l'ispettore nazionale
dell'industria calzaturiera?
- Chi, io? - disse mio padre, dandosi una manata sul petto.
- Sì, lei. Nessuno mi ha parlato con tanta profondità e allo stesso tempo con
tanta chiarezza. Ho bisogno del suo aiuto.
- Va bene... accetto.
Uscimmo senza parlare, mio padre mi salutò e sentii che aveva trovato
nuovamente la ragione della sua vita.
- Che cerchi? - sento una voce alle spalle. Mi giro ed era il Che.
- Sto cercando nell'archivio delle carte per il lavoro di cui mi hai
incaricato, ma non riesco a trovarle e la mia segretaria se ne è già andata.
- È importante quello che abbiamo detto sulla diversificazione del commercio
estero. E pericoloso mettere tutte le uova nella stessa cesta - mi dice.
- Sì, sono d'accordo, bisogna approfondire maggiormente i contatti con Europa
e America Latina. Senti, a proposito di America Latina, ho letto l'articolo
che hai pubblicato sulla rivista "Cuba Socialista".
Il Che mi guardò soddisfatto.
- E che te ne è sembrato? - mi domandò.
- Mi è piaciuta l'idea che sviluppi, cominciare la lotta nel centro del
continente e poi ampliarla ai paesi vicini, fino ad arrivare all'Argentina,
logicamente.
Sorrise e riaccese il sigaro che gli si era spento.
- Quello che farai è ciò di cui parli nell'articolo? Si fece silenzio mentre
il Che aspirava il fumo. Alla fine parlò.
- Sì, è quello che farò. Non devo aspettare oltre, presto i miei polmoni
asmatici e le mie gambe non ce la faranno più a scalare le montagne, è giunta
l'ora di partire.
- Quanti anni hai ora, Che?
- Trentasette.
- Sei ancora un ragazzo. Hai parlato con Fidel?
- Certo! Non solo adesso, fin da quando ci siamo conosciuti in Messico gli ho
detto che quando la Rivoluzione si fosse consolidata mi doveva dare il
permesso di partire per combattere in America.
Restammo a pensare, senza parlare.
- Bene, io vado - mi disse, dandomi una pacca sulla spalla, mentre mi
consegnava un libro che teneva sotto il braccio. - Te lo regalo, io l'ho già
letto.
Camminavamo per la montagna il Che e io. Quel sentiero pietroso attraversava
spianate e anche fitte zone boscose ed era stato costruito ai tempi della
colonia spagnola.
- Stiamo consolidando il nostro territorio - diceva il Che. - Presto
cominceranno gli attacchi del nemico e a seguire la nostra controffensiva,
esattamente come è successo sulla Sierra Maestra. Siamo a corto di mezzi ma
spero che riuscirai a fare quello su cui siamo d'accordo.
- Del deposito delle armi abbiamo già parlato - risposi. - Ora scateneremo
un'offensiva nella riscossione del denaro, ho alcune idee...
- Non è solo il deposito - mi interruppe il Che. - C'è bisogno di denaro
anche per mantenere la truppa, i vestiti, le scarpe e soprattutto il cibo,
perché tutto ciò che prendiamo dai contadini dobbiamo pagarlo
scrupolosamente, tu sai che è la nostra regola, perché gli abitanti delle montagne
vedano la differenza tra noi e i soldati di Barista.
- Hai perfettamente ragione, i soldati di Batista rubano di tutto, non pagano
niente, gli rubano perfino le figlie, se le portano in paese e le fanno
prostituire per continuare a sfruttarle. Che gentaglia! Bene, spero che
raccoglieremo i cinquantamila pesos convenuti. Fisseremo una quota per
comune, in proporzione al numero degli abitanti.
Mentre parlavamo scendeva la sera, cominciava a soffiare una fresca brezza.
Camminavamo così piacevolmente che non ci accorgemmo dell'aereo finché non fu
quasi sopra di noi. Era un piccolo aereo da turismo che l'esercito di Batista
utilizzava per attaccare i nostri guerriglieri. Vedemmo chiaramente la
mitragliatrice puntata contro di noi. Che fare? Mi guardai intorno, ci
trovavamo su una spianata ma a una cinquantina di metri riprendeva il bosco
con i suoi alberi alti e fitti. Non ricordo di aver preso una decisione
ragionando, semplicemente mi misi a correre a una velocità di cui dopo mi
meravigliai. Udivo dietro di me il tamburellare della mitragliatrice e alcuni
spari sparsi. Raggiunsi un albero dal tronco molto grosso dietro il quale mi
nascosi. Tirai fuori la testa e vidi come le pallottole della mitragliatrice
sollevavano la polvere da terra. Il Che era fermo nello stesso punto e
sparava contro l'aereo con la sua carabina. Il sudore mi colava sul viso
all'idea della sua morte imminente, ma l'aereo si alzò e cominciò ad
allontanarsi, certamente in seguito agli spari del Che.
Quando l'aereo sparì in lontananza il Che si girò dalla parte dove mi
trovavo, cercandomi con lo sguardo. Io non mi decidevo a uscire. Come potevo
affrontarlo dopo essere fuggito mentre lui si batteva con grave rischio per
la sua vita? Il Che cominciò a spazientirsi e decisi di uscire da dietro
l'albero e cominciai a camminare lentamente verso di lui.
Quando lo raggiunsi, abbassai lo sguardo e guardai per terra, non ebbi il
coraggio di guardarlo negli occhi. Sentii che mi metteva una mano sulla
spalla mentre mi diceva:
- Non ti preoccupare, rimarrà tra noi.
(Brano tratto dal libro Pescando recuerdos, Besa editrice, Lecce,
2005. Traduzione di Francesca Sammarco.)
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